La via delle acciughe

Da Acqui Terme a Voltri: la via del sale in salsa verde

4 tappe


Presentazione

L’idea di questo breve viaggio a piedi di quattro giorni è nata per serendipità, un poco alla volta. Una sera mi fermai a cena con gli amici a Campo Ligure, un paese ai piedi del Passo del Turchino, dopo un’epica escursione nel gruppo del Beigua. Vidi che era segnalato un sentiero per il Bric del Dente. Da lì a Voltri il passo non era breve, ma si poteva fare: una classica “Via del sale”, dall’entroterra al mare. Consultai gli orari del treno e vidi che si poteva percorrere in giornata. Quando comprai la cartina della zona, scoprii che ce n’era un altro analogo segnato da Tiglieto, di maggiore spessore storico, per via dell’abbazia cistercense. Qui però, non sarei mai riuscito ad arrivare con i mezzi pubblici da Torino. Mi ricordai allora del sentiero segnalato da Acqui Terme a Tiglieto, che a suo tempo mi aveva intrigato ma era impraticabile in una gita di un giorno. Presi allora a googlare tutti i nomi dei paesi attraversati associati con “albergo”, “pensione“, o “locanda”, per capire se ci fosse da dormire. Alla fine trovai le ospitalità ad una distanza l’una dall’altra adatta a una camminata giornaliera. Verificato che erano aperte nella stagione desiderata, decisi di partire.

I sentieri e le mulattiere di questo trek sono state in passato via di transito per un’infinità di merci e di persone, mercanti o pellegrini, che attraverso di esse si spostarono per fede o commerci. Dopo il collasso delle vie di comunicazione romane, nel Medioevo il transito si spostò per molti secoli lungo sentieri e mulattiere. La Repubblica di Genova, infatti, non costruì mai strade carrozzabili per fini commerciali verso l’entroterra, che pure le era fondamentale per l’approvvigionamento dei generi alimentari e non solo: si limitò a curarsi solo delle vie di interesse militare. Lo spostamento di merci e persone sfruttò pertanto una rete di percorsi gestiti localmente, che oggi sono comunemente conosciute come “Vie del sale” da una delle principali merci che vi passavano. Il trasporto veniva così effettuato con carovane di muli, sulle lese, le slitte di legno di cui ancora oggi si vedono le tracce, o anche dalle singole persone a piedi, soprattutto donne. Questi percorsi persero centralità commerciale nel tardo Ottocento, quando furono aperte la carrozzabile e la ferrovia del Turchino, che spostarono l’asse delle comunicazioni sui percorsi di valle. Le vie da percorrere a piedi, invece, prediligevano i percorsi di crinale, dove le pendenze sono più dolci e si è più al riparo dai rischi delle alluvioni. La civiltà dei trasporti su ruota, per contro, è essenzialmente una civiltà di pianura, che vede i monti come ostacolo e li affronta forandoli con gallerie. Non è un caso che la civiltà montana per eccellenza, gli Inca, non ne conoscesse l’uso, perché sulle Ande sarebbe stata inutile.
Ho voluto chiamare “Via delle acciughe” il percorso che ho ideato, unendo alcuni sentieri segnalati da CAI e FIE, in onore di una delle merci più umili che le hanno percorse, perché essa ha comunque assunto una notevole importanza nella cultura popolare: è divenuta infatti un cibo tipico dell’entroterra piemontese, nonostante la regione non si affacci sul mare. Compare in alcuni piatti tradizionali della cucina povera: le acciughe al verde, ad esempio, in cui vengono servite in una salsa a base di prezzemolo e aglio. O anche nella bagna caoda, la celebre salsa a base di aglio, acciughe e panna, in cui si inzuppano le verdure: un piatto pesantissimo da digerire di cui i piemontesi sono molto orgogliosi. Non sto a farla lunga, ma consiglio a chi fosse interessato di visitare il museo degli acciugai, in val Maira, da dove molti di coloro che vissero l’ultima fase di questi commerci venivano.

Nonostante queste terre fossero abitate fin dal Neolitico, come documentato dai ritrovamenti sul Beigua, a dare un grande impulso ai percorsi commerciali fu senz’altro la presenza della prima abbazia cistercense italiana, Santa Maria della Croce, anche conosciuta come Badia di Tiglieto. I monaci spinsero sull’acceleratore di un processo che aveva preso il via nell’ultima fase dell’epoca longobarda con l’opera delle curtis e nel giro di pochi secoli avrebbe radicalmente modificato il paesaggio dell’Italia centro-settentrionale. In epoca longobarda a dominare gran parte del territorio era l’incolto, il bosco. Incolto non significa però improduttivo: oltre che per la legna o le castagne (in quel periodo fu promossa su vasta scala la coltivazione del castagno da frutto), i boschi erano sfruttati allevando maiali allo stato brado e cacciando i selvatici. L’aristocrazia e i re longobardi amavano molto andare a caccia nelle selve e le ritenevano strategiche, tanto che il re ne riservava alcune per sé. Di grande importanza erano anche per gli abitanti della campagna, in quanto i boschi allora erano proprietà comune, in cui chiunque poteva raccogliere legna oppure portare al pascolo le proprie bestie. Dal punto di vista delle élite cittadine, invece, erano più desiderabili le coltivazioni di cereali, che meglio si adattavano allo stoccaggio e alla distribuzione (un ottimo riassunto di questa ideologia si trova nel celebre dipinto del buon governo di Siena, vero manifesto di come la città medievale modella il territorio circostante secondo le proprie necessità).
Per questo la nobiltà concesse in uso ai monaci grandi porzioni di terreno, con il preciso scopo di trasformarle in terreni agricoli. Ciò fin dai tempi dai longobardi, ad esempio con le grandi abbazie di Bobbio (valle Trebbia) e Farfa (Sabina). In questo modo, riuscirono a sottrarre territorio alle popolazioni rurali (spesso con non poche tensioni) e a condurlo a sé, sia perché le abbazie erano fedeli alle élite che concedevano loro privilegi e terreni, sia perché erano gli stessi rampolli delle famiglie nobili a entrare nelle abbazie come monaci. In pieno secolo XII, Tiglieto si inserì in una fase matura del processo, in cui la forte urbanizzazione e la crescita demografica permessa da un clima che concedeva molte annate favorevoli avevano fatto aumentare la pressione antropica.
Lo stesso bosco non fu solo ridotto di superficie, ma fu profondamente trasformato, anche nelle essenze che lo compongono, venendo addomesticato, anche culturalmente: nei documenti dell’epoca si usavano nomi diversi per il bosco coltivato e selvaggio. I grandi alberi scomparvero in favore del ceduo. Si estese la superficie a faggeto, che dava delle ghiande gradite ai maiali e successivamente divenne la materia prima per produrre il carbone che serviva alle ferriere. Tra le querce, che pure erano gradite ai maiali, si ritirarono quelle come il rovere e la farnia che non sono in grado di rigenerarsi con i polloni dopo il taglio, mentre si diffusero quelle in grado di farlo, come i cerri. Si diffusero i castagneti da frutto, quelli innestati, che producono alberi con un tronco grosso e tozzo, vero albero del pane delle zone in cui non era possibile coltivare cereali; pure valida alternativa in caso di carestia, perché le castagne maturano in una stagione diversa dai cereali e quindi le annate magre sono diverse. Lungo il percorso i castagni da frutto sono scomparsi, sostituiti da quelli cedui; gli essiccatoi dove le castagne erano rese adatte alla conservazione, localmente detti aberghi, sono crollati e ne restano solo mucchi di pietre: l’abbandono di questa coltura dev’essere avvenuto moltissimo tempo addietro.
Una volta venute meno le esigenze sociali che ne motivarono la fondazione, il monastero andò in crisi, ma l’area rimase agricola, perché il complesso fu passato a una famiglia nobile della zona che la rilanciò con ambiziosi progetti, tra cui la deviazione del corso del torrente Orba. Oggi le colture sono scomparse in favore dei prati e il bosco ha ripreso parte del suo territorio. La conca è un luogo incantevole e il sentiero che dal corso dell’Orba sale fino a dominarla è il clou del viaggio.

Oltre ai prodotti agricoli, fondamentale fonte di approvvigionamento per Genova, altre merci transitarono su queste mulattiere. Naturalmente c’era il sale, proveniente dalle isole e diretto verso l’Europa continentale. Ha lasciato un toponimo nel Bric Salera, un picco roccioso su una dorsale piatta, dove c’erano dei depositi lungo la via commerciale.
Fin dal Medioevo il vetro veniva prodotto in val Gargassa e successivamente a Monte Lecco, dove ancora oggi rimane qualche resto di vetreria. Studi sui reperti scavati nei decenni scorsi hanno permesso di stabilire che tutto il ciclo di lavorazione erano fatto in loco, dalla fusione dei minerali alla produzione di manufatti. La materia prima principale, il quarzo, era estratta in loco, ma alcune componenti della miscela da vetrificare potevano essere d’importazione. Sono documentati anche casi di riciclo di materia prima.
Il minerale di ferro proveniva dall’isola d’Elba ed era sbarcato nei porti. Era trasportato nell’entroterra dove c’era abbondanza delle materie prime per l’estrazione del metallo dal minerale: carbone e energia dell’acqua. Il carbone era prodotto a partire dalla legna di faggio, la migliore per questo scopo (lungo il Mediterraneo si usavano in alternativa il leccio o gli arbusti della macchia). L’albero privato delle fronde era tagliato in pezzi di media dimensione e disposto in cataste molto compatte, ricoperte con un cono di terra, in cui erano praticati un foro in cima più altri in quantità calibrate dall’abilità del carbonaio. Dopodiché si accendeva la catasta che, in carenza di ossigeno, bruciava lentamente (ci volevano alcuni giorni per completare il processo) e solo parzialmente, lasciando il carbone come residuo. Il carbone veniva poi mischiato al minerale di ferro nella fornace per ridurlo. Non era possibile usare direttamente la legna, perché l’idrogeno in essa contenuto avrebbe reso molto fragile il metallo così ottenuto (il fenomeno è detto fragilità caustica). L’energia dell’acqua serviva a muovere gli utensili che modellavano i pezzi prodotti; per questo motivo le ferriere erano sempre in riva ai torrenti.
Anche la carta viaggiò su questi percorsi, perché Voltri a inizio Ottocento era un grande centro cartiero. Il quartiere in cui avveniva la produzione si chiama ancora Fabbriche. Qualche cartiera esiste ancora e oggi si può provare l’emozione di trovarsi di fronte un TIR che la trasporta, sull’angusta stradina tanto ligure che conduce ad Acquasanta. Allora la materia prima non era il legno, che lo sarebbe diventato solo dopo metà Ottocento, ma gli stracci, che arrivavano dalla Pianura Padana. La creuza diretta alla mulattiera che sale verso l’interno ancora oggi si chiama Via Superiore dell’Olba, dal nome della zona dell’entroterra verso cui porta.
Anche se non per le cartiere, ma per i cantieri navali della Repubblica, anche i tronchi degli alberi viaggiavano su queste mulattiere, dalle foreste dell’Olba alla costa. Il trasporto avveniva su slitte, dette lese, i cui segni sono molto ben visibili sulle pietre della mulattiera che dal passo del Faiallo scende al passo della Gava.

Ma da dove arriva tutta l’acqua che alimenta i torrenti e fa crescere rigogliose le foreste? Il crinale di questa porzione di Appennino, che culmina con la cima dei Beigua, segna il confine tra due climi completamente diversi: quello padano continentale a nord e quello mediterraneo a sud. Lo scontro tra due masse d’aria tanto eterogenee genera frequente instabilità, con seguito di rovesci. Non è un caso che l’albergo sul crinale dove dormo si chiami “La nuvola sul mare”. La sera sento cose turche da un locale che qui le ha viste tutte. Questo clima tanto ostile per gli escursionisti è invece una benedizione per l’agricoltura e le foreste. Persino sul dirupato versante meridionale, che in una manciata di chilometri precipita da 1000 metri al mare e che oggi ci appare selvaggio, in passato esisteva una fiorente comunità agricola. Ha lasciato abbondanti tracce in una fitta rete di sentieri e mulattiere che percorrono in lungo e in largo la montagna e a inizio Novecento era così forte da bloccare un progetto già avviato di captazione del torrente Lerone, che l'avrebbe privata della preziosa acqua.
Nelle immediate vicinanze del crinale, invece, la faccenda è un po’ diversa. Tanto per cominciare, il terreno non è dei migliori. Le rocce di queste montagne si sono originate dai vulcani dei fondali di un oceano oggi scomparso, perché nel frattempo si è scontrato con la placca africana e generato le Alpi (queste montagne fanno geograficamente parte dell’Appennino ma geologicamente delle Alpi). Pertanto sono ricche di minerali, alcuni tossici per molte piante, per cui sono poche le specie che sopravvivono qui e spesso solo qui. Tra queste la dafne odorosa dal profumo delicato e la viola di Bertoloni, che vedrò fiorita gli ultimi due giorni. Inoltre in cima soffia spesso un forte vento rafficato e d’inverno si forma sugli alberi, sulle rocce e sulle croci di vetta uno spesso strato di galaverna, tanto fotogenico quanto letale per le forme di vita. Per cui gli alberi in cima o mancano o sono contorti e stentati. È impressionante salire dalle foreste del versante padano e vedere quanto cambiano in poco spazio la temperatura e l’intensità del vento.

Infine, come detto, queste mulattiere sono state e sono tuttora vie di fede. Il sentiero percorso nel primo giorno e mezzo è stato concepito come via di pellegrinaggio verso il santuario di Madonna della Guardia, a Genova. Lungo una sezione del percorso ho visto dei bolli con una τ; la sera l’albergatore di Tiglieto mi ha spiegato che qui passa un cammino francescano percorso da una trentina di francesi l’anno. Certo oggi i pellegrini hanno scarponi in Gore-Tex e magliette tecniche e non rischiano più gli attacchi dei briganti, ma non per questo il loro percorso vale meno.
Quanto al mio, era motivato dall’esigenza di scoprire questi luoghi con i tempi del viaggio a piedi, il modo che meglio fa conoscere il territorio. Luoghi poco lontani da casa, ma che non avevo mai visto (tranne che quelli dell’ultima tappa). Mission accomplished.

Per approfondire

Provincia di Alessandria, Sentiero 531 Acqui Terme-Tiglieto, Percorsi escursionistici in Provincia di Alessandria
Marco Piana, Anello della Badia di Tiglieto, Verdeazzurro ligure
M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
A. Parodi, vette e sentieri del béigua geopark, Cogoleto 2013
R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015

Tappe

Tappa 1: Acqui Terme-Moretti
Tappa 1: Acqui Terme-Moretti
Tappa 2: Moretti-Tiglieto
Tappa 2: Moretti-Tiglieto
Tappa 3: Tiglieto-Passo del Faiallo
Tappa 3: Tiglieto-Passo del Faiallo
Tappa 4: Passo del Faiallo-Voltri
Tappa 4: Passo del Faiallo-Voltri

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Sergio Chiappino

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