Sappada-rifugio De Gasperi

Passo Elbel

17 luglio


Val Pesarina
Val Pesarina

Diario di viaggio

Arriviamo a Sappada dopo un interminabile viaggio attraverso il piattume padano, dove non ci perdiamo le code del Lago di Garda e a cui segue il traffico frenetico di un sabato cadorino. Nonostante la giornata solatia, nel tardo pomeriggio l'aria è molto frizzante nella via interna tra le case in legno, dove si svolge una festa paesana. Tra i banchetti di ciapapuer in stile ladino, non manca uno stand giovanilistico, che dispensa birra e spara a tutto volume la cover acida di un successo di Marvin Gaye, causando qualche mal di testa. Poco lontano subentrano dei musici con strumenti tradizionali, che attaccano con l'“Inno alla gioia” e poi passano a un tormentone italiano degli anni ruggenti. La festa si spegne prima che faccia buio.

La colazione all'albergo è soddisfacente. Per fortuna, qui si è conservata la cultura della colazione continentale, che ci risparmia la piaga del pane, burro e marmellata che flagella i rifugi piemontesi e non solo. Anche nei luoghi più disagiati avremo un buon trattamento, tranne che ad Erto, dove il risveglio sarà sgualfo. Per giungere all'attacco del sentiero, dobbiamo seguire verso valle un percorso ciclopedonale lungo il Piave, tra strutture per un turismo di famiglie. Imbocchiamo quindi una strada sterrata, che risale dolcemente un vallone in un bosco di abeti, dalle radure fiorite di orchidee. Il panorama vegetale di oggi, come dei prossimi giorni, sarà sempre indice di un clima piovoso, ma noi saremo fortunati, perché i pochi acquazzoni e temporali si scateneranno sempre la sera, quando saremo al riparo del rifugio. L'Alta Via dei Silenzi parte tra il chiacchiericcio del gruppo. Quando si va in più di quattro o cinque, c'è sempre qualcuno che trascorre il tempo del cammino parlando di argomenti che nulla hanno da spartire con l'esperienza che si sta vivendo. Anche per questo non mi dispiace il compito che mi è stato affidato, di fare da coda, perché me ne posso stare un po' discosto dal brusio.
Lasciata la strada, varchiamo il torrente su un ponte di legno e ci infiliamo nello sprofondo di un vallone senza pascoli. Fortuna che oggi la temperatura è fresca e il sole dietro le nubi, altrimenti qui l'atmosfera sarebbe davvero opprimente. Tra boschi e quindi vegetazione arbustiva sempre più rada, costeggiamo verticali pareti, dove la valle si stringe sempre di più. Quando si allarga di nuovo un po', varchiamo il torrente. Una gitante si ferma al fondo del guado e costringe chi la segue, per non restare sospesa sulle pietre a metà del torrente, a ficcarsi in una zona di rocce scivolose, dove perde l'aderenza e scivola in acqua. Dovrà fermarsi a cambiarsi dalla testa ai piedi, per non buscarsi un accidente dalla brezza fresca; appenderà i vestiti bagnati ai legacci dello zaino, a mo' di bucato.
Il sentiero lascia il fondovalle e si arrampica per balze erbose e rocciose, passando anche ai piedi di una piccola cascata. Un cavo metallico dovrebbe agevolare il passaggio, ma è così malfermo e consunto che è meglio puntare sui bastoncini. Per un breve tratto godiamo di uno scorcio su Sappada, casette in mezzo a prati verdi sovrastati da boschi scuri di abeti e cime chiare di dolomia. Più in alto la vegetazione torna arborea, con bosco misto, a cui si alterna una zona di ghiaione dilavato dalla pioggia. Alcuni alberi caduti ostruiscono il sentiero e ci costringono a passaggi ginnici. Al crescere della quota, la pendenza si riduce e la vegetazione si dirada, finche si entra nel circo prativo del Ciadin di Elbel. Mi accorgo che dalla sterrata non ho più scattato foto, perché l'ambiente selvatico e disordinato poco si prestava agli scatti semplici e puliti che mi piacciono. Tento di rimediare al deficit, anche con l'aiuto delle fioriture, ma senza successo. Arrivo al colle quando già tutti sono stravaccati in una conca al riparo dal vento.

In occasione del pranzo il sole si scava un varco tra i cumuli e ci bacia brevemente. Proseguiamo poi per un percorso militare a tratti consunto, che con ampi tornanti ci porta sul sentiero proveniente dal passo di Oberenghe. Avanziamo tra altri alberi caduti e minuscoli prati, su traccia evidente. In un canalone ghiaioso franato, la traccia diventa larga giusto per un piede, consigliandoci prudenza. Non c'è il rischio di rompersi qualcosa, ma di scorticarsi per bene strisciando sulla ghiaia dura, quello sì. Arrivando per ultimo, vedo il gruppo addensato procedere con estrema cautela e lentezza. La cosa mi infonde la giusta dose di ansia e non mi sfiora neppure l'idea di fotografarli. Procedo fissando i miei piedi e niente altro e passo indenne, come tutti gli altri.
In un prato di erba alta con alpe diroccata ci ricongiungiamo al sentiero di accesso al rifugio. Questo scende verso un impluvio e poi affronta a zig-zag un ripido canalone di slavina, dalla scarna vegetazione arbustiva, piegata dalla furia invernale. Una volta c'era un sentiero che evitava di scendere, ma oggi non è più segnalato; immagino sia franato nell'attraversamento del torrente. Incrociamo un gruppo con zainetti, andato a pranzare al rifugio. Ansimando e sudando scolliniamo e in pochi passi siamo al De Gasperi.
Accanto all'edificio c'è una bricola, il gruppo di tre pali che nella laguna veneta segnala l'imbocco di un canale. Questo dovrebbe farci sospettare che non siamo in un posto qualsiasi. Il gestore ci accoglie sciorinandoci regole inflessibili: le ciabatte vanno lasciate al piano terra, perché in stanza si entra solo con le calze, come secondo lui si usa dal Friuli a Vladisvostok. Per non sporcarle in bagno, ci sono dei pesantissimi zoccoli comunitari di legno e forse cilicio. Al solo sfiorare il pavimento, emettono schiocchi assordanti, forieri di sveglia collettiva ogniqualvolta qualcuno si alzerà per una pipì notturna. In più non ci si può fare la doccia. Quest'ultima notizia non la motiva solo con la carenza idrica, ma alla nostra richiesta ci lancia insulti, perché «non si va in montagna per divertirsi». S'inalbera quando gli segnaliamo dello stato del sentiero. Con pessimismo e rassegnazione® ci sistemiamo in stanza e poi scendiamo a fare merenda, stando bene attenti a non invadere le zone della sala sbarrate da cordoni o barricate di sedie. Il gestore si rivela anche simpatico e goliardico a suo modo, ad esempio quando ci spiega il significato della bricola: qui siamo all'attacco della val Canal, come è conosciuta localmente la val Pesarina. C'è poi un secondo senso mistico-religioso un po' contorto legato al disastro di un incendio che minacciò il rifugio durante l'infuocata estate del 2003. Introduce la cena con una cerimonia a base di Tocai (che adesso per regolamento UE si deve però chiamare Friulano) e un salume tipico di cui ho dimenticato il nome, ma non il gusto; il vino piace parecchio pure a me, che pure detesto i vini bianchi. A tavola ci racconta la storia delle lotte partigiane e della Carnia promessa dal Reich ai cosacchi, che invasero l'Unione Sovietica insieme ad esso e agli italiani. Poi in compenso riempie d'improperi quattro ragazzi di passaggio, che segnalano il cattivo stato di una ferrata.
La sera è limpida e dorata, illuminata dalla luna piena che sorge dirimpetto al rifugio e con l'Enrosadira sulle cime a oriente.

Galleria fotografica

Sappada (Plodar)
Sappada (Plodar)
Sappada (Plodar)
Sappada (Plodar)
Valletta del Rio Storto
Valletta del Rio Storto
Passo di Elbel
Passo di Elbel
Val Pesarina
Val Pesarina
Tocai (Friulano)
Tocai (Friulano)

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Sergio Chiappino

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