La Balconata di Ormea

Val Tanaro

1 giugno


In un baleno

Borghi rustici, terrazzamenti naturalizzati, castagni convoluti e tritoni: una traversata sul versante solatio della val Tanaro, dove Alpi e Mediterraneo si compenetrano fisicamente e culturalmente

Cariò
Cariò

Diario di viaggio

La Balconata di Ormea è un percorso segnalato nel 1999, che congiunge tramite stradine e sentieri in quota varie frazioni di mezza montagna del comune poste sul lato solatio della val Tanaro, la valle alpina piemontese più meridionale, oltre la quale cominciano le valli liguri dirette al Tirreno: una terra di transito e confine meticcia, anche nel clima e nel dialetto. Durante l’era della colonizzazione alpina stabile, tra Basso Medioevo e metà Novecento, erano il cuore agricolo della valle, in quanto sui versanti ben esposti si coltivavano i cereali di montagna e vi erano estesi castagneti nelle zone meno addomesticabili. Più in alto si estendeva la zona delle praterie destinate al pascolo, questo ancora praticato al giorno d’oggi.
A parte la salita dal fondovalle alla quota dei villaggi, l’escursione si snoda in una successione di saliscendi privi di cima, a meno di voler considerare tale una pozza a cui faccio una puntata extra per ragioni erpetologiche. Non santifico perciò a dovere l’odierna festività traslata dell’Ascensione innalzandomi verso i cieli su una cima crociata, e credo di essere stato l’unico eretico, perché non ho incontrato altri escursionisti sul percorso.
A priori non ho informazioni precise a proposito della lunghezza del giro, in quanto ho trovato descrizioni solo del tratto in quota: apparentemente nessuno ha mai pensato di chiudere un anello dal fondovalle, magari pernottando in qualcuna delle strutture ricettive presenti sulla Balconata, come i rifugi a Quarzina e Chionea e l’albergo ad Aimoni. So che in effetti avrebbe più senso spezzarlo in almeno due tappe, magari nella stagione dei colori autunnali: la metà è pressappoco a Chionea, dove c'è un rifugio.

Una sveglia alle 4 e un viaggio crepuscolare sull’autostrada deserta mi consentono di superare in souplesse il senso unico alternato sulla statale del colle di Nava e così sarà anche al ritorno, grazie alla domenica seguita dalla Festa della Repubblica. La stazione terminale della Ceva-Ormea è dismessa dal 2012, quando il governo regionale, competente in tema di trasporti locali, fece tirare le cuoia ad alcune linee minori, se non fosse per qualche treno a vapore per i turisti amanti del vintage. La ferrovia, nei progetti dei suoi promotori, avrebbe dovuto proseguire fino a Oneglia: tuttavia perse una prima gara, ai tempi del decennio di preparazione cavouriano, con quella di Savona, dal percorso più breve e dalla quota massima meno elevata; successivamente con la Cuneo-Ventimiglia, caldeggiata dal presidente della Camera, il veterano del Parlamento on. Biancheri di Ventimiglia.
È invece operativo fin dalle 5, come ogni giorno, il bar annesso. A dire il vero, mi aspettavo una focaccina più unta per la vicinanza con la Liguria, mentre il caffè è ottimo, anche se l’eccellenza sono i panini con le acciughe al verde, nei casi in cui si finisca la gita presto e si faccia merenda. L’evento non è previsto stasera, in quanto stimo di arrivare più tardi della chiusura alle 20. La proprietaria del bar, che ricordo sempre identica da quando passai di qui la prima volta almeno quindici anni fa, si lamenta con una coetanea dello sbattimento per tingersi i capelli, che porta cortissimi e quasi a spazzola, per cui le annuncia che li lascerà grigi; la cliente assente. Gli unici altri avventori sono tre nonni dei boomer seduti a un tavolino.
Recupero l’auto lasciata a filo della strada e parcheggio più ordinatamente nei piazzali predisposti lungo il fiume. Lo valico su un ponte detto dei sospiri, dalle passeggiate romantiche della Belle Epoque, quando Ormea visse il periodo di maggior fulgore turistico. A quei tempi era in legno, mentre l’attuale è posteriore all’alluvione del 1994, la prima di una lunga serie recente, che allora colse impreparati gli apparati di sicurezza e soccorso e tra le altre cose costrinse e riprogettare molti ponti, affinché offrissero abbastanza luce da non essere tappo alla furia delle acque mai vista prima e non riversarle nei centri abitati. Peraltro non sono una novità dovuta ai cambiamenti climatici recenti, i quanto già in altri secoli di clima estremo erano abituali. Oggi sfiorerò appena il paese, senza visitarlo, dal momento che sono interessato alla natura e alle frazioni rurali: noto a malapena il castello del X secolo, di cui resta qualche muro sbrecciato in seguito allo smantellamento nel periodo napoleonico. A proposito di natura, per contro, il nome medievale del paese, contenuto negli Statuti del XIII secolo, è Ulmeta, da olmo, un albero che spesso ancora a quei tempi aveva la funzione sacra di sede delle assemblee cittadine.
Riempita la borraccia a una fonte, decido all’ultimo in quale verso percorrere l’anello: visto che il cielo è appena velato, scelgo di puntare subito verso Quarzina e il lago Lao, sperando di arrivarci prima delle nuvole, che in questa stagione frequentemente salgono abbastanza presto dal mare, tanto da generare dei toponimi, anziché dalla pianura come nelle valli delle Alpi Occidentali. La maledizione delle Liguri è oggi definito questo fenomeno dagli escursionisti locali, in maniera goliardica solo fino a un certo punto, in quanto trovarsi immersi improvvisamente nella nebbia, oltre a privare dei panorami, procura non pochi grattacapi di orientamento sugli ampi pendii prativi in quota, privi di punti di riferimento. Al proposito il Casalis riferisce che il Mongioie è avvolto da una nuvoletta perenne, che «talvolta a poco a poco si abbassa, dilatasi, s’ingrandisce in varie forme e cuopre i sottoposti balzi, congiungendo la subalpina pianura con quella del Mediterraneo; onde più [lo spettatore in vetta] non discerne che un immenso, piano il quale si confonde collo spazio del cielo: di là egli a ciel sereno scorge talora cadere a dirotto la pioggia nelle sottostanti vallee, sente rumoreggiare il tuono, i lampi guarda l’irregolare corso dei fulmini che s’innalzano sopra il suo capo, e compreso di sacro orrore, supplichevole le mani al cielo, adora sommesso l’autore tante meraviglie ed apre poi l’animo ad ineffabile gioja, quando la nebbia si squarcia, ed in breve l’aere tutto all’intorno si rasserena». Le previsioni meteo di oggi sono discordi sull’evoluzione, sulle modalità e sulle sue tempistiche, lasciandomi il dubbio su cosa mi aspetta, anche se poi alla fine l’andamento sarà relativamente abituale per la stagione.
Alle 6.30 imbocco dunque la stradina asfaltata verso monte, ancora in ombra, mentre la prima luce dorata raggiunge il paese, dopo che all’arrivo in auto avevo visto il Pizzo d’Ormea tingersi di fuoco. Questa montagna ha la forma di una piramide di ampi declivi prativi, che terminano in alto con una cuspide rocciosa. Mi incuriosisce pure, per una dentellata porzione rocciosa, purtroppo in ombra, detta dai locali le Panne (che vuol dire semplicemente vetta, un toponimo diffuso), la cresta tra questo e l’Antoroto, una delle montagne con i nomi più sgraziati e cacofonici della regione, insieme all’Autovallonasso della val Maira. È un nome colto derivato dal nome scientifico di una specie di aconito molto diffusa sui pendii (Napello anthora). La stradina è a tratti chiusa da transenne e reti metalliche, perché ha dei punti un po’ mangiucchiati dal fiume, ma a piedi si passa con ampi margini di sicurezza. Più avanti, dove diventa sterrata, troverò un annuncio di chiusura, contrassegnato da reti arancioni di plastica sfondate, con una strettoia più marcata, dove effettivamente sarebbe impossibile passare con un mezzo a quattro ruote. Proseguo in un fresco bosco di aceri, frassini e castagni, anche monumentali. Su una fontana è affisso un pannello ligneo che indica il livello dell’alluvione 2016, un metro e mezzo sopra il piano stradale. Dove la sterrata corre proprio sul margine mi affaccio a scattare una foto al fiume, la cui acqua è di un blu cristallino, con lo sfondo di bancate calcaree e pendii boscosi.
Cantarana è una fila di case dall’aspetto parecchio misero, ma circondato da bianchi picchi calcarei davvero instagrammabili. Alla base di uno di questi, invero bitorzoluto e pure pennellato dalla luce ancora radente seppure ormai incolore, è stato ricavato l’imbocco del traforo per Armo, un’opera abbozzata molti anni addietro e fortemente richiesta dagli imprenditori e dalla logistica, specie oggi che un sindaco esasperato ha interdetto il traffico pesante a lunga gittata da questa via per il Ponente e la Francia, che evita le costose e spesso ingorgate autostrade. Peraltro il traforo sull’opposto versante termina in una valletta priva di collegamenti veloci per Pieve di Teco, che quindi sarebbero anche quelli da realizzare ex-novo.
Queste pareti nascondono la Balma del Messere, una grotta murata che deve il nome al comandante in capo dei Saraceni, che vi avrebbe avuto residenza. Inoltre Antonio Astesano, umanista astigiano del XV secolo, all’interno di un poema sulla storia della sua città, il Carmen de varietate fortunae, sive de vita et gestis civium astensium, nel rielaborare la storia di Aleramo e Adelasia ideata da Jacopo d'Acqui, resa celebre secoli dopo dal Carducci, fece rifugiare i protagonisti in una caverna murata sulle pendici della Pietra Ardena presso Garessio, che egli aveva visto con i suoi occhi mentre cercava scampo dalla peste. Identificarla con questa è naturale, sebbene Garessio abbia una sua pretendente e anche centri liguri avanzino le loro pretese. Di seguito il passo e la traduzione, tratte da “Memorie storiche della città e marchesato di Ceva”, di Giovanni Olivero (1858).

Pars Apennini est, quæ petra Ardena vocatur
Ardua Silvestris, saxea et apta feris.
Tamque alta, ut credas illam contingere nubes
Quam vidi his oculis, testis et esse queo.
In radice tamen montis nunc arbor abundat
Castaneæ victum quæ dare sæpe solunt.
Iuxta hanc Garessii jacet hoc in tempore castrum
Cui domina ex Cevæ nobilis illa domus.
Fortis Aledrami paritur de semine nata
(Nondum Garessium tempus in illud erat).
Est locus Ardenæ prope summa cacumina petræ
Concaves, inque antro saxea facta domus.
Hic, ut Aledramus chara cum conjuge tutus
Ire queat, vitam ducit uterque diu.
Carbonemque facit, venalem fert et ad urbem
Albingam, multis vendit ibique viris.

Avvi una parte dell'Apennino chiamata pietra Ardena, ardua selvaggia sassosa ed acconcia per le fiere; alta così che pare voglia toccar le nuvole. La vidi cogli occhi miei e posso attestarlo, alla radice di questo monte, gli alberi di castagna somministrano l'alimento a quei montanari. Vicino a questa giace al dì d'oggi il castello di Garessio di cui è signore la nobile casa Ceva della stirpe anch'essa d'Aleramo il forte (non vi era ancora Garessio in quel tempo). Verso la sommità della pietra Ardena v'è una caverna, ed in essa una specie di casa fatta nel sasso. Qui visse lungo tempo Aleramo colla sua cara consorte, come in luogo di sicurezza. Vi si mise a far carbone portandolo a vendere in Albenga a molte persone


Una voce contenuta nella guida di Ormea, pubblicata nel 1897 dal medico direttore dello stabilimento idroterapico, attribuisce poi un passaggio a Byron, che vi avrebbe scritto dei versi su una parete, che tuttavia risultavano già invisibili a chi a fine Ottocento riporta questa storia. Gli scavi archeologici condotti nel 1979 e nel 1982 hanno rinvenuto frammenti ceramici del Neolitico finale assimilabili a quelli delle Arene Candide e tracce di un insediamento stabile dell’Età del Bronzo.
Dove attraverso la strada per il colle di Caprauna, mi sorpassa un ciclista attempato: «Buondì» «Buongiorno». Guadagno un po’ di quota e scendo nuovamente, fino a raggiungere il ponte della statale, che qui valica il fiume e si dirige verso il colle di Nava senza passaggio pedonale. Lo attraverso pertanto a mio rischio e pericolo e scopro di essermi brevemente intrufolato in Liguria. Mi fermo su una panchina di fronte alla chiesa, sul cui sagrato c’è una fontanella con una scultura e la citazione evangelica dell’acqua viva.

Ponte di Nava esiste grazie a ristoranti e negozi di prodotti tipici, forse mirati ai camperisti in transito: d’altronde questo gruppo di case nacque dopo la carrozzabile, mentre il nucleo antico era quello a monte che sfiorerò tra poco. Li passo in rassegna attraversando il paese affacciato sulla statale, lungo lo stretto marciapiede, che infine scompare costringendomi a rasentare le auto in corsa per l’assenza di una banchina. Quando temo di aver perso l’imbocco del sentiero per Quarzina, su cui non ho trovato informazioni in rete, mi imbatto finalmente un cartello all’imbocco che mi fa ben sperare, ma illusoriamente, in quanto il sentiero è pochissimo percorso e altrettanto segnalato: una delle regole non scritte, ma rigorosamente rispettate, dell’escursionismo prescrive infatti che si salga in auto fino al punto più elevato possibile, ovvero appunto Quarzina, per raggiungere la cima con il minor dislivello. Subito si arrampica ripido a stretti tornanti fino alle rustiche case superiori del paese, dai rattoppi contadini, oltre cui, in assenza di segnalazioni, imbocco dapprima l’accesso a un campo di patate, quindi trovo con la carta l’imbocco corretto, salvo perdermi immediatamente in un prato calpestato da caprioli o cinghiali. Scopro peraltro che nella mulattiera l’erba non è affatto più bassa. Pertanto a Valmarenca, un gruppo di semplici case deserte, affacciate verso l’intaglio del colle di Nava che la espone appunto ai venti marini, vedendo che nulla muta, decido di seguire il tornante della strada.
L’imbocco successivo pare più lo scarico di un torrente, ma glabro, per cui impavido lo affronto, salvo scoprire che è dismesso e devo passare sulla ripa dell’incavo storico, ora dissestato e ingombro di cespugli e alberelli. Quando mi avvicino alla pista di accesso a una casa, resto un po’ incerto se doverla raggiungere per rovi o puntando allo scarico di un tubo. Un signore che parla una lingua di cui non individuo nemmeno il ceppo, a gesti mi fa capire che è la seconda che ho detto, poi in inglese mi indica il proseguimento. Da qui le faccende migliorano, perché attraverso un castagneto da frutto dove la mulattiera è rimasta in buone condizioni, con fondo lastricato e delimitata da bianchi muri secco, salvo nel guado di un rio, dove una qualche alluvione ha divelto il passaggio, costringendomi ad aggirare dei massi senza pena, per poterlo oltrepassare senza rischi di scivolata su rocce lisce. Ad un certo punto sento un cuculo cantare sopra la mia testa: mi arresto e guardo in giro, perché non ne ho mai visto uno dal vero, ma nemmeno questa è la volta buona. Tutti gli altri della giornata saranno più lontani. Il sole ha raggiunto questo bosco e la temperatura è sopra la soglia della gradevolezza, nonostante l’ombra delle chiome.
Raggiungo una casa diroccata con una data del 1870 circa e dei lavatoi in cemento come ultima opera prima dell’abbandono. Sento sempre più furiosi dei bramiti di un capriolo o un cervo, probabilmente non di daino perché non striduli, non riesco a capire bene. Prima di sbucare sulla strada, passo da una chiesa con portico in cui interno è inaspettatamente sontuoso, deduco grazie al benefattore ricordato da un targa lapidea. Un breve tratto di mulattiera con edicola rovinata mi porta alle case molto curate e aperte di Sen, dove stavolta la vecchia edicola è stata affrescata in tempi recenti con una Madonna e delle rondini, un soggetto non previsto dai canoni tradizionali. Bevo avidamente alla fonte. A monte della case mi convinco che il mare sia visibile da qui, sebbene la foschia lontana nasconda l’azzurro. Chi è stato più fortunato di me afferma che si vedano Oneglia e la Corsica. Avrebbe potuto essere l’unico momento della gita in cui avrebbe avuto senso estrarre il binocolo, ma l’idea non mi sovviene.

Prevalentemente per strada raggiungo Quarzina, punto di partenza privilegiato per il Pizzo d’Ormea. È la frazione più antica del paese, l’unica citata negli statuti medievali, perché le altre probabilmente risalgono al ripopolamento posteriore alla peste seicentesca. Prende il nome dalla presenza di conglomerati quarzosi, da cui in passato si ricavavano strumenti per cui era necessaria lo loro durezza, come le mole. Il Casalis invece, citando un passo di un documento antecedente gli statuti, dove si afferma che il signore della zona vi ricavava sei forme di formaggio, lo fa derivare dal termine celtico della casata, quarg. Peraltro lui afferma che servono due ore dal capoluogo a qui, mentre io ce ne ho messe tre. Mi fermo al rifugio per un secondo caffè e approfitto del bagno per spalmare la crema solare. Inoltre avverto che oggi arriverà il momento di liberare l’intestino e mi piacerebbe evitare di farlo nell’erba alta, dove un nugolo di zecche si attaccherebbe alle mie chiappine, come mi capitò lo scorso anno, ma non è ancora scoccato il segnale interiore. Mentre annoto i dettagli del cammino, ascolto distrattamente il notiziario delle 10 contare le vittime dei bombardamenti a Gaza e dei festeggiamenti per una partita di calcio a Parigi. La gestrice invece parla con un amico di un gruppo arrivato il mattino presto per addestrare dei cani da ferma e già sceso. Oltre vedrò i cartelli che delimitano la loro zona.
Intercalato a numerosi gruppetti al massimo di quattro persone, proseguo lungo la strada assolata, da cui ammiro il semplice paese allungato lungo la curva di livello di un pendio ripido. I tetti in coppi e in lamiera hanno sostituito quelli in paglia di segale, leggeri e durevoli, in passato comuni nelle Alpi del mare, dove scarseggiano le rocce scistose adatte a costruire le lastre di copertura. La segale è il cereale più adatto ai climi freddi e una volta era onnipresente in montagna, coltivato per l'autoconsumo anche fino a 2000 m, specialmente prima della diffusione della patata nel XVIII secolo, mentre oggi è scomparso.
Imbocco un sentiero tra erba e fiori, dal fondo spesso roccioso, prima di sbucare tra morbidi dossi prativi con rade conifere. Oggi più volte sentirò odore di resina, generalmente dai pini silvestri. Frattanto le nuvole sono arrivate e dalle cime si estendono verso valle, restando più alte di me.
Due signore che sorpasso, dirette al lago Lao come me, mi chiedono se il cocuzzolo erboso poco sopra di noi, apparentemente il castello di Quarzina riportato sulla carta, sia il Pizzo d’Ormea, ma io spiego loro che la cima è molto più elevata. «Più di così?». Raggiungo la chiesetta di san Giovanni costruita dopo la Grande Guerra per celebrare gli eroi che si immolarono per la patria, anche se probabilmente questi montanari ne avrebbero fatto volentieri a meno, non fosse stato che alle loro spalle c’erano i carabinieri pronti a ucciderli in caso di tentennamenti. Sotto il portico chiacchierano un ragazzo e una ragazza, mentre alle spalle dell’edificio una ragazza sbuca da un tenda. Raggiungo il lago per una pista panoramica sulla valle e su Chionea, tra rododendri fioriti.
All’arrivo subito mi metto a curiosare a riva in cerca dei tritoni, che non vedo da dieci anni e sono la ragione per cui ho scelto questa puntata: il laghetto di per sé è poco più di una pozza, ingrandita con una piccola diga artigianale a beneficio del bestiame estivo. Ne vedo in abbondanza e riesco anche a ricavare un ritratto decente, con il tele al massimo e il polarizzatore per eliminare il riflesso del cielo sull’acqua. Ieri, consultato il meteo, ero incerto se portare i tre obiettivi compatti da bel tempo (grandangolare, normale e zoom tele) o il solo normale corto, che di giorno ha una resa meravigliosa nella nebbia e sotto cieli cupi, ma è ingombrante come i tre messi assieme e molto più pesante; alla fine ho scelto la prima opzione, che si rivelerà vincente per la maggior parte della gita: con il secondo una foto ai tritoni sarebbe stata scadente e avrebbe comportato pure il rischio di finire in acqua per andare abbastanza vicino. Vista la distanza temporale dalla colazione, spizzico infine dalla ciotola del pranzo, dove ho messo farro con pomodori al curry e fagioli.

Con il cielo ormai coperto di nuvoloni vaporosi e cupi, torno alla chiesa, dove imbocco il sentiero per Chioraira, ben segnalato ma inizialmente scarsamente tracciato, ignorando invece l’evidente pista ghiaiosa per Aimoni. Sotto una manciata di gocce (di numero) scendo per prati con radi alberi, per poi trovare boschi più fitti con faggi e sorbi alternati ad altre radure. Ogni tanto i prati sono impaludati, costringendomi a manovre di aggiramento tra qualche crampo alle cosce. Alla fine mi trovo in un bosco continuo, dove si susseguono faggi, abeti e pure una curiosa associazione di lariceto pascolato con ciliegi.
Confluisco su una pista, tramite cui raggiungo delle baite di pastori, in parte ristrutturate, dove gironzola un’alpigiana dall’aspetto longilineo e dagli eleganti tratti somatici da alta società. Come vedrò più sotto, qui caricano vitelli piemontesi da carne, che non hanno bisogno di grandi cure e vivono liberi come camosci la loro breve esistenza. Curiosamente pascolano al limite superiore dei prati, mentre più in basso l’erba è alta, come se fossero stati portati direttamente in quota da un camion di Overland.
La strada scende morbidamente con ampi tornanti, tra prati e brevi tratti di bosco. Alcune baite dirute mostrano che in zona erano reperibili rocce scistose adatte a fare tetti, ma evidentemente non erano molto comuni. Poco alla volta si fanno strada essenze delle basse quote fino a condurmi nella fascia dei castagni da frutto. Ci sono molti esemplari imponenti, taluni abbattuti dall’età o dagli elementi; per monumentalità competono e sovrastano pure i più maestosi e nodosi che ricordi a Triora, Fontanigorda e in Corsica. Ne fotografo un paio inseriti nel catasto regionale degli alberi monumentali e mi riprometto di venire a riprenderli nei giorni di nebbia autunnali o invernali, quando è più semplice ottenere buone foto nei boschi, sebbene la distanza e il costo dell’autostrada complichino la faccenda. Non è la prima volta di un simile proposito, ma magari alla fine mi stancherò dei cembri dell’Alevè e sarà la volta buona.
Chioraira ha l’aria dimessa per essere la capitale di castagneti così fiabeschi: forse la sua modernità boomer di intonaco, ferro e cemento, curata ma sorpassata, invisa a Revelli, semplicemente non combacia con i miei gusti puramente estetici. Tra queste borgate non è la più recente, ma non mi pare di aver scorto quella attuale e più accattivante con cuore urbano ma esterni in pietre a vista, legno laccato e ampie vetrate, pseudo-retrò, che domina nella riscoperta della montagna post pandemica. Il medico direttore, dopo aver scritto che gli abitanti del comune sono «sani, robusti, piccoli; rare le malattie, le deformità e l'idiotismo», specifica per contro che a Chioraira «dai loro usci spuntano, ad ogni arrivo di forastiero, figure di uomini e donne invecchiati anzi tempo, e come i loro bambini, un po' male in arnese». Mentre bevo a garganella alla fontana, poiché il sole zenitale è ricomparso sulla sterrata tra i prati e non bevo dal laghetto, un fuoristrada con due signori anziani arriva come a cercare un parcheggio inesistente e fa dietrofront. Gli abitanti devono tutti essere chiusi in casa a pranzare, vista l’ora.
L’uscita dal paese è un prato trascurato, dopodiché arrivano torrioni rocciosi in un pendio scosceso, fino all’infossato rio Chiapino, che in un’alluvione ha divelto il vecchio ponte in pietra, ora sostituito da una minimale passerella di assi, senza mancorrenti. Riano, edificata chissà perché su un pendio ripidissimo senza spazi, ha una casa con bandiere di preghiera della teocrazia trendy, una con un frutteto protetto da reti antigrandine («poma» e pere erano prodotti tradizionali e abbondanti del comune), ma soprattutto molti castagni, alcuni dei quali dalla corteccia tortile imitata dalle colonne del baldacchino di San Pietro. Altri castagni più innanzi c’è Porcirette, dove una vecchia, che tento inutilmente di contraddire, ritiene gradevole il caldo afoso odierno.

Incrociata una coppia di corridori, gli unici pedoni che vedrò sul percorso della Balconata, per radure giungo a Chionea, una frazione molto curata e rifinita, con molti dipinti sulle case, dove intendo fare la pausa pranzo, per consumare la parte più consistente del baracchino. Cerco perciò un luogo comunitario, che trovo in una panchina sotto il portico della chiesa. L’edificio barocco è molto essenziale, tranne l’altare, importato dal capoluogo quando a inizio Ottocento fu sostituito con un altro più pregiato. Il portico è lastricato con un mosaico bianco e blu di pietre di fiume arrotondate e infisse a coltello, di gusto ligure. In paese c’è un rifugio, in posizione strategica per spezzare in due giorni questa gita, che tuttavia quest’anno non ha ancora aperto per la stagione estiva né annunciato quando intende farlo. Nonostante la festività, è anche chiuso il contiguo Museo dei Ricordi, una celebrazione della vita contadina nostalgica nel senso di Enrico Vaime («la nostalgia si giova spesso dei vuoti di memoria»), di cui si può solo visitare il relativo sito.
Il cielo frattanto si è riaperto, almeno qui verso il centro della valle, immersa tuttavia in una densa foschia da calure umide, perché invece sulle cime stazionano nuvoloni montonati e accecanti. Bevuto e rabboccata la borraccia, mi metto in marcia sulla strada in salita, salutando una signora e spaventando qualche gattino, per poi imboccare un sentiero che affronta diretto un prato di erba alta e un po’ fiorita. Da queste montagne calcaree mi sarei aspettato fioriture più lussureggianti: le escursioni delle settimane successive mi suggeriranno che il picco deve ancora arrivare; quasi al colle c’è in compenso un maggiociondolo carico di ori penduli come una sposa gitana.
Varcata una dorsale nel punto chiamato colla di Chionea, taglio in discesa un pendio molto ripido colonizzato da un bosco termofilo a prevalenza di castagni cedui, molto fresco per l’esposizione settentrionale, nonostante la modesta quota. Ci sono molte fioriture, tra cui spicca una celefantera bianca. Dal basso sento arrivare il fruscio del torrente, che ha un letto sassoso amplissimo, come una fiumara calabra, depositato durante una recente alluvione. Con una discesa sostenuta, dove riesco a trovare uno spiazzo di foglie a beneficio del colon-retto, raggiungo un gruppo di ruderi, Case Galvagni, quasi seppelliti dall’erba fiorita che le circonda. Qui, dopo aver seguito il sentiero più costruito, capisco di aver sbagliato strada, perché non scendo verso il torrente e i segnavia sono vecchi; torno sui miei passi e deduco di dover invece percorrere una via di mera erba calpestata, dopo la quale trovo dei segnavia, che senza un vero sentiero mi portano a una passerella di legno nuovo. Curioso il nome del torrente Armella, perché deriva dal ligure per caverna, sebbene la roccia non sia calcarea. Un sentiero inerbito mi porta sulla strada a monte di Valdarmella, per radure e castagni.
Il paese si trova in posizione infelice, nell’abisso di una valle parecchio incassata, per cui poche case sono ancora tenute e di solito con scarsi mezzi. Nella più totale assenza di cartelli e segnavia agli imbocchi, aggravata dalla posizione sulle piega della mappa che sono troppo pigro per aprire, vagolo un po’ in su e in giù fino a decidere di imboccare una pista erbosa verso Vinei, avendo un vago ricordo di esserci passato durante il giro di qualche anno fa. La pista termina al cimitero, che è stretto tra il pendio e un roccione su cui è impiantata una croce, una visione gotica che mi torna in mente, sebbene l’altra volta non l’avessi fotografata per ragioni dimenticate, presumibilmente di luce sfavorevole. Da qui a Vinei evidentemente il sentiero non è percorso né segnalato, ma non si smarrisce mai. Lì la prima cosa che noto è un divieto di scarico scritto a pennarello in tedesco (“Kein Abfall hier”), poi casette singole, ma incastrate le une nelle altre, tutte ben tenute e immerse nel fitto bosco.
Inaspettatamente trovo un cartello all’imbocco di una scorciatoia, persino per le bici elettriche, che fuga i miei dubbi sulla percorribilità di questa traccia riportata da OSM ma non dalla mappa cartacea. In effetti il vicino rio è superato con una recente passerella del medesimo architetto della precedente. Accanto al rio c’è una copiosa fioritura di Aquilegia atrata, quella scura dei boschi. La ripidezza delle prime rampe successive, tuttavia, mi fa pensare che sia necessario scendere a spingere le pesanti cavalcature motorizzate (ma con gran pena le reca su). Mi accorgo frattanto che la luce è calata assai di intensità, non solo per la profondità della forra, anche perché il cielo si è coperto di nuvole scure.
Raggiungo la dorsale in corrispondenza di un pilone affrescato detto delle Caranche, ovvero della sorta di calanco da cui sono emerso. Ha una forma insolita, perché la nicchia è molto ampia e profonda, in grado di ospitare alcune persone, per cui sono state anche predisposte due panche. Un cartello spiega che la ragione è la funzione di rifugio in caso di maltempo. Mi riprometto sempre di non essere troppo superstizioso, ma in questo caso dovrei proprio cogliere l’avvertimento cosmico: infatti, mentre mi allontano sento un tuono. Imperterrito, reso saldo nelle mie convinzioni ottusamente scettiche per le previsioni di temporali al più deboli su questa zona, proseguo lungo l’ampia pista erbosa in discesa, finché prende a gocciolare sempre più insistentemente. Visto il caldo, proteggo solo lo zaino, per non fare la sauna. L’operazione comporta una certa macchinosità, perché il coprizaino è nei recessi più profondi e devo estrarre tutto il contenuto per arrivarci. Nonostante la protezione del bosco e la temperatura comunque mite, alla fine decido di ripararmi sotto un balcone alla prima casa in piedi di Airola. In effetti piove al massimo un quarto d’ora ancora, giusto il tempo di scrivere due appunti e bere. Dev’essere un fenomeno localizzato, perché i pluviometri dei dintorni registrano a malapena 1 mm e la temperatura, pur calando, rimane mite. In compenso d’ora innanzi troverò erba zuppa che infradicerà gli scarponi e le calze; il lato buono è la discesa di un po’ di nebbia.
Sbuco sulla strada, da cui si alza un impercettibile straterello di nebbiolina, seguendola senza intercettare la deviazione per Lunghi, peraltro senza grandi rammarichi perché la strada pur dura non inzuppa come l’erba. Di Villaro, che pare raggiunta da una strada abbastanza ampia, noto giusto due dirute casette con il tetto in lamiera usurata lungo il sentiero. Salgo a monte delle case e, nuovamente nel bosco, entro in un impluvio roccioso, tra affascinanti torrioni e fondo a volte di rocce rese scivolose dalla pioggia, un ambiente moderatamente selvatico e ostile, di quelli dove i cercatori di funghi si vanno a ficcare e non riescono più a emergere. Stavolta la passerella è molto semplice, di sole assi, ma d’altronde il rio è minimo nonostante il rovescio. Pensavo di aver più o meno concluso la salita al pilone delle Caranche, mentre ora scopro che mi tocca ancora un’erta scalata fino ad Albra. La frazione di pietra e calce sembra come cristallizzata secoli fa e credo sia quella che ho più apprezzato per la rusticità dell'architettura. Tra erba sempre più folta e zuppa salgo alla chiesa, anche questa con porticato, che nelle zone piovose aveva il fondamentale ruolo di riparo per i viandanti.
Sulla solita targa per i caduti, oltre alla consueta carne da cannone, è incluso Giacomo Galvagno, colonnello dell’ordine militare dei santi Maurizio e Lazzaro, un ordine molto prestigioso per casa Savoia: Maurizio, uno dei pochi legionari tebei originali, era un santo molto importante per i regnanti, che si vendevano come soldati al servizio della fede cattolica (fu fondato da un duca che fu anche antipapa), mentre l’ordine di Lazzaro era stato fondato durante le Crociate e aveva avuto un ruolo nella battaglia di Lepanto. Dopo aver partecipato a varie imprese coloniali italiane, il militare ottenne l’onorificenza per un assalto vittorioso a Derna, quando era capitano degli Alpini. Morì in circostanze non note durante la Prima Guerra Mondiale, dove aveva comandato dei reggimenti di fanteria.
Dopo il temporale mi era sembrato che il cielo dovesse schiarire, perché a valle filtrava il sole, tanto da essere un tantino preoccupato per l’afa che sarebbe montata al suo apparire. Invece il cielo si è completamente rannuvolato e abbassato, al punto che continuando a salire raggiungo il limite inferiore della nebbia. Un tratto di pista erbosa mi porta a Cariò, poche case di cui solo una tenuta. La nebbia conferisce ai ruderi una parvenza ultraterrena da regno degli spiriti, di eternità sospesa e gradevolmente malinconica; non sono il primo ad aver avuto questa sensazione, perché, pareidolie internettiane a parte, il Casalis riporta che nel culto celtico della zona gli spiriti dei defunti vagavano nelle nubi. Io però non sono triste, anzi, sono talmente in tumulto per la tensione della fotografia, nel tentativo di scrivere con le ombre sul sensore, che non sento il silenzio che accompagna l’atmosfera. Le emozioni strabordanti non mi soccorrono nel compito: i risultati saranno mediocri e poco creativi. L’attività introspettiva di cattura delle impressioni con la fotografia o la scrittura mi riesce meglio se sono lucido e riesco osservarmi dall’esterno.
Scendo lungo un ampio sentiero erboso nel bosco fino a Vacieu, dove un cucciolo di maremmano, grosso poco più di un chihuahua, è seduto davanti a una casa e mi viene incontro in cerca di coccole, che riceve a profusione. Lungo il sentiero ho incontrato diversi cartelli per avvisare gli escursionisti della presenza di maremmani a guardia delle pecore; su uno a case Galvagni era stato aggiunto a biro “cani anti-turisti”, ma evidentemente questo non ne è cosciente. Inoltre è tanto accorto da non seguirmi e restare attorno a casa sua. Proseguo lungo la mulattiera, così preso dalla tenerezza che ho provato per questo cucciolo, da non notare più volte delle pietre scivolose sul fondo e rischiare di finire a malpartito, prima di costringermi a recuperare un po’ di concentrazione.
Quando il bosco si dirada sono giunto ai prati attorno a Eca San Giacomo, dove parte il percorso della balconata. Stavolta sento qualche rumore di vita provenire dalle case, tra cui degli starnuti più fragorosi dei miei. Dal momento che sono le 19.30, mi accomodo a cenare sotto il porticato della chiesa barocca, che ha un tetto in lastre di pietra, qui dette chiappe con termine ligure. In genere queste erano riservate ad edifici di maggiore pregio, come le case del capoluogo. Arrivano prima due gattini, a cui non posso dare nulla, perché mi restano giusto due magri cucchiai del mio pranzo vegano. Passa un vecchio con uno zaino bianco di tela, analogo a quello cecoslovacco che comprarono i miei genitori negli anni ’80 a Porta Palazzo e potrebbe essere ancora sepolto in qualche recesso della soffitta; imbocca il sentiero di discesa, facendomi notare che parte accanto alla chiesa e non dal pilone al margine del prato antistante, come pensavo prima di guardare la carta.
Nel panorama intanto è comparsa una torre medievale in nuda pietra su uno sperone del versante opposto della valle, ovviamente saracena. I saraceni sono secondi solo ad Annibale nella graduatoria degli invasori popolari e, come al cartaginese, è stato loro attribuito ogni genere di reperti antichi, sia anteriori che posteriori a loro, oltre che di toponimi. L'uso è documentato fin dal Trecento, quando erano chiamate saracene le porte romane delle mura torinesi e in seguito vari falsari attribuirono loro improbabili associazioni con i più disparati eventi storici. Il diploma con cui Ottone I concesse ad Aleramo i territori liguri, pur nell’incertezza dei toponimi, cita in Val Tanaro «locis desertis», ovvero con scarsa presenza umana strutturata, nel senso medievale del termine. Questo fa pensare che la zona fosse stata duramente colpita dalle incursioni. D’altronde la loro tecnica era di insediarsi in un luogo di arduo accesso, facile da difendere, e poi devastare tutto il circondario: qui non siamo lontani dal loro centro fortificato sulla costa.
Il sentiero, che scende tra erba alta, mi offre subito un buon punto di vista sulla torre. Poco dopo, mentre mi avvicino a Santa Lucia, da ovest filtra una lama di luce dorata e va a colpire la torre e il suo sperone. La frazione, chiesa a parte, è formata da villette con prato all’inglese. Tralascio il sentiero diretto alla stazione e seguo invece la strada, fino a trovare quello per Nasagò. Anche del suo nome sarebbero responsabili i saraceni, in quanto in origine l’avrebbero chiamato semplicemente maghêu, ovvero masso, con riferimento alla rocca della torre, a cui poi i locali avrebbero aggiunto il pleonasma masso una volta dimenticato il significato. Questa sovrapposizione di due termini con lo stesso significato in due lingue non è raro sulle Alpi. Spesso tuttavia queste ipotesi risultano fantasiose (ne avevo lette di analoghe sul significato arabo di Fraxinetum), in quanto non risulta che i saraceni abbiano mai costruito alcunché, ma solo depredato: non erano uno stato organizzato con mire espansionistiche, ma solo bande di cacciatori di ricchezze in libera uscita. Inoltre non c'è nessuna prova che fossero arabi, perché gli scavi a Fraxinetum non hanno restituito reperti ceramici ascrivibili a quelle culture, per cui la storiografia contemporanea è propensa a credere che fossero briganti romanzi legati al più ai califfi andalusi.Sta di fatto che sul versante destro del Tanaro si potrebbe ideare un anello saraceno per Balma del Messere, torre e Nasagò.

Mentre la luce del tramonto si affievolisce fino a sparire, tra ginestre fiorite raggiungo la statale. A fine Ottocento su questo pendio scosceso era coltivata la vite, il cui prodotto piaceva assai tanto al Casalis quanto al medico direttore e naturalmente pure ai locali, che avevano la ciucca allegra. La quantità di alcol era però troppo modesta per le esigenze di tutti, per cui le vinacce facevano da base per la fermentazione delle pere.
Il paese è dall’altra parte del Tanaro e così la stradina che mi riporterà ad Ormea, ma il ponte stradale non esiste più, trascinato via da qualche alluvione. Devo quindi andare a cercare la passerella pedonale in grate d’acciaio. Il cartello sull’altra sponda annuncia che mancano ancora quattro chilometri. Passo accanto allo stabilimento dell’acqua San Bernardo, fornitrice della biblioteca dove ho trovato le fonti per arricchire questo diario, di cui noto i tantissimi pallet, Successivamente imbocco una pista pedonale, asfaltata per renderla percorribile da persone con difficoltà motorie (le piante dei miei piedi avrebbero preferito la nuda terra). Qui attorno molte località si chiamano isola, un termine ligure per le zone pianeggianti sul fondovalle.
Passo stretto tra il muro della grande cartiera e un muro in parte a secco e in parte in cemento con fori per scaricare l’acqua in caso di pioggia. Dalla statale lo stabilimento è meglio visibile. Entrò in attività nel 1902 e inizialmente produceva la carta dagli stracci, la materia prima antecedente il brevetto ottocentesco per ricavarla dal legno. La localizzazione fu scelta per la presenza della ferrovia e della forza motrice dell’acqua: prima dell’invenzione della corrente alternata, che tramite l’alta tensione consente di trasportare l'energia a grandi distanze con dispersioni minime, era necessario edificare gli stabilimenti dove l’energia era disponibile, come in montagna, che si industrializzò precocemente. La ferrovia favorì anche il trasporto del legname dei boschi, che precedentemente avveniva per fluitazione, costruendo dighe provvisorie, da aprire in caso di piena, pratica già citata negli Statuti medievali. La legna di questa zona servì a fornire il legname per la ferrovia Parigi-Marsiglia verso la metà dell’Ottocento, immagino poiché le foreste alpine francesi furono rase al suolo prima, per via dell’introduzione di riforme liberali in vece dei sistemi di gestione medievale anteriormente al regno sabaudo. Nel Settecento operava inoltre in paese un lanificio, i cui prodotti erano apprezzati dall’esercito per la durevolezza.
Tra molto muschio anche sull’asfalto, per via del versante a mezzogiorno molto ripido, costeggio dei campi arati e dei prati dove pascolano vitelli piemontesi, con scorci sul Pizzo d’Ormea ora controluce, tra le velature. È poi il turno di alcuni castagni da frutto con gli annessi essiccatoi diroccati. Oltrepasso una colonia per adolescenti o un bar senza insegne, non mi è chiaro, e raggiungo infine il ponte dei sospiri e la sua fonte, dove riempio la borraccia per il gatto. Sono le 21 ed è troppo tardi per chiedere una cena all’albergo Italia, dove i tavoli sono già deserti. Con il cambio di gestione ha mantenuto lo stile di piatti semplici a prezzi economici, con l’avvertenza che quando un piatto è “all’ormeasca” va inteso “affogato nel formaggio”. A differenza della polenta e salsiccia in umido dei rifugi, non pare essere un’invenzione della modernità, in quanto le ricette tradizionali reperite in un libro sono salde nella fede della trinità di patate, latte e castagne, oltre alle erbette dei prati e al poco del resto che era coltivato (il sugo base era di porri e panna). Già Plinio il Vecchio cita (XI-97) un pregiato formaggio detto cebano, prevalentemente pecorino, proveniente dagli Appennini liguri (di cui nella sua suddivisione questa zona faceva parte, in quanto partivano dal Monviso) ed esportato fino alla capitale. In tempi recenti, con il bestiame domestico oltre alla toma era prodotta una ricotta piccante essiccata con un nome simile a quella corsa, il bruzzu. In effetti oggi ho visto essenzialmente le zone dove era praticata l’agricoltura di montagna, anche se ho sistematicamente dimenticato di annotare dove ho costeggiato i diffusi terrazzamenti, ma la ricchezza agricola montana derivava soprattutto dall’allevamento transumante: a fine Ottocento erano caricate circa tremila bovini, duemila ovini e mille caprini, una proporzione insolita per il tempo, in quanto i primi erano meno diffusi, possibile segno della fertilità dei prati (ai secondi erano generalmente destinati i prati più sassosi). I dati del Casalis sono invece più in linea con la norma del tempo, con carichi complessivamente simili ma prevalenza di ovini.
Gli scarponi sono così zuppi che impiegheranno due giorni ad asciugare sul davanzale, nel clima umido di questi giorni. Per i piedi nei sandali basterà un po’ di aria calda fino a Ceva, con il finestrino aperto perché comunque anche dopo la pioggia sono rimasto in maglietta. Si va dritti a casa, senza più fermate neanche per pisciare; là mi tolgo una quindicina di zecche, alcune grazie all’aiuto della badante, per l’inaccessibilità, e faccio la doccia fresca. Vado infine a cenare allo schifezzaio, dove la TV trasmette una partita di tennis serale, uno sport divenuto improvvisamente popolare in seguito ai successi di alcuni atleti italiani. Reintegro i sali e i liquidi, questi ultimi non solo sotto forma di idrogeno e ossigeno, ma con il rinforzo di due atomi di carbonio, ad un’ora e con un menù non propriamente ossequiosi ai dettami dei berrini, ma avrei potuto fare ben di peggio. L’indomani me la cavo con un po’ di indolenzimento alle gambe, ma molto rintronamento psichico fino al pisolino pomeridiano, perché quando vado a letto tardi dormo poco e male.

Per approfondire

G. Bassi, Guida del grand hôtel e stabilimento idroterapico di Ormea, Torino 1896
S. Bologna et al. [a cura di], Mangiōa a u tacciu : ricette di Ormea raccontate dalle donne di Alpisella,Bossieta, Campocomune, Calcagnea, Chionea e Viozene, Ormea 2008
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
E. Michelis, Guida di Ormea e dintorni : storica, artistica, turistica, commerciale e industriale, Borgo San Dalmazzo 1956
F. Rebagliati - G.F. Ferro - F. Dell'Amico, I 100 anni della linea ferroviaria Ceva-Ormea : 1893-1993, Savona 1993
A. Settia, Barbari e infedeli nell'ALto Medioevo italiano. Storia e miti storiografici, Spoleto 2011

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Ormea e Pizzo d
Ormea e Pizzo d'Ormea
Fiume Tanaro
Fiume Tanaro
Cantarana
Cantarana
Cantarana
Cantarana
Ponte di Nava
Ponte di Nava
Quarzina
Quarzina
San Giovanni
San Giovanni
Tritone alpestre al lago Lao
Tritone alpestre al lago Lao
Castagni a Chioraira
Castagni a Chioraira
Castagni a Chioraira
Castagni a Chioraira
Chioraira
Chioraira
Castagni a Porcirette sottane
Castagni a Porcirette sottane
Chionea
Chionea
Maggiociondolo alla colla di Chionea
Maggiociondolo alla colla di Chionea
Case Galvagni
Case Galvagni
Valdarmella
Valdarmella
Valdarmella
Valdarmella
Airole
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Cariò
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Cariò
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Cariò
Cariò
Vacieu
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Eca San Giacomo
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Torre saracena
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Lungo il Tanaro
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Castagni a Ormea
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