Pointe Joanne 3054 m
Val Varaita
29 agosto
In un baleno
Ho scelto di tornarci anche perché inizialmente credevo che il nome francese fosse un riferimento a una qualche leggenda del ciclo della reine Jeanne/reino Jano del folklore provenzale, mentre prima di partire ho scoperto che era stata banalmente intitolata dai primi salitori all’allora presidente del C.A.F., un importante autore di guide alpinistiche

Diario di viaggio
Pointe Joanne o Cima di Losetta si trova al vertice di tre valloni: Guil nel Queyras, Soustra e Vallanta in val Varaita e offre uno sguardo a volo d’uccello su di essi. Soprattutto però si trova dirimpetto alla parete nordoccidentale del Monviso, che si mostra imponente e in tutto il suo selvaggio splendore: «la sua parete nord si sviluppa a gradini, travolgente per l'audacia dei suoi canaloni e dei suoi ghiacciai la cui esistenza è un miracolo di sospensione». La vista da Breuil sul Cervino je spiccia casa, chiosano dunque i primi salitori registrati nel 1877, Salvador e Guillemin: sebbene il detto romanesco era certamente loro ignoto, il concetto espresso è precisamente quello. Rispetto a un secolo a mezzo fa i ghiacciai si sono raggrinziti, come mostra il confronto tra la mia foto e quella di Henri Ferrand che salì sulla cima nel 1895 con le elefantiache attrezzature del tempo, ma la meraviglia resta la medesima. Naturalmente solo se ci si va in quei giorni, rari d’estate e più comuni in autunno, in cui il gruppo non viene avvolto dalle nebbie fin dal mattino: «il sereno di sera dura quanto una mela cotta», recita un proverbio indigeno.
Ho scelto di tornarci anche perché inizialmente credevo che il nome francese fosse un riferimento a una qualche leggenda del ciclo della reine Jeanne/reino Jano del folklore provenzale, mentre prima di partire ho scoperto che era stata banalmente intitolata dai primi salitori all’allora presidente del C.A.F., un importante autore di guide alpinistiche. Il più antico nome italiano è invece un tradizionale riferimento geomorfologico tratto dall’immaginario dei montanari, come capita poco distante con le Lobbie e le Forciolline, in questo caso in relazione alle rocce scistose che la costituiscono e si fratturano in lastre, dette appunto lauze in dialetto.
Dal versante italiano entrambi i valloni, assai diversi tra loro per aspetto, meritano la visita. Sebbene gli attacchi dei due sentieri non siano vicinissimi tra loro, è possibile congiungerli quasi senza interagire con il traffico motorizzato tramite lo spettacolare e misconosciuto traverso sulle pendici del Tre Chiosis oggi intitolato a Nanni Lanzetti, un padre nobile dei CAI di Savigliano, che gestisce il rifugio omonimo presso l’attacco e lo ha segnalato e divulgato dal 1991.
Consorzio civile
Gli stagionali dei frutteti saluzzesi girano in bici nel cuore della notte, bardati come se i 15° odierni fossero pieno inverno, generalmente senza luci o al massimo con il gilet Lunardi, per rettilinei dove l’automobilista è invitato dalla sua impunibile etica assassina a premere sull’acceleratore ben oltre i limiti. In valle il camioncino dei polli arrosto smuove la pioggia di ieri dalle foglie sopra la strada e la riversa sul mio parabrezza. Un ciclista si ferma in mezzo alla corsia di discesa, dove può vedere la morte in faccia e regolarsi di conseguenza, per fotografare l’indorarsi del Pietralunga. Poco prima, in concomitanza con la prima luce rosso fuoco sul Nebin, il titolare del bar di Sampeyre si era spazientito per la goffaggine di un novizio e gli aveva strappato le redini del mio caffè con modi bruschi, mentre lo stereo mandava l’ultima strofa dell’inno dello stalker.
Alla partenza la temperatura è di 7°C, per cui indosso doppia maglia in poliestere e i guanti. Maddalena, dall’impronta architettonica sciistico-coloniale, è ancora deserta, la chiesa degli esadattili chiusa e il contiguo bar sta quasi per aprire. Genzana è decisamente più etnica, sia nelle case ristrutturate con estetica e materiali moderni che in quelle rimaste rustiche. La strada retaggio del Vallo Alpino costeggia il rifugio in stile boomer, dove le luci della sala sono accese (era invece desolatamente abbandonato a Maddalena l’albergo che fungeva da posto tappa quando venni in villeggiatura da ragazzo). Quindi sale a tornanti prati meticolosamente spietrati e fittamente solcati dalle draie, fino a Sellette, un gruppo di case ora ristrutturate per la villeggiatura, in passato l’abitato permanente più elevato della valle a ben 1850 m. Qualche proprietario o qualche impresario ha oscurato la riga dello scolorito cartello Valle Varaita Trekking, dove un montanaro esprime riserve sull’operazione immobiliare di recupero, ma stranieri curiosi hanno abraso la pennellata e ripristinato il lato in inglese.
Lanzetti
Said the straight man to the late man
Where have you been?
I've been here and I've been there
And I've been in between
I talk to the wind
My words are all carried away
I talk to the wind
The wind does not hear
The wind cannot hear
La luce radente del sole appena sorto sopra i dossi, che inonda tutto il sentiero Lanzetti, mi lascia gioiosamente frastornato come il primo abbraccio con la donna della vita, la mia luce (lunare) privata. A lei risulta incomprensibile che io possa provare dei sentimenti per entità che non possono contraccambiare: dovevano pensarlo pure i montanari, che pertanto gremirono ogni stupidissimo sasso e ogni simbolo celeste di ierofanie in grado di rispondere ai loro slanci. Io che sono auto riferito mi accontento dei miei moti d'animo e della sfida con me stesso di trasporre in fotografia la frazione collaborativa di invisibile.
Oggi è evocato dal sommesso gorgoglio dei ruscelli rianimati dalla pioggia di ieri dopo la siccità che ha bruciato i prati e le genziane, dagli sciaf dei miei scarponi nella loro acqua limpida dopo un mese di polvere, dalle pieghe della Terra scavate dalle slavine e colonizzate dai larici, dalle pennellate di luce che modellano i pendii ondulati in astrazioni effimere gialle e nere, dai contorni chiari per il controluce dei bianchi vitelli piemontesi in trasparenza tra i fili d'erba, dagli intrichi di rami dell’inestricabile bandita fesa da lame di luce, dal silenzio della mattina senza vento.
Credo che l’inafferrabile mi affascini soprattutto perché in questi istanti mi appare come mera percezione quantistica, che assume qualità solo dall’interazione con me, qualità astratte e indecifrabili come lo spin, svincolato da ogni bisogno concreto che non sia quello di afferrare l'attimo e farlo carne con la fotocamera, quasi cieco e sordo di tutto il resto. Nemmeno la visione del Monviso dalla vetta mi darà le stesse emozioni, anche se per un attimo, scorgendo delle nuvole basse sul lago, mi vengono gli occhi lucidi alla fantasticheria di trovare un mare di nuvole al passo e riuscire a fotografare lo spettro del Brocken con il Monviso sullo sfondo.
Soustra
Prima per prati e poi per un fresco lariceto, di fronte a pareti verticali di roccia chiara, scendo alle Grange del Rio, lungo la strada del colle dell'Agnello percorsa da rombanti motociclette. All'imbocco del vallone di Soustra, sono base dei pastori e parcheggio degli escursionisti. Solo ora mi levo la seconda maglia, mentre ai guanti avevo rinunciato da tempo, bevo e spruzzo la crema solare sulla pelle scoperta.
È prativo il versante solatio dove corre il sentiero, che si inoltra nel vallone, invece l'opposto è occupato da larici illuminati di raso e quindi con il fotogenico aspetto di cime verdi che fuoriescono dal mare di ombra nera. Mi faccio tentare dall'abusata foto e la scatto quando la prospettiva mi propone la torre ocra del Tour Real come sfondo; il cielo è così blu che il polarizzatore sarebbe controproducente.
Quando oltrepasso una protuberanza, mi si presenta innanzi una vasta conca pianeggiante senza neppure un cespuglio, abbastanza verdeggiante vista la siccità, dove pascolano un paio di equini e anche qui bistecche di fassona. Le baite sono basse, perché le ripide pareti attorno, sempre erbose, d'inverno scaricano slavine: negli anni ’70 un rifugio venne distrutto da una di esse e non fu più ricostruito; un capo gita CAI mi raccontò di una ciaspolata primaverile in cui dovettero oltrepassare delle colate tra il terrore di certi partecipanti (e pure il mio, se ci fossi stato).
Al termine del piano mi sento affaticato e faccio pertanto una pausa rifocillatoria a base di noci e mango essiccato. Inizia quindi la lunga risalita del vallone, che resta erboso fin quasi al colle, di sforzo rilassante per la pendenza continua, ma non tedioso nonostante la totale assenza di alberi. Il pastore su una motoretta puzzolente mi sorpassa, per andare da un gruppo di vitelli lasciati in quota. Lo vedrò sincerarsi della solidità del recinto di filo; ne incontro parecchi tronconi lungo la via, a indicare che tutto il vallone è sfruttato durante le transumanze: quest’anno tale necessità è più pressante del solito, in quanto l’obbligo di stare in alpeggio un tempo minimo per accedere ai contributi non fa sconti in caso di siccità. Al termine dell’erba incrocio quattro escursionisti in discesa alla spicciolata e infine arranco il giusto sulle ripide rampe nel macereto a corona del pendio terminale del vallone, dove il sentiero sale abbastanza diretto.
Losetta
Al colle mi aspetta appunto la parete nordoccidentale del Monviso, con modeste nubi sul versante nascosto, oltre a quattro escursionisti seduti, tutti ben coperti per la fresca brezza, tra cui una francese intenta a mangiare un trancio di baguette. La fotografo come elemento etnico, ma purtroppo dimenticando di mettere a fuoco l’obiettivo manuale. Non mi fermo molto e punto deciso alla vetta, che raggiungo quasi senza sforzo, in souplesse. Il sentiero non è segnalato, se non da sporadici ometti, ma è difficile perderlo ed è agevole, non richiede l'uso delle mani. In alto si sdoppia sui due versanti di Soustra e Vallanta. In cima per prima cosa mi riparo dalla brezza fredda con un paio di strati e con i guanti e poi consumo la ciotola di orzo, lenticchie e melanzana alla curcuma. Non c’è nessuno adesso, ma sul quaderno di vetta trovo le firme dei signori incrociati prima, oltre a quelle delle frotte di gente che salgono ogni giorno; io lascio un po’ di pubblicità al sentiero Lanzetti, un tipo di percorso in traverso snobbato dai collezionisti di vette, che frequentemente vanno su e giù per la diretta.
I primi salitori amavano chiaramente darsi un tono, perché la loro salita dal colle di Soustra e la loro discesa sul colle di Vallanta sono decisamente più accidentate della mia dorsale. Peraltro mi riesce difficile credere che cacciatori o pastori preistorici non siano mai saliti, vista la facilità di accesso e la vicinanza ai pascoli, anche se i due affermano di non aver trovato segni umani. Allora edificarono un semplice ometto di pietre in cui lasciarono i loro biglietti, oggi sostituito da una croce metallica, in ossequio alla tradizione posteriore, che estende alle vette la necessità di marchi del predominio umano. In passato erano riservati alle terre messe a coltura strappandole al bosco e alle sue creature selvagge e diaboliche. Dopo il successo dell’alpinismo nella cultura di massa, però, anche le vette sono state considerate terre da redimere con spirito di conquista, anziché essere connotate positivamente come luogo naturale di evasione legittima dal mondo civile, fino all’hegeliana sintesi e sorte attuale di sfondo per l’esibizionismo digitale delle genti urbane.
Lo sguardo da un singolo punto sui tre valloni che quassù convergono, così diversi tra di loro nella morfologia, parrà incredibile a chi non è abituato alle vette, ma non è nemmeno tanto comune su quelle su cui sono stato. È una visione egualitaria delle montagne, in cui le individualità di cime e valli concorrono all’insieme senza che alcuna sovrasti. Sull'elenco di vette enumerabili non posso competere con i primi salitori né men che meno con peakfinder, per cui mi arrendo senza combattere.
Sul Re di Pietra invece ho solo da aggiungere che le foto non possono rendere l'imponenza della massa rocciosa, che si può solo apprezzare dal vivo, in tutte e tre le dimensioni reali. Questo versante è meno popolare dell’iconica parete est visibile dalla pianura e più a portata di automobile, forse anche meno aggraziato, ma sprigiona più potenza e sublime. Camminare insegna che l’esperienza appresa di cartine, guide, foto è fondamentale per avviarsi al mondo montano, ma non consente di afferrare quello che offrirà l’esperienza diretta: la si conosce solo con le proprie gambe.
Arriva intanto un ciclista francese, seguito dalla consorte a piedi. Gli chiedo se è riuscito a stare sempre in sella, visto che dopo la spalla subito sopra il colle il fondo mi pareva abbastanza accidentato, e lui sorridendo risponde di no.
Vallanta
Scendo rapidamente al colle, dove vado a fotografare i rotoli di filo spinato bellico che ricordo dagli anni ’90 e, poco sotto, faccio una breve visita ai ruderi di una casermetta difensiva del Vallo Alpino. Proseguo con l'intenzione di prendere un caffè al rifugio Vallanta, la cui costruzione moderna era ben visibile dalla vetta. Sulla bretella dal sentiero diretto a valle devo passare accanto a un gregge di pecore, che dall'alto avevo visto fare evoluzioni. Arrivo sottovento, cosicché i grossi cani pelosi, non maremmani piuttosto forse pastori dei Pirenei, non mi fiutano, ma quando passo sopravvento mi circondano abbaiando e ringhiando; avanzo lentamente cercando di mostrare calma, uno mi tocca e poi spariscono d’amblè.
Dal sentiero del col Vallanta appare chiaramente la natura glaciale del laghetto accanto all'edificio, così come della valletta da cui arrivo con il ripido fianco con spuntoni sotto il pianoro delle pecore. Il rifugio non ha letti liberi stanotte. Quelli che sento parlare sono gruppi impegnati nel giro del Monviso. Scopro che, pur essendo grande e moderno, ha un’unica turca per genere e un paio di lavandini in ognuno dei due bagni; la doccia è fuori uso.
Dalla soglia glaciale su cui sorge il rifugio scendo gradualmente per l'ampia stradina militare, incrociando una certa quantità di gente intenta a salire lentamente, gravata da zaini pesanti. Raggiungo un pianoro con vitelli al pascolo, sotto un'enorme placca levigata. Dirimpetto ci sono le balze acuminate a franapoggio del Tre Chiosis, di rocce ed erba, da cui d’inverno colano cascate di ghiaccio. Il vallone, che dalla testata pareva un immenso corridoio dove lanciarsi con la tuta alare sentendo il fischio del vento nelle orecchie, ora da vicino acquista maggior fisionomia e invita alla lentezza. Penso che potrei tentare di fotografare i giochi di luce ed ombra sulle balze grazie ai raggi quasi radenti, quando proprio allora un nuvolone viene a frapporsi. Riesco in compenso a immortalare del pittoresco alpino sotto forma di torrente spumeggiante, prati e ruderi romanticheggianti.
Un paragrafo a parte merita l’imbocco del vallone delle Forciolline: di fronte a me una fitta cembreta, periferia dell’Alevè, nasconde le pendici. Da essa emerge a destra una massa possente e caotica di colonne rifinite ad accettate dalle molteplici frane, che hanno riversato alla base pietraie informi, a sinistra una torre dotata di guglie. Nella forra tra le due corre la prima via di salita al Monviso, dove oggi è stato segnato un sentiero dedicato a Ezio Nicoli, il copywriter alpino a cui si deve il marchio di pubblico dominio Re di Pietra, titolo della sua monografia dedicata alla montagna.
Superati gli imbocchi di altri sentieri diretti al passo di San Chiaffredo e al bosco dell’Alevè, ammiro un magnifico esempio di casa alpina in pietra con archi, di quando qui serviva alloggio per intere famiglie dedite ai lavori pastorali. Intorno fischia qualche marmotta abbastanza confidente. Prima avevo visto una balma costruita sotto un masso erratico. Entro infine nella parte di vallone a morfologia fluviale infossata, dove il torrente ha scalzato lo scalino del vallone sospeso. Le segnalazioni conducono su una bretella a monte del sentiero più diretto, magari per una frana che però dall’alto non riesco a vedere. Un agnello disperso si aggira solitario e impaurito, ma purtroppo lungo la via non ho visto alcun pastore da avvisare.
Rettilineo a gomito
Alla biforcazione del sentiero prendo il ramo per Castello, stacco la modalità aereo del cellulare, perché qui prevedo di trovare rete, assieme alla quale trovo le chiamate senza risposta e i messaggi disperati dell’apprensiva donna della vita: non vedendo accessi a WhatsApp da ieri sera, già mi dava per morto, per cui la chiamo immediatamente per rassicurarla.
Tuttavia, dopo aver riagganciato, per distrazione inciampo in un tratto un piano dal fondo terroso e finisco e pancia in giù, senza neppure opporre resistenza con i bastoncini. Recupero gli occhiali trenta centimetri più avanti, mi tocco per vedere se ho perso pezzi e mi accorgo che tra le due ossa sferiche del gomito destro si è formato un incavo anomalo. Spoiler: frattura scomposta dell’ulna con necessità di operare per mettere una pezza bionica. Almeno riesco ad alzarmi, per non finire protagonista nel solito comunicato sconsolato e irritato del Soccorso Alpino, quasi ossessivo per frequenza e ripetitività quest’estate: se muoio per una caduta in paese non mi intitoleranno certo un bivacco o un sentiero, al più avrò una targhetta dei parenti su un masso vicino.
Richiamo per avvisare che l’ottimismo era prematuro e proseguo sulla diga senza nemmeno dare un’occhiata al lago e allo stesso modo sulla stradina sterrata pedonale che lo costeggia. Nel frattempo il cielo a occidente si è coperto e più tardi cadrà un po’ di pioggerella. Dato che riesco a muovere il gomito e non fa male, l’idea sarebbe di guidare ai 50 fino al pronto soccorso più vicino e poi vedere. Tuttavia la donna della vita, che è appunto più apprensiva ma in aggiunta più dotata di sale in zucca (anche grazie alla cucina della famiglia di origine), si offre di venirmi a raccattare con suo papà e guidare la Panda fino all’ospedale vicino a casa nostra, per evitare che nel tragitto si stacchi qualche brandello di osso finora risparmiato. Inganno l’attesa in un locale, che si affolla di turisti in un batter d’occhio, con delle ravioles, gli gnocchi locali conditi con burro e formaggio. Nel contempo attorno al gomito si forma un bel bozzo.
Quando arriva le chiedo perdono, perché domani avremmo avuto in programma 120 km di tandem, ma a questo punto ci potremo andare solo quando farà freddo, senza contare che nella vita feriale dovrà dismettere il ruolo di amante in favore di quello di badante. Quasi a casa, scopre che forse all’andata ha preso due multe per eccesso di velocità dai rilevatori lungo le circonvallazioni della statale 20, perché il navigatore le segnala indifferentemente quelli veri e quelli finti, per cui non gli bada più. Vedrò se riesco a convincerla a farseli rimborsare dal responsabile.
Per approfondire
- H. Ferrand, Ascension de la pointe Joanne (3054 m.), Annuaire de la Société des Touristes du Dauphiné, 20.1894, Grenoble 1895
- MM. Salvador-Guillemin, Ascension de la poine Joanne (3156 met.), Annuaire du Club alpin français. 1877
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