Tour du Rois Mages

Valle di Susa/Maurienne

25 agosto


In un baleno

I Re Magi (Gaspare, Baldassarre e Melchiorre) sono tre cime dolomitiche di circa tremila metri di altezza, che si trovano tra la valle della Rho e la Valle Stretta, in alta valle di Susa. I nomi che la tradizione cattolica ha associato agli evangelici Magi nascono da un devoto pellegrino medievale, che aveva anche attribuito il nome Tabor a una cima vicina

Rocca Bernauda
Rocca Bernauda

Diario di viaggio

I Re Magi (Gaspare, Baldassarre e Melchiorre) sono tre cime dolomitiche di circa tremila metri di altezza, che si trovano tra la valle della Rho e la Valle Stretta, in alta valle di Susa. Dal momento che la valle Stretta è passata alla Francia dopo l'ultimo conflitto, la loro catena segna oggi anche il confine tra quest'ultima e l'Italia. I nomi che la tradizione cattolica ha associato agli evangelici Magi non sono stati attribuiti da qualche fantasioso militare dello stato maggiore sardo o da alpinisti mistici, ma da un devoto pellegrino medievale di ritorno dalla Terrasanta, che aveva anche attribuito il nome Tabor a una cima vicina. Henri Ferrand, alpinista e studioso francese, circa un secolo fa condusse un'analisi sulle iscrizioni incise sul quarto vaso di Vicarello, che contengono i nomi delle tappe e le distanze del percorso tra Gades (Cadice) e Roma. Ne dedusse che la via, nel tratto tra Briançon e Susa, risaliva la valle della Clarée e passava sul col des Muandes, dove ancora oggi transita una mulattiera, con una tappa di 35 km e 2000 m di dislivello. La ragione di ciò va cercata in una sacralità della cima del Tabor. La cappella del Tabor, descritta come antica già nei primi documenti che ci sono pervenuti, è oggetto di un importante pellegrinaggio, nonostante non sia legata a eventi di rilievo nella storia locale. Ferrand ipotizzò che, come spesso capitava, fosse stata edificata sul luogo di preesistente culto delle divinità montane. Un escursionista ottocentesco riferisce che sull'allungata cima, «sopra un piccolo sprone, che sporge sul versante italiano, sta una strana costruzione quadrata, che si vuole sia un monumento funerario». I nomi evangelici sarebbero pertanto stati attribuiti nel Medioevo a queste quattro cime per cristianizzare il luogo, integrando nella nuova religione le usanze dei montanari.
L'accesso a queste tre cime gemelle è relativamente semplice, per cui furono scalate dai primi alpinisti sul finire dell'Ottocento, a volte anche senza l'accompagnamento di guide del posto. Gli stessi salitori ammettevano però che, in alcuni casi, i cacciatori di camosci talvolta potrebbero averli preceduti. In questo articolo è descritto il lungo anello che ne compie il periplo, risalendo la valle della Rho a partire dal Borgo Vecchio di Bardonecchia, svalicando nel dipartimento della Savoie, per poi tornare sul versante cisalpino nella Valle Stretta, dapprima nel dipartimento delle Hautes Alpes, quindi, a pian del Colle, tornando in Piemonte. Può essere compiuto in giornata o spezzato pernottando al refuge du Thabor. L'escursione è perfetta per chi ama i bei paesaggi dell'immaginario alpestre romantico: tra alpeggi pittoreschi, impressionanti formazioni erosive, picchi dolomitici, panorami su lontane cime ghiacciate, conche prative, boschi pristini, l'occhio riceverà abbondante mercede.

Lascio l'auto nel parcheggio della stazione di Bardonecchia, e, superata la ferrovia per il sottopasso, mi inoltro lungo via Medail, la via celebre via dello struscio. È dedicata a colui che per primo, al principio dell'Ottocento, ebbe l'idea di costruire un traforo ferroviario sotto il colle del Fréjus. Lui morì prima che il progetto si concretizzasse, ma la sua creatura portò fortuna al paese, che, grazie all'afflusso di funzionari legati alle operazioni di frontiera, evitò lo spopolamento comune a quasi tutti i centri alpini. Inoltre la ferrovia, completata nel 1871 e oggi affiancata da un traforo stradale e un'autostrada realizzata negli Anni Novanta del Novecento, favorì lo sviluppo del turismo invernale legato allo sci e alle relative seconde case, ancora oggi la cifra distintiva del paese. Ciò attirò anche l'interesse della 'ndrangheta, tanto che il paese fu il primo comune del nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose. Questo sviluppo raggiunge il suo apice appunto in via Medail, un agglomerato di palazzoni in cemento. Ben pochi di quelli che trascorrono le vacanze estive qui camminano in montagna, ma preferiscono assembrarsi lungo questa strada, tanto che oggi, durante l'epidemia di COVID, sono stati previsti due sensi unici pedonali sui marciapiedi, per ridurre gli assembramenti.
Alle 7.30 del mattino, mentre il primo sole raggiunge le cime in fondo all'infilata della via, ci sono solo pochi mattinieri, come quelli che portano a spasso il cane o vanno a fare colazione al bar. Prendo anch'io un buon caffè in una pasticceria e risalgo la via fino al termine, dove trovo le prime paline che mi conducono dentro il Borgo Vecchio, la parte storica del paese. Qui c'è qualche architettura più affine all'immaginario alpino e una fonte dove riesco a cambiare l'acqua padana, ma anche un inatteso traffico di automobili.
Dalla chiesa imbocco la via, che porta il nome del vallone che dovrò risalire nella mattina, Rho, dirigendomi verso una bastionata di montagne dolomitiche illuminate dal primo sole, mentre qui sono ancora in ombra. Anche Borgo Vecchio ha una sua periferia moderna di casette con giardino. Gli ultimi edifici sono un albergo e delle costruizioni miltari, una delle quali funge da presa per l'acquedotto, dopodiché comincia il bosco misto di larici, aceri di monte e frassini.

La pista terrosa sale ripidamente, per cui ai primi raggi di sole devo togliere lo strato che finora mi ha protetto dal fresco del mattino (la temperatura in paese era di 8° C). Al bivio per il poggio Tre Croci e il sentiero del Dahu, un pannello racconta la leggenda di questo simpatico animale, diffusa soprattutto nell'area francofona (si trovano dipinti al Forte di Bard). Scende intanto di gran carriera un motociclista, nonostante il transito sia vietato ai mezzi motorizzati. Raggiungo una spalla erbosa dove c'è una croce, da cui ammiro la valle e le montagne dolomitiche attorno a cui girerò oggi. Accanto alla croce c'è un grande mucchio risultato dello spietramento. Poco oltre, dove la mulattiera è bordata da due filari di alberi, costeggio un bel prato, ai cui margini scorgo dei caprioli dileguarsi nel bosco. Taglio a più riprese una strada militare e continuo a salire in quello che doveva essere un pascolo arborato, perché non si vede una pietra per terra; oggi il bosco si è espanso e infittito. Arrivo alle Grange della Rho, dove ci sono delle baite ben tenute e nessun'anima viva in giro. In questa zona, che fino al Settecento ha fatto parte del Delfinato, gli alpeggi portano ancora il nome francofono di grange. I tetti sono in lamiera, perché in questa zona non ci sono gneiss adatti a fare lose. Magari una volta erano fatti in paglia di segale, una copertura molto leggera e durevole, che però oggi non è più reperibile, essendo venuta meno la magra agricoltura di sussistenza. In paese ci sono anche tre fontane, di cui abuso. I dintorni sono occupati da prati solatii.
Proseguo lungo la strada militare, bordata di alberi. Sui rami di un frassino si fa ammirare da vicino una ghiandaia. Sul versante sinistro ci sono delle bellissime pareti, dalle tonalità rosse, pallido dolomitico e blu. Mi inoltro in un bosco misto di larici e pini silvestri e raggiungo cappella dedicata nel Settecento alla Madonna nera di Monserrat, per voto di un marinaio di Bardonecchia (!), scampato ad un naufragio al largo di Barcellona, dove è venerata. La statua del tempo, così come dei quadri e degli arredi furono depredati nel 1981 e sostituiti successivamente. Transito ai piedi di un pendio erboso spietrato, ondulato dal soliflusso e raggiunto da una luce radente che ne esalta le morbide forme. In un fresco lariceto scendo verso il torrente. Sento fischiare un picchio nero, che intravedo anche.
Supero il rio, che è molto magro anche perché l'acqua scorre in parte dentro il letto detritico, oltre cui c'è un divieto per i mezzi motorizzati. Subito oltre un rio secondario ha portato un po' di detriti. Salgo ripidamente nel lariceto e poi sbuco in ambiente aperto da cui ammiro un ottimo esempio di quello che nei rapporti della Milizia Forestale fascista era detto «regime idrico disordinato», ovverosia un rio che ha profondamente inciso una gola prativa, creando un andamento molto irregolare di salti. Anche sul mio lato c'è un ripido pendio spoglio, anche se quasi piatto, fatto di sassi bianchi pochissimo vegetati. Un escursionista ottocentesco attribuiva tutto ciò ai disboscamenti legati all'assalto alla montagna ottocentesco, quando per l'esplosione demografica e il passaggio all'economia di mercato i boschi furono sottoposti a una pressione elevatissima, che fece venir meno le norme di autocontrollo dei sistemi medievali di gestione delle risorse collettive. Stava nascendo allora il movimento d'opinione che avrebbe portato alle leggi forestali e ai tentativi di rimboschimento del primo Novecento, tanto che lo stesso bollettino conteneva altri articoli intitolati Le inondazioni ed il regime forestale e Danni alla salute pubblica per il disboscamento. Scriveva:

Alle Granges de la Roue [grafia francese della Rho, ndr] l'osservatore avrà a sé di fronte un'arida ed imponente parete di montagna che ricorda qualche lembo delle Alpi Dolomitiche, la Costa dei Tre Re Magi, costituita per la metà superiore di banchi calcari inclinanti verso ovest, formante magnifiche ed impraticabili balze, da cui scendono lunghe striscie triangolari di detriti. Poggia in basso su decomposti depositi di gesso e calceschisti, roccie eminentemente intaccabili dall'acqua, e soggette a scivolare frantumate quasi in colate di fango; tanto più i calceschisti, chiamati in generale pietre marcie dagli alpigiani. In una località poco distante dal contatto dei calcari colle roccie inferiori havvi una frana in continua attività che gli abitanti denominarono il vulcano, attribuendo erroneamente l'incessante rovinar di massi a ben diversa causa, e scambiando il polverìo della roccia frantumantesi col fumo de' vulcani; qualche raro individuo di pianta conifera sta là vicino a testimoniare come in tempi passati un verde ammanto di foresta doveva rivestire quell'erta, e, non solo cementare le infrante roccie tra cui le radici si infiltravano, ma proteggerle ancora in gran parte dall'azione degradante delle acque meteoriche. Abbattuta sconsigliatamente, e diradata la foresta gli agenti meteorici presero il sopravvento, intaccando e privando d'ogni solidità i calceschisti; i massi calcarei sovrastanti originariamente fessurati privi di appoggio si staccano dalla madre roccia, rimangono scarnati denti sospesi e vacillanti per certo tempo sulla debole base; giunge un rovescio d'acqua, tutto si smuove, scende, precipita in rovinosa valanga al fondo del vallone; le torbide acque del torrente si arrestano momentaneamente a monte dell'improvvisa diga, poi la rompono, e seco asportandone violentemente i resti, sboccano nel piano, non più correnti d'acqua, ma sì di detriti cementati da liquida poltiglia; là allargandosi questa fangosa e detritica deiezione si depone su tutto ciò che incontra, formando la rovina dell'incauto alpigiano.
Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol VI n. 20, 1873

Il sentiero è ampio, ma molto detritico e mi costa un po' di pena risalirlo, perché il piede tende a scivolare indietro, nonostante la pendenza contenuta. Passato nuovamente il rio, trovo dei bei prati (in precedenza avevo visto delle vacche pascolare sul ciglio di un salto di roccia, non lontano dall'impluvio eroso), ma la speranza di un fondo migliore dura poco: il fondo del sentiero resta molto sassoso. Costeggio il ciglio di quella che non sembra essere una morena, ma piuttosto del detrito di falda, perché non ci vedo i grossi massi che la caratterizzano. Tuttavia è altrettanto scomoda da risalire, perché sulla cresta corre un'ampia via di sassi bianchi alquanto franosa. Sono molto accorto nel seguire il sentiero, che evita per quanto possibile questa scorciatoia, risalendo invece a tornanti più regolari, ma comunque dal fondo sassoso e franoso. Alla mia sinistra ho il corso del torrente molto più basso di me, che ha inciso questo deposito, mentre in alto ci sono pareti dolomitiche con alla base enormi conoidi di deiezione, formati da ghiaia fine e chiarissima, come le pietre del sentiero.
Faccio una pausa a Pian dei Morti, non lontano da una costruzione militare. Dietro un dosso ci sono un signore e una signora di mezza età svaccati. Il panorama verso valle, che si è ampliato a poco a poco una volta terminato il bosco, è ora vastissimo e blu per la distanza e il controluce. Mangio qualcosa di energetico, bevo e mi cospargo di crema solare, contribuendo all'inquinamento delle terre alte.
Riparto imboccando subito la traccia sbagliata, un taglio però più marcato della via principale. Svolto attorno a una dorsale poco pronunciata, dove il vallone piega leggermente puntando a nord, ed entro in una vallecola decisamente più pianeggiante ed erbosa della zona percorsa dal primo a guado a qui, che era parecchio ripida. Sono ormai in vista del colle. Aggiro degli accumuli morenici ai piedi dei conoidi di deiezione di Rocca Bernauda, la cima più a ovest d'Italia, da quando la valle Stretta è passata alla Francia. Da qui si presenta come un picco piramidale, come le cime dei disegni dei bambini. Quasi afferro due cuccioli di marmotta molto imprudenti che aspettano l'ultimo istante prima di rifugiarsi nella tana.
Superato il bivio per Punta Nera, la cui cima dal colore fedele al nome avevo visto salendo nel vallone, arrivo al colle, dove soffia una brezza fresca e tesa. Alle mie spalle l'ampia conca erbosa percorsa nell'ultimo tratto, con lo Chaberton e la piccola piramide aguzza del Pic de Rochebrune, nel lontano Queyras a fare da sfondo. Alla destra la catena dei Re Magi, che una tavola di orientamento mi consente finalmente di riconoscere. A colle una croce di legno con incisi i nomi dei territori che qui confinano e oltre delle belle montagne calcaree, mentre lontano le cime della Vanoise con dei ghiacciai, di cui rimane solo il circo sommitale. Leggo qualche cartello di argomenti storici e naturalistici e scendo abbastanza in fretta, prima che il vento mi faccia intirizzire. Poco sotto di me c'è un bel dosso protetto, dove potrei pranzare, se non fosse che è già occupato da una signora accompagnata da un cane.
Scendo e sono accolto dal cane, che è molto rumoroso ma simpatico, anche se tiene le distanze. La corpulenta signora assomiglia tantissimo a una donna che conosco, sia nel fisico che nei lineamenti del volto. Procedo per una zona assai erosa, fenomeno aggravato dal fatto che anche i francesi tagliano parecchio per la via più diretta, anziché seguire i tornanti, a volte anche in bici. Alla mia sinistra ho altri ampi conoidi di deiezione della Rocca Bernauda, mentre alla mia destra una ripida parete resa cupa dall'ombra che la avvolge. Al termine di questa zona arrivo ad un bivio, con dei cartelli di segnalazione, dove decido di mangiare la prima parte del pranzo.

Lascio il sentiero che scende a valle e prendo a sinistra una traccia che rimane più o meno in quota, dove corre anche la GR5, il trek di lunga percorrenza delle Alpi Francesi, segnalato da tacche biancorosse simili a quelle del CAI. Lo seguirò fino alle Grange di Valle Stretta. Ondeggio tra dossi morenici, come si capisce dai massi di varie dimensioni che mi circondano. Qui sono coperti di erba, mentre più a valle, dove c'è una grande conca, sono in certe zone molto erosi dal torrente, che oggi è pressoché secco. Dopo essere rimasto a lungo tra erba e sassi, passo per una zona colonizzata da bassi cespugli di rododendro. Su e giù per dossi, arrivo alla base di una dorsale erbosa, dove c'è una romantica fioritura di epilobi. Comincio la salita della dorsale evitando la traccia più marcata, che sale diretta, seguendo invece il vecchio sentiero che fa un tornante. Dove mi congiungo alla prima, trovo una coppia di ragazzi francesi che mi chiedono delle indicazioni. Ad ogni modo, non conosco nessuno che sarebbe in grado di perdersi qui, visto che i sentieri sono molto evidenti e a ogni bivio ci sono le paline. Apparentemente la ragazza non parla nemmeno un inglese di sopravvivenza come il mio.
Raggiungo in breve la sommità erbosa, che porta il nome di col de la Replanette, ma è piuttosto un chiot, una zona pianeggiante su una dorsale tra due rami di uno stesso vallone. Mi affaccio su una grande conca erbosa scavata da un torrente, dove ci sono dei casolari e della vacche scure al pascolo. Alla testata della conca la sbarrano il monte Tabor, di cui solo in foto individuerò il piccolo parallelepipedo della chiesetta, e un picco dolomitico a forma di cuneo, il Dent de Bissorte, dietro cui si eleva il Cheval Blanc. Tra di loro nella Piccola Era Glaciale esisteva un ghiacciaio, che ora è scomparso e ha lasciato al suo posto una complessa struttura: un cosiddetto ghiacciaio pietroso, ovverosia un complesso di massi che si muovono per effetto della loro interazione con il permafrost, sotto cui persistono dei blocchi di ghiaccio.
Una marmotta grassa mi corre poco davanti e si fa ammirare, prima di sparire dentro la sua tana; provo a curiosare dentro, per vedere se mi sta spiando, ma si è inabissata. In quota, raggiungo la confluenza con un sentiero che sale da valle, da dove mi hanno anticipato due ragazze francesi. Per dossi morenici, a volte sassosi, a volte erbosi, con vista sul refuge du Thabor, arrivo al colle della valle Stretta, dove ci sono una croce lignea analoga a quella del colle della Rho e uno striminzito laghetto quasi secco. Ci trovo un certo affollamento di francesi, mentre gli italiani sono più rari e di solito di età avanzata. Mi porto poco fuori sentiero su un dosso erboso, dove mi fermo a rilassarmi e mangiare la seconda parte del pranzo, con vista su questo lato della Rocca Bernauda.

Scendo fino a un avvallamento prativo, inciso al suo centro dal torrente. Dove termina, godo di una bel punto di vista sul Tabor, con in primo piano dei colorati terreni erosi. Scendo quindi gradualmente sempre su un prato, dove il sentiero si disperde tra molte tracce parallele. Più sotto vedo un altro pianoro, chiamata Piane de Tavernette, che raggiungo tagliando una ripida sponda, con un sentiero incredibilmente eroso. Per di più io, da purista, seguo il sentiero storico marcato dai segni della GR, che si rivela la più sconnessa tra le alternative. Mi imbatto in rocce di gneiss con inclusioni di quarzite, mi sembra, completamente diverse per natura e origine rispetto alle rocce calcaree e dolomitiche viste finora: arrivano dalla cima del Tabor e delle montagne circostanti.
Raggiungo incolume il pianoro, dove mi porto sul versante opposto seguendo i paletti segnavia e superando il torrente su una passerella metallica. Questo pianoro molto allungato, dall'ampio fondo pianeggiante, è circondato su ambo i lati da picchi dolomitici: i Re Magi a ovest, il Grand e Petit Seru a est. È davvero infinito: ogni tanto mi sembra di arrivare sulla soglia, ma poi mi accorgo che c'è un gradino lievemente più in basso dove si prolunga. Verso la fine compaiono i primi larici, tra cui alcuni monumentali, nella forma diradata del bosco parco, anche se qualche esemplare eroico sopravviveva già più a monte sui bordi del detrito di falda. Al centro il torrente si scava un solco sempre più profondo, prima di precipitare nella valle, mentre sul margine orientale un rio secondario scava un avvallamento meno profondo. Da questo ruscello si diparte una canaletta che va ad alimentare una pozza abbeveratoio, trasformata in spiaggia da alcuni turisti. Fa molto caldo e sono assetato, per cui mi fermo a bere e mangiare un frutto.
Finalmente qui finisce il piano e il sentiero supera il salto sottostante con secchi tornanti, naturalmente tagliati da scorciatoie. Oltre il salto il sentiero torna a scendere più gradualmente in un lariceto che fa poca ombra. Il sentiero si disperde in mille rivoli e presenta un tratto molto eroso, poco prima di arrivare al ponte della Fonderia, presso alcune vecchie miniere.
Non mi sembra vero di trovare del fresco e dell'ombra, per cui non mi faccio pregare a fare una lunga sosta sulla riva del torrente. Medito anche di mettere i piedi a mollo, ma non sono questi la parte più sofferente, per cui soprassiedo. Resto come incantato a guardare i larici traslucidi, le danze dei fitofagi, l'acqua che scorre, ad ascoltare il mormorio del torrente fino a non snetirlo più e a farmi penetrare il naso dal profumo di umido e muschio. Mi richiede un po' di sforzo rimettermi in moto.
Riparto, tra un numero maggiore di persone, italiani saliti dalle Grange di Valle Stretta, da cui si arriva con una breve e dolce salita su stradina, che percorro a ritroso. Tra zone ombrose e altre più solatie, schivando bimbi in bici lanciati a tutta velocità, arrivo alle Grange, dove faccio rifornimento di acqua e mi fermo al rifugio italiano, anche se siamo ancora in Francia, a prendere un tè con dello strudel. Al tavolo accanto ci sono quattro donne francesi che stanno percorrendo un trek e fanno tappa qui. Quest'anno ho rinunciato ai trek, per le limitazioni imposte dall'epidemia ai luoghi comunitari, mentre altri si sono mostrati più adattabili di me.

Avrei la possibilità di prendere la navetta che porta a Pian del Colle e di lì l'ultima corsa per Bardonecchia, ma ho attraversato questa zona solo una volta in auto, per cui desidero vederla un po' meglio, con il ritmo contemplativo della camminata. Per la verità coltivo anche l'illusione di avere il tempo di percorrere a piedi questo primo tratto più bello e prendere solo la seconda navetta, ma ben presto mi renderò conto di essere un pessimo matematico.
Seguendo la traccia che taglia i tornanti della strada, passo tra i parcheggi più o meno affollati di auto. Sono preceduto da una signora bionda con un cane, che si agita a dismisura quando passiamo per l'alpeggio comunale, dove ci sono dei compassati cani che vorrebbero fare amicizia con lui. Ci sono anche recinti per animali da cortile e da pascolo tenuti con ordine e pulizia non certo sudtirolesi. Qui la valle merita il suo nome, perché ha un stretto fondovalle pianeggiante, dove c'è posto solo per il torrente, la strada e poca pineta. È delimitato a ovest da un'altissima parete dolomitica, verticale e quasi nuda, a parte alcuni pini abbarbicati tra le fenditure della roccia; il punto più alto di questa parete è la Guglia Rossa, dove salii da ragazzo con le scarpe da tennis durante un'esperienza merendera al colle della Scala, da cui tornai a valle con un'unghia incarnita. A est ci sono invece i ghiaioni sotto le pareti dei re Magi. Da qui il sole dev'essere scomparso da parecchie ore, anche se la sera non è ancora cominciata. L'unica zona illuminata è la cima del Petit Seru, al fondo dell'infilata.
Quando mi rendo finalmente conto che non riuscirò mai a raggiungere la seconda navetta, neanche planando, sfrutto un ponte di legno per passare sulla sponda opposta, lasciando la strada e le sue auto; per tracce raggiungo il sentiero che la percorre. Intanto il quarto di luna è spuntato a sud e si fa fotografare con le guglie dolomitiche. Incontro prima una coppia con una cagnetta paurosa, poi passo accanto a un accampamento di ragazzi che sono seduti in gruppo e stanno accendendo un fuoco, per vivere un'esperienza di socializzazione serale. Per socializzazione intendo che bottiglie di birra sono sparse un po' ovunque. Non hanno camminato tanto per venire qui: poco distante da loro c'è un ponte da cui si raggiunge la strada sul versante opposto.
Il sentiero sale (se fossi con gli amici a questo punto mi giustizierebbero) ed entra un un bellissimo bosco naturale di pini uncinati, dove si trovano alberi di ogni età, da quelli giovani a quelli maturi, dal legno morto a quelli coperti di licheni, con un ricco sottobosco di uva ursina. Per il suo pregio, questa pineta è stata scelta dalla Forestale francese come bosco da seme. Raggiungo il punto più alto dove un rio, che ha trascinato a valle dei detriti fini, precipita in una profonda forra scavata dal torrente principale, che corre molto più in basso di me, in un valle sassosa. Mi sorpassa intanto un barbuto, che vedrò poco innanzi a me fino a Melezet e incrocio una soave fanciulla al piccolo trotto.
Termina la pineta pura e compaiono in lontananza le piste di Melezet. Raggiungo il Pian del Colle, dove entro in Italia, come testimoniano anche i segnavia CAI che compaiono lungo il percorso, ora una sterrata. Passo accanto a un campeggio immerso nella pineta, a monte del quale corre una linea elettrica ad alta tensione. In piano raggiungo una fonte all'imbocco del sentiero per Punta delle Quattro Sorelle, una cima accanto ai Re Magi, e raggiungo quindi la strada. Finalmente prende il cellulare e posso avvisare casa che va tutto bene. Seguo la strada e poi passo sulla sponda opposta, lungo una sterrata in un punto sassoso della valle. Torno sulla strada al piazzale degli impianti di risalita, che funzionano anche d'estate.
Tralascio il percorso segnalato per Bardonecchia, che prosegue sulla sponda del torrente, dove vedo per l'ultima volta il barbuto davanti a me. Entro invece a Melezet (il nome significa larice in francoprovenzale), che da lontano mostrava un bel campanile e magari ha qualche architettura pregevole. In effetti ha una bella chiesetta, adorna di fiori, oltre a un paio di pizzerie in via di affollamento e un signore in castigo a fumare su un minuscolo balcone. Consultando Topo4u, decido di restare sulla strada secondaria, anziché tornare sul sentiero segnalato, perché ormai è ora di cena e immagino che non ci sia traffico. Infine Bardonecchia regala qualche emozione al mio perverso fascino per l'orrido, in particolare con il Villaggio Olimpico, una via di mezzo tra un carcere e un sanatorio per tubercolotici.

Tredici ore dopo la partenza sono all'automobile, con cui vado a festeggiare con birra, salsiccia e patatine, come nei peggiori film di Bud Spencer, pure innaffiate dall'acqua più radioattiva del mondo.

Per approfondire

H. Ferrand, Les vases gaditaines de Vicarello, Revue Alpine, CAF Section Lyonnaise, Volume 25, 3° trimestre 1924
S. Monnier et al., Structure and genesis of the Thabor rock glacier (Northern French Alps) determined from morphological and ground-penetrating radar surveys, Geomorphology 134 (2011)
F. Vallino, Una passeggiata al Monte Tabor, Bollettino del Club Alpino Italiano, vol 12 n.35, 1878

Galleria fotografica

Bardonecchia - Via Medail
Bardonecchia - Via Medail
Bardonecchia - Via Medail
Bardonecchia - Via Medail
Bardonecchia - Borgo Vecchio
Bardonecchia - Borgo Vecchio
Grange della Rho e Re Magi
Grange della Rho e Re Magi
Vallone della Rho
Vallone della Rho
Vallone della Rho
Vallone della Rho
Vallone della Rho
Vallone della Rho
Conoidi di deiezione
Conoidi di deiezione
Rocca Bernauda
Rocca Bernauda
Vallone della Rho e Re Magi dal colle
Vallone della Rho e Re Magi dal colle
Rocca Bernauda
Rocca Bernauda
Fioritura di eplilobi
Fioritura di eplilobi
Combe de Roches
Combe de Roches
Refuge du Thabor e Cheval Blanc
Refuge du Thabor e Cheval Blanc
Valle Stretta
Valle Stretta
Rocca Bernauda
Rocca Bernauda
Monte Tabor
Monte Tabor
Colle di Valle Stretta
Colle di Valle Stretta
Valle Stretta
Valle Stretta
Piane de Tavernette
Piane de Tavernette
Grand Seru
Grand Seru
Grange di valle Stretta
Grange di valle Stretta
Valle Stretta
Valle Stretta
Valle Stretta
Valle Stretta
Melezet
Melezet
Bardonecchia
Bardonecchia
Bardonecchia - Villaggio Olimpico
Bardonecchia - Villaggio Olimpico

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