Chiesette, cascine e castagneti di Venasca

Val Varaita

21 settembre


In un baleno

Per le vie del paese circola un camion dell'immondizia, su cui sono impresse le foto dei gemelli Bernard e Martin Dematteis, due campioni della corsa in montagna, celebrità locali della bassa valle. Sono raffigurati nell'atto di indicare il Monviso, di cui Bernard detiene il record di velocità nella salita da Pian del Re

Bonelli
Bonelli

Diario di viaggio

Negli ultimi anni, la Pro Loco di Venasca ha segnalato alcuni dei numerosi sentieri e piste, che attraversano i boschi di castagno della collina retrostante il paese. Due di questi sono detti delle 4 e delle 7 chiesette e sono in parte sovrapposti. Dopo averli percorsi entrambi, con questa escursione mi sembra di condensarne il meglio. Essendo anelli, potrebbero in teoria essere percorsi in ambo i versi, ma sono segnalati solo per li chi li segue in quello descritto qui.

Arriviamo a Venasca per la strada carrozzabile provinciale, costruita fino a Sampeyre nei decenni delle Guerre d'Indipendenza, tra forti indebitamenti e contrasti ininterrotti tra i vari comuni e le imprese appaltatrici. Sul finire di quel secolo avremmo potuto arrivarci anche con una ferrovia a scartamento ridotto, costruita in maniera economica lungo la provinciale senza bisogno di massicciata, più un tram a vapore che un vero treno. Era un sistema che forniva bassi costi di gestione, ma altrettanto basse velocità (quelle di un monopattino odierno, contro i 50 km/h delle ferrovie tradizionali). Ad ogni modo, ben più di quelle di un pedone o di un mulo, i principali metodi di locomozione del tempo: l'era della modernità veloce aveva preso una china ben definita. Tramite essa arrivavano a Venasca di frequente i borghesi torinesi del CAI, diretti alla culla dell'alpinismo italiano per le loro imprese eroiche: la tramvia consentiva di salire un Tremila in giornata da Torino! Il biglietto era invece troppo caro per le operaie del cotonificio Wild di Piasco, succeduto alle filande di seta di Venasca: esse dovevano pertanto andare al lavoro a piedi. Il sistema era stato adottato su indicazioni dell'ingegner Soleri. Il suo nome è noto a Cuneo per il viadotto sulla profonda valle della Stura, dove la ferrovia corre sotto la strada, che è dedicato al figlio, politico liberale, ma è meglio conosciuto come “ponte dei suicidi” e la sua rotonda di accesso è adornata da una supposta.
È un giorno feriale, in cui la piazzetta è occupata dalle giostre in via di smontaggio. La terza domenica di settembre si festeggia santa Lucia, patrona del paese, in un giorno diverso da quello prescritto dal calendario cattolico (il 13 dicembre), ma legato al ciclo stagionale della zona. L'autunno è infatti il periodo più intenso dell'anno di questo paese, in quanto le principali produzioni agricole sono le castagne e i funghi, a cui sono dedicati due mercati settimanali, il lunedì e il giovedì. Il ruolo di centro di fiera ha sempre rivestito una notevole importanza nell'economia del paese e in passato è stato difeso con le unghie e con i denti dai suoi amministratori, contro i tentativi dei paesi limitrofi di fare concorrenza. La posizione di confine tra le produzioni agricole dei monti e quelle della piana le ha permesso di essere una cerniera naturale, con tutto l'indotto di carrettieri, alberghi e osterie che ciò comportava. Un ruolo non secondario va tuttavia attribuito anche alla lungimiranza degli amministratori del primo Ottocento, che si indebitarono pur di ricostruire il ponte, danneggiato dalle guerre napoleoniche, e furono abbastanza ambiziosi da renderlo transitabile ai carri più grandi dell'epoca.
Il mercato del lunedì in particolare esiste da tempo immemorabile e, secondo la consuetudine rurale, è anche il momento di incontro e socializzazione per le genti disperse tra i vari borghi. Quando i primi governi post-unitari vararono l'impopolarissima tassa sul macinato, fu il punto di partenza dei tumulti contadini che nacquero come reazione immediata. La legge, pur fondamentale per il dissestato bilancio, fu concepita in maniera confusa e macchinosa. È una consuetudine generale italiana, dove è spesso molto difficile capire come essere in regola. In compenso, i controlli sono abitualmente rari, per cui ognuno si divincola come meglio riesce e chi viene colto in fallo percepisce la sanzione come una cospirazione contro di sé.
Andiamo a rabboccare la borraccia alla fontana accanto alla tettoia del mercato; la portata d'acqua è ridotta a causa della lunga siccità estiva, a malapena scalfita dalla pioggia dei giorni scorsi. Nella piazza ci sono anche la grande chiesa ottagonale barocca in mattoni rossi e un palazzo nobiliare con colonna circolare e loggiato all'ultimo piano. Un vecchio ci dice che è l'edificio più antico del paese e all'interno è in rovina, ma dovrebbero sistemarlo. Non capisco se sia un progetto reale o solo un suo auspicio. Si sa davvero poco di questo palazzo: l'unica cosa certa sembra essere una data del Quattrocento incisa su una pietra. Per le vie del paese circola un camion dell'immondizia, su cui sono impresse le foto dei gemelli Bernard e Martin Dematteis, due campioni della corsa in montagna, celebrità locali della bassa valle. Sono raffigurati nell'atto di indicare il Monviso, di cui Bernard detiene il record di velocità nella salita da Pian del Re. Mi lascio sfuggire l'occasione di fotografarlo.
Seguendo le indicazioni, usciamo dal piccolo concentrico e imbocchiamo una pista che prosegue in quota verso lo sbocco della valle, a poca distanza dal fondo. Il terreno è duro e sembra appena scalfito dalla pioggia dei giorni scorsi; non si vede attività di lombrichi e da una fonte cola giusto un filo di acqua. Odoro appena un lieve profumo di foglie macerate. Raggiungiamo la cappella di san Firmino, nata privata e poi passata alla parrocchia, dove il sentiero transita sotto un grande porticato con panche di pietra, per offrire riparo ai viaggiatori in queste piovose zone prealpine, perlomeno prima dell'era dell'anticiclone africano. Con tutta probabilità, la via pedonale della valle passava di qui e non sul fondovalle, dove invece corre la carrozzabile. Non lontano da qui, a Sant'Eusebio, sull'adret di Melle, su una cappella è dipinto un grande san Cristoforo, patrono dei viandanti, una chiara indicazione di come in passato essi evitassero i fondovalle, dove c'era maggior rischio di alluvioni e i guadi erano più difficoltosi, in favore dei percorsi a mezza costa.
Seguiamo ora il sentiero delle quattro chiesette, in quanto l'altro per un tratto ricalca una strada asfaltata. Con un passaggio scalinato costruito ad hoc, raggiungiamo un ripetitore sommerso nel bosco, tra grandi funghi, e in breve l'impressionante cascina Parola. Era un grande edificio con cortile interno e strutture ad archi, tipiche delle zone prealpine piovose, sotto cui poteva continuare l'attività anche in caso di precipitazioni. Oggi si presenta completamente in rovina, perché sfortunatamente non ha fatto in tempo a trovare il suo tedesco estimatore, né i suoi eredi hanno fatto abbastanza fortuna o non sono rimasti legati al territorio quanto basta da riadattarla ai giorni nostri. Nel silenzio del bosco, possiamo solo immaginare quanto brulicasse di vita un secolo fa, quando Venasca conobbe il massimo popolamento e i dintorni era fittamente coltivati, come mostra una foto all'ingresso della struttura. Nel Settecento il proprietario fece anche edificare la cappella appena visitata, dove è sepolto. Di tutta questa gente non è rimasto che un babaciu alla finestra, svenuto. Nel fienile che va disfacendosi, permane anche un frigorifero a carica dall'alto, pieno d'acqua, su cui galleggia un cartone di succo di frutta. Dal lato da cui siamo arrivati, è stato allestito un tabellone, su cui fare composizioni con una corda, fotografarle e condividerle sui social. Fa parte di un sentiero in comune con il nostro fino alla chiesa del Vernè, dedicato al tema del filo: una forma di escursionismo moderno, in cui il territorio attraversato non è più il protagonista, ma solo un palcoscenico dove rappresentare uno spettacolo a tema, che poco ha da spartire con il contesto in cui avviene.

Il sentiero prosegue in quota nel castagneto abbandonato, tra le installazioni del sentiero del filo: prima ce ne sono alcune ispirate ai ragni, quindi agli strumenti a corda. Tento di fotografare un'arpa, che è una produzione della confinante Piasco. Victor Salvi, figlio di un liutaio emigrato negli Stati Uniti, nel 1974 la elesse a sede, dove produrre i suoi innovativi strumenti, per la consolidata tradizione saluzzese di artigianato del legno (alla competente guida del museo mi sono colpevolmente dimenticato di chiedere quali specie di alberi usino). Associamo questo strumento alla grazia delle mani di una fanciulla che la pizzica, ma magari pochi sanno che la tensione delle corde sottopone la struttura lignea a tensioni enormi, anche oltre 1 t. Per questo le arpe antiche, possono essere restaurate, ma non possono essere suonate a meno di innestare pezzi nuovi, perché altrimenti la cassa armonica esploderebbe sotto lo sforzo. Le dita dei suonatori devono acquisire un callo specifico, che si perde quasi subito smettendo di suonare, anche in seguito a una semplice vacanza.
Un'arpa nuova di serie costa dai 1500, per il modello base, ai 50.000 € di una placcata oro. I principianti possono affittarle a prezzi non dissimili di quelli di un pianoforte. Più intraprendenti del signor Salvi paiono essere gli artigiani africani, eredi di una tradizione che affonda le radici nella preistoria (l'arpa arrivò lì dalla Mesopotamia, dov'era nata), che con l'avvento del turismo hanno cominciato a fabbricarne di farlocche, non in grado di suonare, ma molto etniche da vedere, da spacciare ai danarosi occidentali.
Raggiungiamo uno spiazzo con al centro un grande castagno, che funge anche da sostegno per un'altalena, circondato da innesti più giovani. Ai margini c'è un essiccatoio, dove erano stati avviati lavori di riconversione in baita, che però sembrano lasciati in sospeso. Forse non era adoperato solo per le castagne, ma anche per i bachi da seta, che erano allevati nei dintorni: dopo essere stati messi nell'acqua bollente, per uccidere il verme senza danneggiare il filo, erano infatti essiccati, prima di essere inviati alle filande. Raggiunto un edificio rurale abbandonato, siamo di nuovo in comune con l'anello delle sette chiesette. Risaliamo nel bosco, innestandoci su piste via via più ampie e marcate, prima di confluire su una sterrata, che prosegue in quota, fino a sbucare sull'asfalto, in corrispondenza della cappella del Vernetto. Intanto il filo è passato alle marionette e sono comparsi alcuni cartelli contro il WC selvaggio, motivati da una produzione copiosa in mezzo al sentiero, che non sembra né di lupo, né di cervo, ma piuttosto di plantigrado.
La chiesa, come la precedente, sembra isolata dai borghi. Sulla facciata è affissa una targa lapidea con iscrizione in un latino molto addomesticato, curiosamente verso il francese, anche se qui linguisticamente siamo ancora in Piemonte e non in Occitania e men che meno nella Castellata. Forse risale a quando ancora il francese era la lingua ufficiale dello stato sabaudo. Sulla collina di fronte appare una cava, di cui sentiamo i rumori. La produzione di calce dal calcare è storica e sul finire dell'Ottocento balenò persino la prospettiva di impiantare uno stabilimento per la produzione di soda caustica, ma per la mancanza di un punto d'incontro tra l'impresa e il comune non se ne fece nulla. Allora come ora l'impresa chiedeva soldi a fondo perduto, ma il comune era troppo indebitato per concederli.
Seguiamo brevemente l'asfalto e poi pieghiamo a sinistra, costeggiando dall'alto un castagneto tenuto, posto sopra la sterrata di accesso alla chiesa. Risaliamo anche ripidamente, tagliando la strada, tra boschi selvatici e castagneti impiantati di fresco. I castagneti da frutto sono una produzione tradizionale del circondario, che affonda le sue radici nella colonizzazione bassomedievale, ma non dobbiamo pensare a un passato immutabile di boschi secolari. Nell'Ottocento, con le riforme liberiste conseguenti alla fine dell'Ancien Regime e dei sistemi di gestione medievale delle risorse, molti furono abbattuti per i rapidi guadagni del legname e del tannino, con effetti devastanti sulla capacità del territorio di reggere le alluvioni e le valanghe. Alla fine della salita, intercettiamo un sentiero CAI diretto in piano a Quaglia. Nella frazione ci sono quasi tutte case tenute, ma oggi disabitate. La più bella ha una terrazza coperta, un porticato dove è parcheggiato un trattore storico e un grande glicine. Di fronte c'è una fonte in pietra.
Ai margini del paese c'è poi un pilone votivo affrescato, un po' deteriorato. Se non ricordo male da qui si vede il Monviso, ma non oggi: abbiamo scelto questa meta perché è prevista una densa nuvolaglia sulle Alpi interne. Al pilone lasciamo il sentiero delle 4 chiesette, che raggiunge Lussia con un breve tratto su asfalto, a cui noi arriveremo invece con un lungo giro.
Seguiamo inizialmente il sentiero CAI diretto a Peralba, ma poco oltre lo lasciamo, passando per boschi, rimboschimenti di abeti e radure trascurate fino a raggiungere l'asfalto in corrispondenza di un pilone votivo rinfrescato di recente. Qualche elemento stilistico mi lascia perplesso: la faccia del san Girolamo sulla sinistra appare parecchi bizzarra, come del resto anche il polso di Gesù, nella figura principale sul fondo della nicchia. Per il resto, è invece dipinto con tutti i crismi: sul soffitto della nicchia c'è la colomba, simbolo dello Spirito Santo, nel basamento i dannati, anzi le dannate, perché sono tutte donne. Narra il cronista della Novalesa, a proposito del rapporto tra il genere femminile e i simboli delle religione cristiana: «Nessuna donna aveva il coraggio di avanzare anche solo un poco oltre la croce e di incamminarsi verso l'antico monastero poiché, così si racconta, per questo scopo essa era appunto stata innalzata. Infatti, se per una qualsiasi temerità, una donna ardiva oltrepassare quel limite, subito se ne ritornava o con sua ignominia o gravemente inferma o addirittura pativa una morte fulminea.»
Per asfalto ci avviciniamo a Bricco, prima del quale incontriamo un signore di mezza età intento a rasare il prato di un castagneto con un falciatrice. Il mio amico si lancia in un'appassionata discussione sui modelli di falciatrice, che poi scivola nelle frese per orto, dove li perdo. Poi però il signore si mette anche a parlare di agricoltura. Ci dice che quest'anno le castagne sono poche, acerbe e piccole, mentre le noci da qualche anno cadono senza aprirsi. Attribuisce ciò all'inquinamento e afferma che in pianura devono dare un sacco di veleni «altrimenti non viene niente». Non sembra invece turbato dai cambiamenti climatici: cita solo en passant la tremenda siccità di quest'anno e le attribuisce unicamente la ridotta dimensione dei frutti. Il signore ha un cane molto socievole e affettuoso con gli sconosciuti, che per questo bolla come «scemo». Non è la prima volta che sento un epiteto del genere da un montanaro: mentre per noi cittadini il cane è un attrezzo da coccole, per loro è da lavoro.
Ci andiamo a sistemare per uno spuntino su una panchina sul prato di fronte alla chiesa della piccola frazione. Ha la facciata dipinta di bianco, una lapide ai caduti, che mostra come una volta molta gente vivesse qui, e un cespuglio di rose. La Grande Guerra ebbe effetti disastrosi sulla magra economia di Venasca, ma dopo in questa frazione nacque per reazione un primo abbozzo di cooperativa bianca, per azione del curato, che però ebbe vita grama e breve per l'avvento del fascismo. È questa l'unica chiesetta senza porticato. Ci raggiunge un gattino tigrato molto confidente, che ottiene prosciutto e formaggio dal mio amico; io invece ho solo cibi salutisti e ho dimenticato le crocchette.

Il cane ci segue poi fino a un allevamento caprino, dove ritorna sui suoi passi. Per tracce recenti, passiamo tra boschi e praticelli, fino a raggiungere un punto in cui andata e ritorno sono sovrapposti. Entriamo in un fitto castagneto, per pista e poi sentiero bordato di muretti. A Meira Freisa è abbandonata un'Apecar 50, di quelle che una volta guidavano tutti i vecchi di montagna privi di patente; non sembra essere qui da tantissimo. Il nome indica un tipo di vitigno piemontese e sulla carta toponomastica è effettivamente segnalata l'antica presenza di vigne, ma non è chiaro se le due cose siano collegate o meno. Il sentiero prosegue più o meno in quota o in lieve salita, attraversando anche un deposito morenico di grossi massi, con un lungo giro attorno al dosso su cui sorge la chiesa di Peralba, un collinetta staccata dalla dorsale principale. Questa zona, per me fascinosa per il connubio tra bosco e grandi massi, è un buco nero di toponomastica: è circondata da un'alta densità di nomi dati ai particolari più secondari, mentre qui tutto giace innominato. I montanari davano nomi ai posti che colonizzavano, mentre non erano interessati alle zone selvagge: alle vette più alte, oltre i pascoli, quasi sempre fu assegnato un nome solo dai cartografi militari o dagli alpinisti. A borgata Isaia, deserta, raggiungiamo una sterrata, che con una salita graduale ci porta al prato pianeggiante su cui sorge la chiesa. Il nome del luogo non è una dedicata al profeta veterotestamentario, ma un cognome della zona: quella porzione della Bibbia cristiana è poco considerata nel culto cattolico, che si concentra soprattutto sulla Madonna e i santi.
La chiesa risale al XII secolo, ovvero presumibilmente al periodo in cui la zona di Venasca fu colonizzata in maniera stabile (anche per la vicina Melle i documenti rimandano a qui secoli). A giudicare dal toponimo del paese, doveva trattarsi principalmente di un insediamento di caccia dei marchesi di Saluzzo. Nei pressi si trova anche un pilone votivo. Il prato è tutto giallo, a causa della siccità estiva e non dell'autunno incipiente, come già alcune foglie sugli alberi. Attorno ci sono casette di vacanza, che, dallo stle cementizio con innesti rustici, potrebbero risalire agli anni ’60 o ’70. Scoprirò che a quei tempi da queste parti funzionò una stazione sciistica, abbandonata per la diminuzione delle nevicate a bassa quota, e, per fortuna, anche smantellata. Retrospettivamente, queste architetture mi sembrano consonanti con quelle del boom sciistico di quegli anni.
A giudicare dalla presenza di una di quelle installazioni di tubi, che puntano verso i vari punti notevoli del panorama, in una giornata limpida dovrebbe godere di una bella vista. Oggi invece c'è foschia e il cielo è parzialmente coperto da nuvole, dall'aspetto estivo nonostante domani sia l'equinozio d'autunno, tanto nella forma, quanto nella quota. Ci sistemiamo a pranzare sotto il portico, sentendo il lontananza una campanile suonare un bot. Dopo il caffè e la grappa di nebbiolo, il mio amico si concede un pisolino sul prato.

Al crocicchio ai margini del prato un cartello indica le varie destinazioni escursionistiche raggiungibili da qui. Seguiamo l'asfalto in lieve discesa, fino a intercettare un sentiero, che si stacca da un tornante. In discesa, transitiamo tra castagneti cintati da filo spinato, credo mirato più ai plantigradi che ai cinghiali. Raggiungiamo il tratto in comune con l'andata e in piano borgata Collino, dove nelle fine settimana funziona un bar ristorante. È una zona turistica per il vicino campo da golf. Sulla soprastante strada va a spasso un cagnetto affettuoso, che ci fa le feste e poi prosegue per il suo giro.
Lasciamo la strada e, con un breve strappo, imbocchiamo una pista in quota nei castagneti. Ad un certo punto, osserviamo che tra vecchi castagni sono spuntati faggi giovani: i primi erano stati piantati fuori del loro areale, per l'importanza che rivestivano, specie prima dell'introduzione della patata, ma con l'abbandono la natura sta riconquistando i suoi spazi. Ad un certo punto svoltiamo a destra e cominciamo a scendere, tra castagneti e radure, fino a Lussia. Una volta questa zona era coltivata a segale, il cereale per eccellenza dei climi freddi e quindi della montagna. La frazione si presenta abbastanza isolata, tra boschi, e magari per questo era associata alla presenza di masche.
In questa frazione ci sono una grande casa a più piani con una colonna circolare a sorreggere il tetto, un elemento architettonico tipico delle vecchie case di queste valli, oltre a una casetta con piscina, dove vendono il miele. Oggi però il cancello d'ingresso è sbarrato da una catasta di legname da costruzione. Ai margini dei paese ci sono le arnie e un recinto con qualche cavallo.
Proseguiamo per una pista in quota, fino a imboccare un sentiero che scende lungo una dorsale a un gruppo di case diroccate. Nei pressi, allungata su un terrapieno, sorge la cappella di Sant'Antonio. È molto curata e ha anche un locale privato per il pernotto, con camino metallico nuovo di zecca. Volendo, si può suonare la campana, ma ci asteniamo. Sulla facciata sono dipinti i due Antonio, abate e da Padova; per non fare torto a nessuno qui sono festeggiati entrambi, nelle rispettive date. Nel porticato ci sono molte feci, stavolta legittime, delle arvicole.
Con un traverso e una ripida discesa gradinata arriviamo a un ruscello, dove in giorni umidi vedemmo numerose salamandre. Questi schivi animaletti della pioggia e della nebbia nell'antichità erano creduti invulnerabili al fuoco. Come tali sono citati nella lettera del Prete Gianni, giunta nel XII secolo all'imperatore bizantino, in cui un fantomatico sovrano cristiano d'oriente gli offriva aiuto contro i Turchi. Si racconta che, in quel regno dove cose mirabolanti erano pane quotidiano, quando esse passvano nel fuoco si ricoprivano di un tessuto che rendeva invulnerabili alle fiamme. In quel periodo erano arrivati dalla Cina i primi tessuti in fibra di amianto, con le loro magiche proprietà, e si credeva che le salamandre c'entrassero in qualche maniera. Fu Marco Polo a scoprire che le fibre venivano invece dalla pietra.
Superiamo il rio su un ponticello di legno, credo costruito in occasione dell'apertura del sentiero. Del muschio sembra aver superato la siccità, restando verde. Risalendo nel bosco verso Bonelli, ci imbattiamo in una zona con sottobosco sfrondato e più in alto sentiamo un decespugliatore all'opera, ma non incontriamo nessuno a cui chiedere quale sia il progetto sottostante. In un'altra occasione incontrammo invece un cacciatore milanese, il quale si lamentava di non poter sparare verso il paese con fucili a lunga gittata, perché la gente avrebbe brontolato. Ci raccontò anche qualche leggenda metropolitana sui lupi.
A Bonelli ci sono della casette molto rustiche ben tenute e, a monte delle case, un pilone votivo con tebeo a cavallo. Un giro nelle valli del Monviso non è completo senza san Chiaffredo. Al centro di un prato pianeggiante troviamo un pero, da cui sono caduti dei frutti ancora utilizzabili. Ne raccolgo un po' e li metto nello zaino, da mangiare al forno, perché sono molto duri. Avranno un discreto sapore ma saranno molto meno zuccherini delle pere che si acquistano al mercato: non se sia il clima, o se col tempo siano state selezionate varietà più dolci a fini commerciali. Dopo aver pensato alla crapula, mi dedico anche a qualche foto del pero, approfittando di qualche raggio di sole.
In cima al prato c'è l'ultima chiesetta di oggi, dedicata a sant'Anna, come detto patrona di Venasca. Un dipinto la raffigura mentre insegna a Maria bambina, con san Gioacchino che osserva in disparte. La santa non è nemmeno citata nei vangeli canonici: tutto quello che sappiamo di lei viene dai vangeli dell'infanzia di Gesù, che, pur non essendo riconosciuti come divinamente ispirati, sono entrati così nel culto cattolico. La devozione, nel corso dei secoli, ha prodotto un ricchissimo corpus di ex-voto. I quadretti mi affascinano come colossale performance collettiva di fede nel post hoc, ergo propter hoc (dopo di ciò, perciò a causa di ciò), un errore di logica così insito nel nostro modo di ragionare, che la maggior parte della gente lo impiega abitualmente, per tutto il corso della propria vita; in parte il merito va anche all'ammirevole capacità del cervello di fabbricare illusioni, per permetterci di gestire l'assurdità e l'asprezza dell'esistenza. I giornali, i tavoli dei bar, i corridoi dei centri commerciali, i social sono pieni di furiose discussioni fondate su queste premesse, in cui ciascuno seleziona la causa in ossequio ai propri preconcetti, senza preoccuparsi di identificare un campione di controllo. Ci sono voluti secoli, per capire come condurre indagini empiriche rigorose, e non so quanti ce ne vorranno affinché i metodi diventino sentire comune: provo compassione per chi, sulla scia di Carl Sagan, insiste ad accendere una candela, mentre il mondo soffia.
Annessa alla chiesa in passato funzionò una scuola elementare. Altre funzionavano a Bricco, costruita in periodo fascista e dedicata ad Arnaldo Mussolini, e a San Bernardo, ma molte frazioni non potevano usufruire di alcuna a causa della distanza. Mi stupisce che nell'anno scolastico 1885-86 i tre anni di frequenza richiamassero oltre 200 alunni, più di quanti ce ne fossero nel mio quartiere di case nuove e 5000 abitanti, quando ero bambino; per non parlare di oggi. Era una popolazione davvero molto giovane, a cui spesso si riusciva a provvedere solo instradandola verso l'emigrazione permanente. Vicino al Varaita ha lasciato il toponimo di “prato dell'americano”. Non molti di questi bambini riuscivano effettivamente a seguire i corsi, perché l'evasione era di circa il 50%, a causa del lavoro minorile, spesso servile, e delle condizioni di indigenza e degrado sociale. Le stesse condizioni fisiche delle scuole non erano certo ottimali, per usare due eufemismi. Storie che risulteranno familiari anche a chi si occupa di scuola ai giorni nostri.
Facciamo merenda sotto il porticato, facendo attenzione a non sporcare.

Quando ripartiamo, ci fermiamo quasi subito a contemplare un boschetto artificiale molto curato, privo di sottobosco e che mostra già i pieni colori autunnali. È senz'altro il bosco più fotogenico tra quelli visti oggi, perché nessuno dei castagneti antichi era così ben tenuto. Il bosco allo stato naturale è molto caotico, molto difficile da attraversare e ostile alla presenza umana, per cui non mi stupisce che in genere i montanari ne abbiano una cattiva opinione.
Proseguiamo lungo una dorsale, tra altri castagni e rimboschimenti di conifere, facili da individuare grazie agli alberi tutti coevi. Sono la pezza novecentesca ai disboscamenti del secolo precedente, attuati in seguito a un forte movimento d'opinione, quando gli effetti deleteri dei pendii nudi divennero evidenti. Siamo circondati da pendii ripidi e boschi selvaggi. Arriviamo a Ponza, dove transitiamo accanto a una casa che solletica il mio fascino per l'orrido, tanto è raffazzonata e mal tenuta. La prima volta che la vidi, condivisi la foto con tutti coloro che avevano a che fare con l'architettura. Seguiamo il sentiero delle 4 chiesette, perché l'altro ci costringerebbe a un rientro su asfalto, mentre questo va dritto a Venasca, che raggiungiamo abbastanza ripidamente, su una costa sfiorata dal sole. Ci arriviamo con una vista a raso sul paese; oggi vediamo solo case, mentre nell'Ottocento nello skyline la chiesa sarebbe stata accompagnata dalla ciminiera della filanda, chiusa quando concause ambientali e politiche mandarono in crisi il settore serico italiano. Un pilone votivo del 1937 marca l'inizio del sentiero.
Come prima casa c'è l'edificio in cui è contenuto anche l'asilo, che ha un cortile con un porticato ad archi. Neanche stavolta riesco a ottenere una foto soddisfacente del bel palazzo di fronte alla chiesa. Alla fontanella di stamane mi metto in coda a una vecchia che riempie una bottiglietta di acqua Vitasnella Detox. Purtroppo gli alimentari sono chiusi e non possiamo acquistare dei dolci di castagne.
Concludiamo al Segnavia sfondandoci di galettes e birra agricola, che preferisco all'acqua trendy, per eliminare i liquidi in eccesso tramite la diuresi. Nonostante il mio thermos contenesse nove caffè da dividere in due, ne prendiamo ancora uno a testa. Mi informo pure sulla composta di cipolle rosse che accompagna i formaggi. Punto infine delle marmellate di montagna da regalare alla mamma per il prossimo compleanno. Quanto allo spirito, nella sezione dell'editoria locale individuo un libro sugli ex-voto che mi interessa, ma ho già un notevole cumulo di arretrati da leggere, per cui per ora lo lascio lì.

Per approfondire

D. Balestracci, Terre ignote strana gente : storie di viaggiatori medievali, Roma 2008
L. Berardo (a cura di), Crocevia di valle, Venasca tra otto e novecento, Venasca 2003
D. Kuntz, Wagner's Magic Fire Music (from Die Walküre): Harp Rewrite, YouTube
Museo dell'arpa Victor Salvi
Venasca. Area piemontese, Torino 2008

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Sergio Chiappino

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