Trinità-San Giacomo

Caire di Truccia

19 settembre


Monte Aiera
Monte Aiera

Diario di viaggio

Oggi tappa di bassa quota, miscela di spunti naturalistici e antropici: saliamo per una morena wurmiana e scendiamo per un ardito sentiero dei carbonai. Il paesaggio ammirato dal traverso in quota, tra il Caire di Cabanas e il Caire della Truccia, è uno dei più spettacolari di questo tratto di GTA. Forse mal consigliati, i due tedeschi della guida rossa Rother lo evitano.

Ci svegliamo con il cielo azzurro e le montagne spruzzate di neve. I pendii sotto il colle della Garbella valicato ieri sono bianchi, l'aria è frizzante. Partiamo puntando verso il fondo della valle, passando sotto un arco in pietra. Su un muretto è seduta una coppia di ragazzi francesi in maglietta e pantaloncini; lei sta battendo i denti. Lungo il sentiero, fangoso per la pioggia della notte, ci sono tracce di un cucciolo di cinghiale, forse il figlio venuto a piangere la mamma che abbiamo mangiato ieri sera… Una passerella sul torrente ci porta a un edificio diroccato, presso cui parte il ripido sentiero che risale la morena vista ieri, chiamata Serrera dei Castagni. Il nome deve riferirsi a un periodo molto antico, perché già a metà Ottocento, quando l'agricoltura di montagna era ancora vitale, le castagne non era citate tra i prodotti del comune di Entracque.
Sarebbe impossibile sopravvalutare l'importanza del castagno nell'economia montana: basti dire che qui il termine dialettale che lo designa è arbu, cioè albero, appellativo del resto comune in molti dialetti piemontesi della bassa montagna, da qui all'Ossola. Le castagne maturano in periodi diversi rispetto all'erba o ai cereali, per cui le stagioni magre sono in genere diverse e ne sono perciò un'alternativa. Per fortuna, dopo la fine dell'economia di sussistenza, non siamo più vincolati al km 0 e possiamo importare da lontano i generi alimentari, grazie ai redditi delle produzioni industriali e del terziario: le carestie sono infatti terminate con l'inizio della Rivoluzione Industriale, e non con il progresso dell'agricoltura, come si potrebbe pensare. L'ultima carestia europea, quella irlandese della patata di metà Ottocento, è emblematica in tal senso. All'inizio, la mancata produzione non fu un problema, perché l'amministrazione inglese comprò cibo con i proventi fiscali del resto delle produzioni del regno; successivamente, subentrato un governo che lasciò gli irlandesi a sé stessi, questi non ebbero fonti alternative di reddito e morirono letteralmente di fame.
A dispetto del nome della morena, attraversiamo dunque un'umida faggeta: sia gli alberi che i massi erratici di bianco calcare sono coperti di muschio. Un cartello che mette in guardia da una curva, surreale per un escursionista, ci fa pensare che questo sentiero sia anche usato dai ciclisti come pista di downhill. Senza cali di pendenza, raggiungiamo la cresta della morena e la valichiamo, portandoci su una pista sterrata. Attraversiamo un bosco misto, dove molte specie diverse vivono affiancate; è raro vedere tanta biodiversità. Secondo la guida e la cartina, dovremmo seguire la pista fino ad Airetta, ma in tempi più recenti è stata recuperata e segnalata una vecchia mulattiera, che punta verso Tetti d'Ambrin e poi risale il bosco di Costa Ganola, per sbucare infine su una sterrata a monte di Tetti Jose, dove si riallaccia al vecchio percorso. Questo tragitto in parte segue una vecchia mulattiera, bordata di muri a secco ricoperti di muschio, in parte sembra ricalcare una canaletta per l'acqua, che serviva a irrigare i prati di Tetti d'Ambrin. Qui il bosco è misto di faggi e betulle, un'associazione insolita, in quanto i primi prediligono ambienti ombrosi, mentre le seconde solatii. Credo che queste si siano stanziate qui quando il bosco era tagliato per fare legna. Dopo la canaletta, risaliamo il corso del torrente, lo superiamo su una passerella di legno e in breve siamo alla sterrata, dove ci riallacciamo al percorso descritto nella guida.
Superato il bivio per i laghi di Steirate, facciamo una pausa nel bosco, durante la quale finiamo con il parlare di “Cuore di tenebra” di Conrad. Un topolino viene a origliare. Il sentiero prosegue risalendo a zig-zag la faggeta. Qualche punto di bosco rado ci fa notare che la neve è già quasi tutta fusa. La salita giunge al culmine ad un colletto, dove c'è una piazzola dei carbonai. Saliamo a mangiare sulle rocce soprastanti, dove un faggio dal portamento cespuglioso e contorto cerca di sopravvivere eroicamente tra le fessure. Poco più il là c'è la rocca del Caire Cabanas, di fronte tutta la dorsale che separa la valle Gesso dal vallone di Roaschia e culmina nel monte Bussaia, dalla cui cima ieri non siamo transitati molto lontani. Il Bussaia è anche conosciuto come Bec d'Orel, voce derivata da Bec dou Rei, becco del re. Il nome è figlio di una leggenda sulla bellissima Giovanna d'Angiò, la popolare Reino Jano della cultura provenzale, a cui sono anche dedicate le Gorge della Reina vicino a Entracque (con una leggenda analoga). Si narra che il figlio re di Francia si fosse invaghito di lei e la stesse inseguendo. Lei non lo ricambiava e cercò rifugio a Palanfrè. Il re, giunto a Roaschia, chiese agli abitanti dove si trovasse l'amata, ma quelli non collaborarono. Allora il principe salì sulla montagna più alta della zona, il Bussaia appunto, per vedere dove fosse, ma quella si spaccò in due facendolo precipitare.

Il sentiero dei carbonai procede in traverso sospeso su ripidissimi pendii boscati, tra rocce e faggi, un tratto purtroppo poco rappresentabile in foto, ma davvero spettacolare, di dirupi inaccessibili. Dal punto di vista dei montanari era una zona improduttiva, del tutto inadatta all'agricoltura come al pascolo. I suoi alberi vennero perciò sfruttati per ricavarne il carbone, risorsa importante in una nazione priva di miniere di questo combustibile. La produzione di carbone da legna aveva pertanto un ruolo non marginale nell'economia dell'alta montagna. I montanari non avevano infatti altre risorse oltre a quelle prodotte dalla natura locale, per cui ogni lembo di territorio era prezioso e andava sfruttato. Il legno di faggio era il più usato per produrre carbone da riscaldamento, perché genera un prodotto che sviluppa più calore. Alcuni artigiani, come i fabbri, preferivano invece legno di castagno ceduo, perché bruciava meno. La legna da carbonizzare era accatastata molto fittamente su piazzole appositamente spianate, lasciando un camino al suo centro, per poi essere ricoperta da uno strato di terra. Nella terra erano praticati dei fori, che servivano a regolare il flusso di aria; la quantità di fori era calibrata dall'abilità del carbonaio. Lo scopo era di farla bruciare in carenza di ossigeno, in modo che si decomponesse senza incenerirsi. La lenta combustione durava qualche giorno, quindi i carbonai disfacevano la catasta, eventualmente spegnendo a secchiate i pezzi di carbone ancora roventi. Chissà quanto monossido di carbonio avranno respirato, oltre che a fuliggine, particolato, aldeidi, ammoniaca e altri composti tossici. Nei vecchi dagherrotipi hanno sempre la faccia nera.
Intravediamo il lago artificiale della Piastra tra le foglie diradate di un autunno reso precoce dalla siccità: a terra ci sono infatti molte foglie, anche verdi. Ci affacciamo ad ammirare il lago da un poggio panoramico, da cui vediamo anche Entracque a valle. La sua conca è molto boscosa, nonostante abbia fianchi impervi, anche per effetto di rimboschimenti effettuati negli anni Venti-Trenta del Novecento, per rendere la valle più gradevole per i regnanti, che soggiornavano a Sant'Anna di Valdieri d'estate. Dal lato opposto ci sono invece i severi dirupi del vallone della Rovina, da dipinto romantico. Sul pendio a monte del pianoro, un intrico di rocce aguzze e faggi. Il sentiero, visto da qui, sembra proseguire in quota, puntando ad altri poggi protesi sui precipizi. Il posto è così bello, il sole che ha preso a filtrare tra le nuvole così mite, che facciamo una nuova pausa, nonostante siamo appena ripartiti. Nel proseguio il sentiero tiene fede alle aspettative e traversa senza scendere; restando molto panoramico, costeggia un primo poggio e poi un secondo. Affacciandoci su quest'ultimo, ci troviamo di fronte il Gelas innevato, che riluce sopra la penombra della valle senza sole. La visione è degna dei migliori sogni di Friederich, anche per il cielo cupo che sovrasta la brillante cima imbiancata.
A questo punto il sentiero, più che scendere, rotola rovinosamente a valle, per un espluvio ripidissimo. Probabilmente è l'unica via possibile al riparo dalle slavine e dalle piene (ad un certo punto costeggiamo un canalone sufficientemente orrido). È affrontato un po' per la diretta e un po' a tornanti strettissimi, che sarebbero da giramenti di testa, se affrontati alla bersagliera. Verso il basso c'è un tratto attrezzato con corde metalliche, ma con il fondo asciutto sono superflue. Una serie di tornanti più regolari in faggeta ci porta sul fondo del vallone, a un bivio nei pressi del ponte della Rovina. Ci fermiamo cinque minuti, per dare sollievo alle ginocchia e consumare le ultime provviste.
Il sentiero costeggia il torrente. Ci sono altre piazzole dei carbonai, ma anche delle abitazioni con miseri terrazzamenti. La vita in questa forra doveva essere assai grama, tra la scarsa insolazione, l'umidità penetrante e la poca terra strappata alle rocce. Tra le svolte del torrente, in qualche punto compare nuovamente il Gelas. Mi faccio tentare da un ponte pericolante per una foto scenica, secondo il neologismo di uno del gruppo, ma non appena appoggio il primo piede sulle assi marce, mi ritraggo schizzando come un gatto sotto la doccia. L'ora abbondante che ci separa da San Giacomo sembra non finire mai, tra saliscendi estenuanti e il menzognero cartello al bivio. Ad ogni modo, alcune sculture fatte con i sassi anticipano il campeggio e poi il posto tappa.
A San Giacomo c'è una delle case di caccia dei reali. C'era inoltre un ricovero per i passeggeri diretti nella contea di Nizza per il colle delle Finestre. La strada, che percorreremo domani, ha oggi l'impronta delle opere del Vallo Alpino, ma fu resa carrozzabile già nel 1793; il colle rislutava già menzionato nel 1041. Prima che fosse costruita la rotabile del colle di Tenda, questa era la principale via di collegamento con la contea di Nizza. Da un punto di vista naturalistico, c'è da segnalare che qui vicino c'era un lago che ha completato in tempi recenti il processo di interramento. Nell'Ottocento era conosciuto come lago di Moncolombo.
Il gestore è di origine roaschina e ci racconta un sacco di aneddoti su quel vallone: i pastori di pecore, gli emigranti che aprivano latterie a Torino, gli aerei caduti (di cui tiene delle foto in bella mostra e su cui si dilunga in minuti dettagli, in particolare sui saccheggi delle spoglie). Ci dà anche informazioni false e tendenziose: secondo lui, la lana roaschina serviva a fare i drappi prodotti a Entracque; leggo invece altrove che la lana delle roaschine era di cattiva qualità, per cui per i drappi era piuttosto importata da Marsiglia. Ci dice anche che la frazione in cui c'erano i filatoi si chiamava Fabbriche, come quella di Voltri in cui c'erano le cartiere, ma questo toponimo purtroppo non è riportato sulla mia cartina. Si dilunga anche a parlare dei personaggi pubblici, soprattutto politici di primo piano, che frequentano questo angolo remoto di Piemonte. Nonostante la sera sia fredda e umida, esco lo stesso a fare una puntata fino a un luogo buio, per ammirare la Via Lattea, che solca il cielo allo zenit.

Galleria fotografica

Monte Aiera
Monte Aiera
Serrera dei castagni
Serrera dei castagni
Serrera dei castagni
Serrera dei castagni

La mulattiera a Tetti d
La mulattiera a Tetti d'Ambrin

Dorsale del Monte Bussaia
Dorsale del Monte Bussaia
Lago della Piastra e Entracque
Lago della Piastra e Entracque
Sul sentiero dei carbonai
Sul sentiero dei carbonai
Sul sentiero dei carbonai
Sul sentiero dei carbonai
Vallone della Rovina
Vallone della Rovina
Monte Gelas dal Caire della Truccia
Monte Gelas dal Caire della Truccia
Gesso della Barra
Gesso della Barra
Monte Gelas
Monte Gelas

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Sergio Chiappino

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