Bobbio-Mareto

Sella dei Generali

4 giugno


Val Trebbia e Bobbio
Val Trebbia e Bobbio

Diario di viaggio

Lunga tappa lungo la quale rimontiamo il morbido e ampio fianco orientale della val Trebbia, per sentieri e stradine, per passare infine in val Nure. I paesaggi sono molto belli, ma saranno soprattutto due incontri appenninici a segnare il cammino.

La colazione è quasi continentale, con il prosciutto e il formaggio a fette per i toast del bar ad ampliare la gamma dolce di prodotti di qualità non eccelsa, ma abbondante e soddisfacente. Dopo gli acquisti per il pranzo di pane, formaggi locali, torte di verdura mezze liguri, frutta e così via, per vicoli molto medievali scendiamo al Ponte Gobbo, il ponte sul Trebbia che deve il nome agli undici archi tutti diversi tra di loro per altezza. Vi avevo già fatto un'inconcludente puntata fotografica prima di colazione, buggerato dalle nuvole ad est.
Il ponte, come lo vedono i nostri occhi, è il risultato di multiple opere di ripristino e rinforzo in età Moderna e Contemporanea, fino ai giorni nostri, dopo le frequenti e distruttive alluvioni del Trebbia, ma gli archeologi hanno trovato fondamenta dell'età imperiale romana. Tuttavia nell'immaginario è uno dei tantissimi ponti del diavolo: chi non era più in grado di comprendere l'organizzata civiltà romana, ne categorizzava le opere mirabolanti nei termini magici della sua epoca, un po' come facciamo noi oggi, che attribuiamo a onnipotenti cricche processi sociali o naturali troppo complessi per poter essere afferrati intuitivamente. La leggenda vuole che san Colombano in persona avesse stipulato il patto, per un manufatto in cambio di una creatura. Il diavolo si adoperò alacremente, con l'ausilio di undici diavoletti di diversa statura a supporto, che spiegano la diversa altezza delle varie arcate come sostegno. Il duro lavoro di una notte fu poi ripagato ben peggio di quello dei precari in nero delle spiagge italiane, perché la prima creatura che passò fu un orso che il santo aveva costretto a lavorare per sé, dopo che gli aveva ucciso uno dei suoi buoi. Della storia esistono naturalmente infinite varianti.
Il ruolo dell'orso riprende, in una storia comune anche ad altre agiografie di santi dell'epoca, il tema del soggiogamento della natura dei monaci, che addomesticarono una seconda volta la natura inselvatichita dopo il collasso del mondo classico. È inoltre una prova della validità della religione cristiana, che si dimostra più efficace delle pratiche animiste, ancora diffuse al tempo, nel controllare la natura. È interessante notare che l'orso pericoloso venne solo reso domestico da Colombano, non venne eliminato fisicamente: allora la natura era preponderante e l'uomo dipendeva da essa, per cui non aveva senso pensare di espungerla, ma bisognava conviverci. Episodi analoghi sono raccontati anche da Giona a proposito di altri orsi, lupi e corvi: ad esempio durante un eremitaggio condivise le bacche, suo unico nutrimento, con un orso e in un altro caso un corvo gli restituì spontaneamente un guanto da lavoro che gli aveva rubato. D'altronde in Borgogna dei lupi avevano accerchiato minacciosamente Colombano, lasciandolo infine incolume, ma soprattuto evitandogli un incontro con briganti feroci, mentre il santo si chiedeva se fosse peggio incontrare belve feroci o uomini malvagi.
Solo con la ripresa delle civiltà e l'estensione dei coltivi a discapito del loro habitat, in epoca carolingia e soprattutto nel Basso Medioevo, i lupi sarebbero divenuti nemici da sterminare: nell'editto di Rotari, c'è al più un riferimento alla concorrenza con loro per le prede selvatiche. Colombano fece un miracolo anche a questo proposito, salvando la preziosa pelle di cervo morto da un orso e dagli uccelli spazzini.
Ai nostri giorni, dopo l'annientamento della natura sulle Alpi operato dall'espansione demografica ottocentesca e al conseguente assalto alla montagna, che eliminò quasi del tutto gli habitat naturali e sottopose a pressione venatoria molte specie di ungulati e grandi carnivori, portandole all'estinzione, si sta ripresentando una situazione analoga. Le ragioni dell'espansione dei selvatici sono molteplici e anche opposte, in parte conseguenza del ripristino dei loro habitat e in parte a dissennate immissioni venatorie, ma sembriamo aver conservato la memoria storica di quando li avevamo eliminati e non siamo in grado di pensare a una nuova coabitazione.

Sul nuovo lato, seguiamo a distanza il fiume verso monte, fino a trovare l'imbocco di una pista, che punta il versante orientale della valle. La pista diviene presto un sentiero sassoso, anche molto incavato nel fitto bosco, con rari scorci, per cui appena possibile lo abbandoniamo in favore della strada, che riteniamo più panoramica. Frattanto il fresco è durato davvero poco, perché si è tramutato troppo presto in afa. Dalla strada l'altra volta vedemmo una volpe rotolarsi felice nell'erba, stavolta una distesa di papaveri con vista su Bobbio e il mosaico di campi circostanti, che per la prima volta nel viaggio mi motiva a adoperare il grandangolare. A breve vedremo invece una fatta di canide piena di pelo: purtroppo solo quando è fresca è chiaramente attribuibile a un lupo, per l'odore nauseabondo di ghiandole anali invece atrofizzate nei cani domestici. Passiamo accanto a delle arnie, protette da una recinzione metallica elettrificata, per impedire i frequenti furti. Tralasciato il percorso del trail “Abbots Way” tra Bobbio e Pontremoli, raggiungiamo la frazione di Santa Cecilia, dove ci fermiamo all'ombra della chiesa per rinfrescarci e siamo raggiunti da un cane lupo molto affettuoso. Un bimbo riempie alla fonte un secchio più grande di lui.
Per sentiero ombroso siamo a Fontana, dove ci sono vecchie case in pietra e una interamente ricoperta d'edera. Per estesi prati, raggiungiamo la sommità di un colle, da cui per calanchi fioriti di ginestre scendiamo tra le colorate case di Coli, dove non ci sono segni di vita, che non siano auto di passaggio: l'unico bar è chiuso. Ci fermiamo a contemplare l'andirivieni motorizzato nel solo angolino ombroso di una grande piazza asfaltata, a un tornante della strada.
Nei pressi di Coli è presente una piccola grotta dove san Colombano si sarebbe ritirato in eremitaggio, presso cui c'è una grande caverna con dentro i resti un oratorio; già al tempo dei Miracula, nel X secolo, era luogo di pellegrinaggio. Era anche luogo sepolcrale, oggi franato, che ha restituito una lastra attribuita al VII secolo con iscrizione del secolo successivo. La Stokes visitò il sito in autunno e rimase particolarmente colpita dai fitti boschi e dal loro aspetto quasi gotico, oltre che dai loro colori, arrivando a concludere che erano molto migliori di quelli delle Alpi, allora quasi prive di boschi. La scrittrice irlandese non riuscì invece a trovare un fiore che, sempre secondo i Miracula, nascerebbe dalla nuda roccia priva di acqua e ogni anno in un luogo diverso, cosa che al monaco che li scrisse pare ancora più miracoloso, sebbene nessuno lo semini. Era di un legume, chiamato herbilia dai locali, che un botanico ginevrino coevo della Stokes, Alphonse de Candolle, identificò con qualche specie di pisello, o la roveja (Pisum arvense), il pisello selvatico che si vede fiorire un po' ovunque in bassa montagna, tutt'ora coltivata in Umbria e Marche, oppure il Pisum sativum, il pisello che mangiamo più comunemente.
Per noi invece la tappa è già troppo lunga così: ci vorrebbe tutt'altro passo e spirito per la deviazione. Scendiamo pertanto in una conca boscosa e per sentiero raggiungiamo Magrini. Prima di arrivarci, a un bivio vediamo che è possibile prendere in ambo le direzioni. Non so in base a quale ragionamento andiamo a sinistra, forse perché era citato il nome Faraneto nel cartello, sicuramente non dopo aver consultato la traccia e la guida, che mandano invece a destra. Seguiamo una strada, quindi labili segni ci indirizzano a un sentiero che scende in un fitto bosco, dove resteremo a lungo, benedicendo l'ombra, perché il sole picchia come Tyson dopo che hai offeso l'onorabilità della mamma. In un tratto più aperto notiamo dei rapaci in alto.
Dopo un lungo tratto in quota, tagliando un pendio, superato un rio, prendiamo a salire su una pista. Troviamo una zona cintata con corrente elettrica e in parte disboscata di recente, dove pascolano delle vacche pelose e cornute di color marrone.

Raggiungiamo infine una spalla del pendio, dove si trova il castello di Faraneto, un edificio di origine medievale (XIV secolo), che fu di proprietà dei Nicelli, signori della val di Nure, a cui i vari stati che si succedettero nel dominio della zona nella Prima Età Moderna, prima del consolidamento del Ducato di Parma e Piacenza, si appoggiavano per imporsi sulle popolazioni locali e sottrarre loro gli antichi diritti medievali. Sono ancora chiaramente riconoscibili dei fregi sulla facciata.
Ci stringiamo a pranzare nella poca ombra disponibile, seduti su un gradino. Esce un vecchio molto coperto, che ci dice di essere il proprietario e di essere nato lì, quando il gruppo di case funzionava come azienda agricola e c'era anche una chiesa. Per lavorare lui invece emigrò in pianura, naturalmente a San Colombano al Lambro, e ora nella bella stagione torna a vivere qui con la moglie. Nel tempo libero, praticò la caccia alla piuma, fino a due anni fa, quando gli morì il cane da ferma. I dintorni appartengono invece a un architetto di Milano, come anche le vacche Highlands, allevate per la carne a basso colesterolo. Il signore ci racconta di un vitello mangiato dai lupi e di uno ucciso dai cacciatori. Immagino che l'architetto starà facendo la macumba ai due vecchi, per poter entrare in possesso anche del castello e includerlo nell'ecovillaggio costruito nel decennio scorso.

Quando possiamo sperare che il sole si sia rabbonito, riprendiamo a camminare lungo una stradina, tra i vitelli, alcuni dei quali hanno superato le recinzioni. In parte la nostre speranze sono concrete, in compenso però ora anche l'ombra è calda. Circumnavighiamo la chiesetta di san Medardo, costruita su uno sperone dirimpetto a Faraneto, mentre sull'altro lato della strada ad un certo punto compaiono l'Alfeo e il Lesima. Il valore leggendario del primo è più concreto, in quanto in cima vi fu trovata una statuetta classica di un orante, durante i lavori di scavo per posare l'attuale Madonna di vetta.
Raggiunto un gruppo di case, dove si favoleggia la presenza di cinquanta gatti e dove dei bambini giocano a palla per strada, ci fermiamo a bere a una fontana alimentata dall'acquedotto, ma un signore ci indirizza su una poco più avanti, con acqua fresca di sorgente. La troviamo subito a valle della strada, contornata da una muratura in pietra calcarea.
Mentre siamo seduti, ci raggiunge la moglie del costruttore, che ci racconta di quando i suoi nipoti allora fanciulli avevano voglia di trascorrere tutta l'estate in paese, mentre ora, divenuti adolescenti, non resistono che pochi giorni. Con grande passione, ci racconta di come cura quest'angolino, dove hanno appena falciato l'erba, e di come continuano a progettare di abbellirlo. La passione e la cura per un luogo sembra essere una sensibilità che viene soprattutto da vecchi, mentre nelle età centrali della vita si preferisce vagare o si è costretti a farlo. Purtroppo l'elevazione dell'età pensionabile contrae sempre di più quella stretta fascia, in cui siamo troppo vecchi per un lavoro utile al PIL, ma ancora abbastanza attivi per un lavoro utile alla vita. Tra tutte queste parole, mi dimentico di chiederle come si chiama la chiesa, di cui vediamo il campanile svettare dalla dorsale di fronte. Mentre ci allontaniamo, passiamo accanto al marito, che sta lavorando a torso nudo nell'orto. Questi con passione e foga si lancia nella minutissima cronaca della ristrutturazione della fontana, partita da un'idea emersa in un brain storming durante una libagione collettiva, che magari Colombano avrebbe disapprovato, e proseguita con un lavoro gratuito collettivo, questo sì degno di quello dei suoi monaci.

Ci divincoliamo non senza sforzo e seguiamo la stradina assolata fino a Pescina, poche case in pietra e nessuna persona. Imbocchiamo un sentiero in salita tra affioramenti rocciosi e ampi prati fioriti, in via di invasione dai primi cespugli, dove nel periodo estivo vengono a pascolare le Highlands. La luce ora è meno dura, anche per il cielo parzialmente velato, ma non abbastanza per le foto ai fiori, che tento senza convinzione. Mi va meglio con Alfeo e Lesima, lontani spiriti svolazzanti sopra le colline, per la foschia della caldissima giornata dal sapore estivo, ma chiaramente riconoscibili per la forma singolare.
Sbuchiamo su una strada asfaltata e per essa raggiungiamo la Sella dei Generali, valico tra la val Trebbia e la val Nure, dove ci attendono dei ciclisti. Dobbiamo ora seguire una sterrata per vari chilometri. L'altra volta le percorremmo quasi correndo per anticipare un temporale che brontolava sopra le nostre teste, stavolta con la stanchezza e l'indolenza del caldo, ora non più opprimente, ma che ci ha fiaccato. Inoltre non è prestissimo, per cui avvisiamo che faremo tardi per la cena, ma per fortuna siamo in un albergo ristorante, dove fino alle 21.30 affluiranno clienti e non hanno problemi. Li avevavmo invece avuti in fase di prenotazione, perché in zona si è appena tenuto un fastoso matrimonio, che aveva riservato tutte le strutture della zona anche per svariati giorni successivi (in questa tappa si può pernottare indifferentemente a Mareto o alla vicina Nicelli), ma su nostra richiesta avevano liberato due stanze.
In tre imboccano pertanto la sterrata, mentre io seguo una traccia poco sopra cercando invano di carpire un po' di panorama verso la val Nure. Tra motociclisti e ciclisti che risalgono, percorriamo stanchi e annoiati questo tratto monotono tra cespuglieti e boschetti, ingannando il tempo in discussioni su argomenti non correlati al viaggio o fotografando i maggiociondoli.
Attraversiamo i prati attorno al paese, tra casette di vacanza, fino a raggiungere l'albergo, privo di insegna, di fronte alla chiesa con il campanile in ristrutturazione. Dobbiamo perciò chiedere conferma ad alcuni avventori seduti nel dehors. Come ieri, l'arredamento delle stanze e della zona notte in generale è datato, senza contare che le docce sono anguste, con non pochi disagi per l'artigliere, che pesa quasi cento chili (e li ha portati tutti sul Monviso). Il silente e la capogita hanno invece seri problemi ai piedi, macerati dal caldo e dai tratti sul duro della tappa più lunga del viaggio. Io consiglio loro di riposarli e fare in taxi la tappa di domani, che ricordo poco entusiasmante anche se certo non brutta, ma stringeranno i denti e ce la faranno. La cena è molto buona e il locale per il ristorante tirato a lucido di recente.
Con i paesani ai tavolini parliamo del caldo, che non ricordano mai essere stato così asfissiante in questa stagione, così come gli inverni mai altrettanto avari di neve.

Galleria fotografica

Bobbio
Bobbio

Cascina Pre
Cascina Pre
Val Trebbia e Bobbio
Val Trebbia e Bobbio
Coli
Coli
Faraneto
Faraneto
San Medardo
San Medardo
Cornaro
Cornaro
Cornaro
Cornaro
Alfeo e Lesima
Alfeo e Lesima

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Sergio Chiappino

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