In terre vicine
Diari dall‘alto delle nuvole
«Faranno santo anche lei!»Un monaco domenicano della Ciociaria, poiché ero arrivato a piedi, 2015
Solang ich mich noch frisch auf meinen Beinen fühle,
Genügt mir dieser Knotenstock.
Was hilft’s, daß man den Weg verkürzt!-
Im Labyrinth der Täler hinzuschleichen,
Dann diesen Felsen zu ersteigen,
Von dem der Quell sich ewig sprudelnd stürzt,
Das ist die Lust, die solche Pfade würzt!
Finché mi sentirò ben saldo sulle gambe
mi basterà questa mazza nodosa.
Abbreviare la strada, perché?
Nel labirinto delle valli
perdersi, poi scalare quella rupe
dove eterna precipita, e schiuma, la sorgente:
questo mi godo, camminando!
J. W. von Goethe, Faust - Parte I. Notte di Valpurga (vv. 3838-3844) (trad. F. Fortini)
Così dice Faust a Mefistofele, che invece avrebbe voluto salire sul Brocken accomodato su un sedile. Anche per me è un piacere e una passione camminare, per ascoltare ciò che i luoghi hanno da raccontare.
Visto il luogo in cui abito, nel fuoco dell’arco delle Alpi Occidentali, vado quasi sempre in montagna. Ma come si vede dalla foto a fianco, l’interesse è più ampio. A me piacciono i luoghi in cui l’uomo è solo uno degli agenti che modellano il paesaggio. Vivo in una zona in cui ogni millimetro quadro è segnato da attività umane, e non credo di essere il solo, se c’è chi ha proposto di chiamare Antropocene la nostra era geologica. Gli ambienti artificiali creati dall’uomo sono così pervasivi da essere diventati un importante fattore dell’evoluzione delle specie, per selezione non più tanto naturale. In Italia non esistono luoghi in cui l’uomo è completamente assente: pensate che durante la Prima Guerra Mondiale l’esercito austriaco si adattò a vivere dentro il ghiacciaio della Marmolada e oggi si può acquistare una bottiglia di minerale a 4000 metri. Ma esistono posti in cui l’uomo deve limitarsi a coabitare. Questi si trovano indifferentemente a tutte le quote. Non mi reco lì per svolgere attività fini a se stesse, che li sfruttano solo come sfondo, ma piuttosto per godere di quello che offrono: i panorami di un poggio, la luce dopo un temporale, il silenzio di una nevicata, il fischio del vento, i fugaci incontri con i selvatici, i colori dei fiori, il profumo dela resina, ma soprattutto i racconti orali e materiali che persone e luoghi sussurrano. Per quello che mi riguarda, il modo di andare non deve costringere a concentrarsi sul gesto tecnico, ma essere naturale, spontaneo, per permettere di concentrarsi sul posto visitato.
Non è facile, per chi ha il fondoschiena cucito a un sedile, e della montagna conosce solo i ristoranti o le aree barbecue accanto al parcheggio, percepire la differenza tra un paesaggio vissuto nelle budella piuttosto che visto scorrere tra due isole di interesse, come quando si va in auto da un punto a un altro. Non è più un film che ci passa davanti fuori dal nostro controllo, che non possiamo fermare e interrogare, ma è invito continuo alla sosta e all’esplorazione. (Certo c’è anche chi cammina come se andasse in automobile, mirando dritto a una cima, ma non è per loro che è inteso questo sito). Per costoro non è per niente facile comprendere il piacere di muoversi con le proprie gambe lontano dalla civiltà moderna e dalle sue comodità, di prendersi la pioggia o di sbucare sopra le nuvole dopo due ore nella nebbia fitta, di farsi cuocere dal sole arrancando su una morena o sferzare dal vento su una cresta, di discutere con gli amici davanti a una cartina o condividere con loro un tarallo, senza avere nulla di concreto ma neppure di inutile da conquistare, né la gloria di una vetta inviolata né un partner. Sono esperienze da provare, che a un motorizzato sembrerebbero inafferrabili: sarebbe come se un giovane monaco cercasse di capire il Nirvana dalla prima lezione del bodhisattva. Bisogna invece arrivarci per gradi, sperimentando sulla propria pelle a piccoli passi le esperienze.
Altrettanto inintellegibile risulterò a coloro che salgono in montagna per praticare outdoor, ovvero per svolgere attività in cui la componente tecnica e le sensazioni personali legate al gesto sono dominanti, mentre è marginale l‘apprezzamento per i dintorni. Aldous Huxley nella sua distopia consumista di Brave new world immaginò un futuro strutturato su costoro, e oggi gli enti del turismo sembrano concordare con lui: divenuto meno proponibile lo sci di discesa per i cambiamenti climatici, i loro interessi si vanno indirizzando verso altre attività con mezzi meccanici, che abbisognano di impianti moderni, altrettando distruttivi di una pista o una seggiovia nei confronti della viabilità agricolo-pastorale adoperata dagli escursionisti.
Probabilmente a tale maggioranza niente affatto silenziosa noi sembriamo qualcosa di delirante e incomprensibile, come le usanze di qualche tribù papuasica, di cui non conosciamo le premesse che li spingono a certi comportamenti per noi bizzarri. Eppure questi piaceri sono nati proprio tra i beneficiari della modernità, ma evidentemente qui in Italia non è stata ancora metabolizzata, o forse lo è stata in modo diverso che in Europa, come mostrano le rivelatorie citazioni in testa alla pagina. Questo avviene nonostante le montagne, rispetto a paesi di consolidata tradizione escursionistica, come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, occupino una parte molto più consistente del territorio, una porzione tuttavia marginale per la cultura e le istituzioni.
Nel 1820 il conte di Mezzenile scriveva a proposito dei suoi vagabondaggi sui sentieri nelle Valli di Lanzo: «Di qui la copiosa scaturigine di mille piaceri morali che non saprei definire, assolutamente ignoti a tutti coloro che non conoscono queste regioni alte della terra». Sono parole ancora attuali: l’ascensione, che in moltissime religioni ha un significato cosmico, non perde il suo valore in un mondo secolarizzato.
Questo sito raccoglie i racconti e le foto di alcune escursioni che ho condotto negli ultimi lustri. Sto imparando a camminare senza badare ai tempi di percorrenza impiegati o ai dislivelli superati, ma cercando di guardarmi intorno con consapevolezza. L’intenzione non è quella di sostituirmi alle guide escursionistiche: non troverete affatto indicazioni di dislivelli, di tempi di percorrenza, di bivi o segnaletica, a meno che non siano funzionali all’ascolto di ciò che il territorio e il viaggio mi hanno raccontato. Per chi volesse ripetere il percorso, indico le eventuali guide che ho utilizzato. Lo scopo di questo sito è invece trasmettere uno dei possibili perché girare a piedi faticando, anziché standosene seduti comodi su un mezzo motorizzato.
Perché però occupare del tempo, parecchio più lungo di quello dell’escursione, a scrivere? Un po’ è perché, dovendo pensare a scrivere un racconto, durante l’escursione mi costringo a stare più vigile, sia verso l’esterno che l’interno: riesco così a cogliere di più dall’esperienza. Un po’ è per il piacere di condividere quello che ho scoperto, che l’internet permette di estendere anche agli sconosciuti, ma affini per passioni.
Tuttavia la risposta migliore arriva dalla saggezza di un montanaro, con cui aveva parlato l’antropologo Marco Aime. Così giustificava la sua abitudine di intessere gerle durante il riposo dei campi: «È roba che non rende niente, ma d’inverno cosa fai?». Riflettere sull’esperienza vissuta, andare in biblioteca a cercare libri, scartabellare (digitalmente) vecchi giornali, sono tutte attività inutili, ma che mi riempiono il tempo libero cittadino in maniera costruttiva e arricchente, donandomi la medesima soddisfazione che prova chi vede un oggetto formarsi per azione delle proprie mani. Mi permettono di apprendere cose diverse e complementari a quelle che imparo nei boschi, di viaggiare nel tempo oltre che nello spazio.
I racconti sono una miscela di parole e immagini. I due registri sono diversi e complementari: non tutto ciò che attira l’attenzione dell’escursionista è rappresentabile efficacemente in una foto, né una buona foto può essere tradotta in parole altrettanto seducenti. Per questo non cerco di fotografare tutto quello che vedo e nemmeno tutto quello che mi colpisce, ma mi limito alle frasi che possono essere rese nel linguaggio proprio della fotografia. Qualunque fotografo alle prime armi ha imparato a proprie spese che una bella scena non diventa per forza una foto che rievoca le sensazioni dell’esperienza originaria. Non di rado mi è capitato di tornare da gite bellissime senza buone foto, sia perché il nostro sistema occhi-cervello e la macchina fotografica sono strumenti di acquisizione abbastanza diversi, ma anche perché l’aspetto visuale è solo una parte di un’escursione piacevole. Ad esempio, adoro camminare sotto una pioggia leggera, ma in quei momenti di solito il cielo è una poltiglia lattiginosa che rovina qualsiasi soggetto. Oppure, l’esperienza avvolgente di una foresta solo con opportune luci può essere convertita in una forte immagine bidimensionale. Per fortuna, invece, esperienze toccanti in genere mi aiutano a scrivere resoconti coinvolgenti. Per questo, la scelta delle gite incluse talvolta è condizionata dalla mia abilità di evocare le esperienze vissute con le immagini e le parole più che dall’interesse del percorso.
Come vedrete, di solito mancano le foto delle persone. Non è perché ami andare da solo: anzi, lo faccio raramente, solo quando l’alternativa sarebbe starmene a casa a contare le auto sulla tangenziale. Non è solo questione di sicurezza, ma piuttosto la possibilità di imparare dal modo degli altri di vivere la natura. Infatti molto di quello che si legge in questo sito non è farina del mio sacco, ma nasce da quello che ho appreso grazie al confronto con i compagni di viaggio, oltre che da amici sconosciuti autori di libri e articoli, che mi hanno insegnato a leggere gli ambienti che attraverso. Mi piace poi anche chiacchierare con i montanari che incontro, ma non li fotografo, in parte per mie limitate abilità relazionali, che non mi consentirebbero di ricavare un ritratto significativo, in parte per la reciproca ritrosia a fotografare e essere fotografati.
Compaiono deli compagni di viaggio quando la loro presenza crea o sottolinea un’emozione legata all’esperienza.
Nel Regno del Prete Gianni dove abito si può visitare ad un’infinità di meraviglie, anche solo con gite di uno-due giorni: laghi glaciali, faggi capitozzati, abbazie sperdute, eriofori, creste, mareggiate, chiese arroccate, morene, mirtilli, seraccate, tetti a piode, formiche rufe, valli sospese, domuncule, cenge aeree, nebbie autunnali, orridi, scogliere, vigneti terrazzati, vie di pietra, silenzio, caprifogli.
Magari voi pensate che tra i viali di Serravalle Scrivia o nell’archivio di Netflix ci sia un mare di roba da vedere, ma è una bazzecola in confronto ai sentieri. Soprattutto però, tutto quanto là è davvero tanto diverso da ogni esperienza nella civiltà: «tutto ciò di cui abbiamo trattato fino a questo libro, lo si può considerare creato in funzione dell’uomo: le montagne, invece, la natura le creò per sé», scrive Plinio per introdurre l'ultimo libro della sua monumentale Naturalis Historia.
Prendete l'asciugamano e seguitemi: come al circo Barnum, spero troviate tutti qualcosa di vostro gusto.