Intorno a Levanto

Rivera di Levante

9 febbraio


In un baleno

L’immediato entroterra di Levanto è punteggiato di numerose piccole frazioni abbarbicate sulle pendici delle colline attorno al paese. Sfruttando i numerosi sentieri segnalati dalla sezione locale del CAI è possibile visitarne un buon numero

Pastine
Pastine

Diario di viaggio

L’immediato entroterra di Levanto è punteggiato di numerose piccole frazioni, abbarbicate sui costoni delle colline attorno al paese. Sfruttando i numerosi sentieri segnalati dalla sezione locale del CAI è possibile visitarne un buon numero.
I borghi sono generalmente molto curati e vissuti: vicini che chiacchierano per strada, vecchi a bordo di Apecar, messe domenicali nelle chiese minori, casette dai colori vivaci tipicamente liguri, vicoli pedonali puliti, vasi di fiori sugli usci, gatti domestici e randagi a zonzo. Naturalmente pali e catenarie in libertà non mancano, secondo la via italiana alla modernità, solo leggermente più ordinata che quella di Bangkok, ma altrettanto etnica. Un’impressione un po’ diversa mi hanno lasciato gli spazi rurali: sono infatti estesamente occupati da oliveti spesso abbandonati.

Se da un lato restano esteticamente belli visti da lontano, perché quando si osserva un panorama sono indistinguibili da quelli tenuti, dall’altro trasmettono un senso di desolazione per la perdita di una tradizione non sostituita da un’alternativa, quando ci si passa in mezzo. Da quando la produzione dell’olio di oliva si diffuse in Liguria, tra Basso Medioevo e prima Età Moderna, Ponente e Levante si sono nettamente differenziate, in quanto nel primo è sempre prevalsa una monocoltura, mentre qui la coltura mista (olivi sparsi in mezzo ad altre coltivazioni, soprattutto cereali). La prima è riuscita a sopravvivere alla fine dell’era agricola e prospera tutt’ora, come del resto è capitato con la monocoltura del vigneto nelle Cinque Terre; qui invece l’agricoltura non sembra essere riuscita ad adattarsi ai tempi nuovi, se non in spazi marginali.
È il classico esempio di abbandono dei territori marginali e rovina del paesaggio rurale italiano modellato dall’uomo, che per secoli ha affascinato i viaggiatori stranieri e i pittori (consiglio a tutti di leggere la Storia del paesaggio agrario italiano del Sereni). Qui la difficoltà viene anche dalla sistemazione a fasce, ovverosia dal suo essere in sviluppo verticale, una peculiarità del montuoso paesaggio agricolo italiano, che lo differenzia nettamente da quelli del resto d'Europa. In passato il terrazzamento ha permesso di addomesticare terreni acclivi, ma oggi non è compatibile con la meccanizzazione. Impedisce la produzione per il popolo, limitandola invece alle nicchie radical-chic ad alto valore aggiunto. Non è però sempre facile inventare il condimento narrativo, che trasforma il consumo di una merce in un'esperienza ed è necessario a donare tratti distintivi a questi prodotti, per giustificare i prezzi a cui verrebbero commerciati.
Il bel paesaggio può però portare intrioiti per un'altra via, ovverosia promuovendo un turismo escursionistico, che porta denaro alla ricettività diffusa e alla ristorazione anche al di fuori della stagione balneare, senza compromettere le risorse naturali con strutture o pratiche invasive. Infatti, per la mia esperienza, è soprattutto il valore estetico del paesaggio che motiva gli escursionisti a scegliere un luogo piuttosto che un altro, almeno di quelli che non vanno solo a caccia dei siti di richiamo, ma cercano perle nascoste, che in Italia non scarseggiano.
Assumendo però il punto di vista opposto, è uno dei rari posti dove la natura resiste all’antropocene: l’agricoltura è consumo di suolo esattamente come Serravalle Scrivia. Per quanto un campo di grano con i fiordalisi ci faccia un’impressione piuttosto diversa da un outlet, la biodiversità di un campo coltivato è del tutto trascurabile rispetto a quella di un incolto. Se vogliamo ridurre il nostro impatto ambientale, tra cui le emissioni di metano e biossido di carbonio legate alla produzione di cibo, dobbiamo anche riuscire a produrre di più in meno spazio e concedere il più possibile a piante e animali selvatici, non solo piccole isole di terreni marginali e improduttivi.
Tuttavia non riesco a sganciarmi da una visione romantica del paesaggio, che apprezza esteticamente nell’agricoltura un legame con la natura. Questo è tuttavia vero solo se si considera la natura addomesticata, mentre le culture agricole hanno sempre detestato la natura fuori controllo, che ha cominciato ad essere apprezzata solo dai figli della Rivoluzione Industriale. Le erbacce che conquistano una speculazione edilizia fallita mi sembrano una rivincita, mentre l’abbandono dei campi no. Lo apprezzo comunque da un punto di vista naturalistico, perché posso riconoscere i vari stadi dell’inselvatichimento.

Un’altra premessa, più breve ma importante per un escursionista: i sentieri sono segnati e indicati, ma i tempi riportati sui cartelli sono nettamente sottostimati anche per un passo trottante.

Sceso alla stazione, non mi dirigo subito a monte verso il sentiero, ma vado prima a fare un giro in paese per fare provviste. Purtroppo a metà febbraio le mie focaccerie di fiducia sono chiuse, compresa quella dove mi avevano garantito che qui ci sono i migliori tramonti del Levante, nonostante fossero di Vernazza. Ripiego pertanto sulle torte salate di una rosticceria. Pur essendo scomoda per torinesi e milanesi, Levanto gode di un certo flusso turistico in tutte le stagioni, non solo in quella balneare, grazie alla spiaggia adatta al surf, durante le mareggiate invernali, e alla pista ciclopedonale per Framura. Lungo di essa già a marzo il passeggio si protrae fino a mezzanotte, come constatai la volta che venni a scattare le foto lunari. Tuttavia questa stagione compresa tra le vacanze natalizie e le gite primaverili deve essere il periodo delle ferie, come testimoniano anche i lavori di pavimentazione in corso sulla principale via pedonale.
Vado in riva al mare, dove c’è giusto un signore che porta a spasso il cane e ancora non sa quanto, da qui a breve, questa incombenza gli sarà gradita e invidiata. Il marciapiede lungo la spiaggia è coperto dai coriandoli della festa di carnevale. Noto che il piazzale che si affaccia sul mare è intitolato a un illustre senatore del Regno, fondatore di una nota fabbrica di automobili della mia città, ora divenuta multinazionale olandese e già sulla via di un nuovo cambio di nazionalità, perché trascorreva le vacanze in una villa affacciata su questa stessa spiaggia. Passeggiando per il paese, noto un cinema ancora in attività, case prestigiose, una chiesa di san Rocco un po’ malridotta, davanti a cui alcune persone attendono i fedeli domenicali chiedendo l’elemosina. Nell’aria frizzante della mattina invernale circola qualche indigeno, ma nessun escursionista.

Mi dirigo verso l’entroterra, passando nuovamente accanto alla stazione e costeggiando tra un certo traffico il torrente con una lama d’acqua, nel cui letto sono fioriti gli alberi di mimosa. Arrivo a una grande chiesa moderna in mattoni rossi, dove seguo le indicazioni stradali per Fontona e oltrepasso il torrente, costeggiando prima delle orride villette a schiera, poi un mix di costruzioni nuove e vecchie, non sempre in ottimo stato. Trovo finalmente delle indicazioni escursionistiche per le frazioni, ma l’incipit non è dei più avvincenti, perché l’edilizia opinabile continua a farla da padrona, tra orti in vario stadio di degrado, pini sterminati dalla cocciniglia, un capannone per gozzi, garage del regno e un certo traffico, specie di Apecar. Mi domando se tutta questa gente sui mezzi vada da qualche parte o viaggi solo da garage a garage, per far prendere un po’ d’aria all’auto, perché di persone in giro ne ho viste poche.
Lascio finalmente la strada delle Cinque Terre, imboccando la via cieca per Fontona, dove spero di trovare meno automobili. Vedo la frazione allungata su una dorsale un po’ più a monte. Dalle mie questa come altre frazioni, che vedrò oggi, si chiamerebbero tutte Serre, perché sembrano edificate sulla medesima orografia, forse per lasciare spazio alle coltivazioni sui pendii meglio esposti. Qua sotto intanto l’architettura orrida continua a farla da padrona e non sfigurerebbe tra i luoghi fuori dal comune di Shore. A partire dagli Anni Settanta del Novecento, negli Stati Uniti nacque un movimento fotografico intento a riprendere i cascami della società industriale. Si poneva in opposizione alle foto esteticamente perfette dei parchi naturali (à la Ansel Adams), presentati, non so quanto a ragione, come santuari della natura incontaminata. Il fascino perverso di pali di cemento, fili della luce, tralicci, villette e così via esercita su di me un’attrattiva irresistibile. Sembra essere la cifra stilistica del brutto del presente. Nell'Ottocento e ancora con il modernismo del primo Novecento, persino gli stabilmenti produttivi erano meraviglie architettoniche (nella mia città non scarseggiano esempi). Non so quando e perché la società industriale ha abbandonato il bello, ma oggi questa rivoluzione ci circonda anche nelle nostre escursioni e ritengo sbagliato ignorarla e non raccontarla né fotografarla, come gli ignavi di Dante.
Finalmente arrivo all’imbocco del sentiero, che parte con un ponticello in pietra a schiena d’asino ormai scarnificato da ogni decorazione, perché è rimasto solo l’arco alla base. Prendo quindi a salire su una mulattiera lastricata, tra muri a secco pieni di muschio. L’umidità sembra farla da padrona: fondo scivoloso e vegetazione lussureggiante mi avvolgono in un abbraccio non propriamente caldo, in questa piega ombrosa dove i castagni arrivano fin quasi in riva al mare. Attraverso poi fasce di ulivi abbandonate, occupate da una vegetazione impenetrabile. Trovo anche una zona cintata con all’interno una costruzione precaria e varie cianfrusaglie accumulate, anche se non ai livelli parossistici di quella casa, che ha ben presente chi percorre la Torino-Savona, quindi un edificio più curato con un albero di mandarini, ma sempre assediato da foltissima vegetazione invasiva.
A Fontona ci sono una bella vista su ciò che mi attende, una chiesetta con un dipinto molto consunto di un angelo, tortuosi vicoli lastricati e un cartello ormai illeggibile sui sentieri della zona.
Imbocco il sentiero per la colla di Gritta, sul crinale con Monterosso, e lo lascio quasi subito, in favore di quello per Chiesanuova, ai piedi di una casupola intonacata con orto. Godo di una bella vista su Fontona e le altre borgate da raggiungere. Cammino per una zona di fasce riprese dall’impenetrabile macchia mediterranea. Ad accrescere il senso di spettralità e abbandono contribuisce una consunta rete per olive, dimenticata da chissà quanto. Nonostante questo soggetto mi affascini tantissimo, non sono mai riuscito a ricavarne una foto decente, come d'altronde di un ulivo. Ad una mostra vidi uno dei dipinti di Van Gogh su questo soggetto: mi piacque moltissimo, ma il pittore olandese aveva adoperato Photoshop, dando ai rami e alle foglie un'elegante struttura curvilinea spiraliforme che vi vedeva lui, mentre la fotocamera è cruda e impietosa nel riprodurne una più ruvida. Nonostante la zona sia in evidente abbandono, come testimoniato anche da smottamenti, c’è chi cura il sentiero e sega i tronchi che vi cadono. Arrivo a un oliveto tenuto, con anche una piscinetta ora secca. Passo a valle di alcune case, da cui imbocco la loro strada di accesso, che seguo, costeggiando una grande casa bianca con forno esterno. Confluisco su una strada più grande, che attraversa un oliveto tenuto e mi porta verso Chiesanuova.

Vi accedo per un oliveto, rallegrato dagli uccellini e posto su un pendio ripidissimo, dove sono abbandonate le reti rosse per le olive, che da lontano mi erano sembrate del terreno rosso derivato dall’erosione di roccia calcarea. In paese trovo dei vecchi che chiacchierano nei colorati vicoli e una chiesetta con la facciata vivacemente dipinta di rosso e giallo. Tutti mi salutano. Lascio le case per la strada di accesso, da cui si stacca una monorotaia che serve ad accedere a un B&B intitolato a un imperatore germanico. Vedo il mare. Finora è stata una bella giornata di sole, mentre le previsioni meteo preannunciavano venti da sud con i conseguenti addensamenti di nubi basse marittime, che arriveranno nel primo pomeriggio e preluderanno alla mareggiata di domani.
Seguendo l'asfalto, entro a Legnaro, dove mi accoglie una signora intenta a prendere il sole sul terrazzo. Vado presso la chiesa di san Pietro, posta al limite del costone, come se fosse la prua del paese; intorno a me i ritardatari continuano ad affluire alla spicciolata alla funzione appena cominciata. Il piazzale proteso sulla valle offre una vista eccezionale sul mare e i dintorni e io ne approfitto per una pausa, durante la quale sbocconcello una mela comprata da un negozio cinese di La Spezia, che non ha un gran sapore.
La guida mi porterebbe a imboccare un sentiero che scende e risale a Gallona, ma è descritto come infrascato e difficile da seguire. Seguo invece il sentiero segnalato, che dalla parte alta del paese punta verso una zona di fasce tenute a oliveto e orti. Superato un rigagnolo su un ponticello di cemento, dopo una curva trovo due gatti intenti ad accoppiarsi, osservati da un guardone opportunista. Nella colonia felina al lavoro avevo cominciato a sentire i versi della stagione degli amori e ora qui li trovo in piena azione. Uno dei gatti schizza verso di me, tanto che penso voglia aggredirmi per la paura, salvo poi deviare a lato, mentre altri due in direzione opposta e si dileguano. Tra vigneti, oliveti e macchia con erica fiorita, che però non profuma, il sentiero attraversa una pineta sterminata dalla cocciniglia, in via di sostituzione con macchia, e punta quindi verso una casa isolata. La pineta, che associamo alla Liguria come l’oliveto, al suo pari è di origine artificiale ed è stata favorita dagli incendi che spesso piagano questa regione, perché le pigne germogliano dopo il fuoco. Oggi il parassita portato sempre dall’uomo, ma involontariamente, la sta facendo scomparire in favore della macchia, che sul lungo termine sembrerebbe riportare il bosco di lecci che anticamente la ricopriva. Raggiunga una zona più umida, dove crescono dei castagni, e quindi un rio che sembra regimentato e da cui si dipartono delle canalette.
Finisco a una casa colonica rosa abbandonata, con ancora il bucato sbrindellato appeso ai fili, come i suoi abitanti fossero stati decimati all’improvviso da un morbo fulminante o rapiti dagli alieni. Davvero spettrale, come del resto l’oliveto con le reti stese per l’eternità, che la anticipava. Costeggio un oliveto tenuto e molti altri abbandonati, dove posso apprezzare i vari stadi dell’invasione: dagli ulivi con i rami allungati per le mancate potature, fino alla selva inestricabile di cespugli e stracciabraghe, passando per la macchia bassa che comincia a popolare il sottobosco. Attraverso una pineta degradata dalla cocciniglia e arrivo alla rustica chiesa di san Bartolomeo. Da qui riesco a vedere sia le borgate già attraversate che quelle ancora da scoprire. Dal basso sale una coppia di ragazzi con un cagnetto spaventato dalla mia presenza. Pranzo qui, mentre si alza il vento preannunciato che rinfresca l’aria e porta le prime nuvole.

Imbocco il sentiero per Pastine, dove trovo subito un pino caduto e spezzatosi in due, che non ostacola il cammino. Bella visuale sulla zona occidentale della conca. Attraverso quindi una zona impervia, con macchia molto sviluppata, che pur tuttavia era terrazzata, anche se dev’essere stato tutto abbandonato ere fa. I castagni cedui sono abbondantemente colonizzati da muschi e licheni, a differenza che dalle mie parti, dove in genere sono nudi, per la minor piovosità. Quando vengo nel Lebvante, invidio sempre questi posti per la gran quantità di pioggia che vi cade. Tutti i castagni visti oggi sono cedui, non ne incontro nessuno da frutto, segno che probabilmente erano piantati solo come riserva di legna (il castagno si presta sia a essere bruciato che come legname da costruzione, specie per i pali). Salgo a un casotto con un oliveto ancora tenuto, sempre tra abbondante muschio sui muri a secco. Zone tenute e abbandonate si alternano, prevalentemente oliveti, ma c’è anche un vigneto. Gli impluvi hanno spesso un rio attivo. Raggiungo un edificio ristrutturato che dalla posizione doveva essere un mulino, anche se non vedo canalette. Da un punto aperto oltre il rio vedo la zona sottostante sfoltita e terrazzata, con le scalette per accedere ai vari piani. Nei pressi c’è anche una zona ripulita dove sembra vogliano piantare un vigneto, ma è tutto allo stadio embrionale.
Dei muri di sostegno in cemento anticipano le belle case di Pastine, ben tenute e coloratissime, con un gatto pelosissimo e affettuoso a zonzo. Invidio anche i gatti dei borghi di Liguri, perché il mio ha un'affettuosità molto misurata e non si è mai sognato di fare le fusa. D'altronde anche lui invidierebbe la vita all'aria aperta che fanno costoro, non costretti a sfogarsi con le falene. La mulattiera per Montale sale ripida tra le case. All’uscita dal paese non trovo segnavia e vagabondo un po’ tra le alternative, prima di estrarre il GPS e individuare la via giusta. Le fasce sono recuperate solo nelle immediate adiacenze del paese, il resto è dimenticato. Giunto nei pressi di una casa videosorvegliata, mi faccio ingannare da un segnavia di un sentiero che forse stanno tentando di recuperare e va a valicare un rio su un ponte di ferro, prima di perdersi tra fasce in rovina, in una zona dirupata. Io invece devo scendere alla strada dal sentiero di accesso della casetta.
Percorro una strada regolata da sensi unici alternati, perché una corsia è devoluta al parcheggio. È un'usanza ligure dettata dalla scarsità di spazi di queste montagne in riva al mare; a Crevari l'avevo visto fare in maniera illegale e autogestita, mentre qui è sanzionato dalle autorità. La mia guida sconsiglia il sentiero di qui a Vignana e, visto che le segnalazioni sembrano vecchie, gli do retto. Ci sarebbero anche due persone a cui chiedere, ma di solito le gente del posto conosce solo le strade per le automobili, per cui non ci provo neppure. Fortunosamente questa strada è inspiegabilmente priva di traffico. Una donnola la attraversa di fronte a me e si eclissa sotto una catasta. L’atmosfera si è fatta bigia e afosa, degna di Morte a Venezia, direbbe un classicista, perché si sono addensate le nuvole e cielo e mare sono divenuti grigi.
In corrispondenza di una panoramica dorsale, lascio la strada, seguendo delle indicazioni escursionistiche per Montale, e finisco su una mulattiera lastricata e poi su una sterrata, tra casette e coltivazioni. Da una casa esce una signora sulla quarantina e sale su un furgoncino con decalcomania del Toro, su cui l’aspetta una bambina, superandomi solo dopo lunga pena, perché il furgone passa a malapena in certi punti della strada. Arrivo alla chiesa romanica in pietra di San Siro, che è molto antica, del Basso Medioevo, anche se presenta rifacimenti decisamente più recenti. Mangio la seconda parte delle torte salate, di cui non ho serbato ricordo del gradimento, e vado a prendere un caffè al bar. Il barista sembra più interessato al film ora in onda in TV che a me, ma per essere un ligure è molto cortese.

Il sentiero passa a valle della strada, dopo essere coinciso con l’accesso di una casetta (speriamo non lo chiudano mai), tagliando in quota un pendio spoglio con buona vista. Passa quindi a valle di un oliveto tenuto, subito sotto la strada, e poi per una zona selvatica, dove metto in fuga un sacco di uccellini. Trovo un’edicola votiva con statuette di Madonna e Gesù Bambino. Per oliveti invasi e rustici abbandonati, raggiungo un rio con cascatella, che supero un un ponte ad arco completamente ricoperto di vegetazione. Incontro un ragazzo con cane e, presso Casella, risalgo ripidamente una zona di ciglioni appena disboscata, con qualche vecchio ulivo e altri appena piantati. Laddove il sentiero continua ripido, incrocio due coniugi tedeschi sulla sessantina, arrivando infine a Dosso, dove un vecchio mi saluta, mentre una altro sale sul suo Apecar, mettendo in fuga un gatto rosso. Quando ero bambino, sui monti i vecchi avevano quasi tutti un’Ape 50, perché era possibile guidarla anche senza patente. Oggi le cose sono cambiate: serve almeno il patentino dei ciclomotori e ormai sono vecchi coloro che avevano già preso la patente durante la motorizzazione di massa del Boom economico, per cui dalle mie parti non se ne vedono più. Qui invece, forse per i vicoli stretti di questi borghi, dove le automobili non passerebbero, l’usanza perdura.
Il paese ha delle belle architetture: case ben tenute, qualche arco, qualche passaggio coperto. Uscito dalle case, arrivo a un gazebo con fonte, dove capisco di non dover seguire il sentiero più evidente in piano, ma quello meno marcato in salita, come conferma una tacca biancorossa di lì a poco. Moderatamente infrascato, raggiunge la strada, da cui c’è una bella visuale su Montale. Seguo la carrozzabile, poi da una costruzione rurale rifatta in cemento una pista che mi porta tra i vicoli di Groopo, da cui trovo le indicazioni per Lavaggiorosso. Mi fanno passare presso degli orti e poi insinuare per una selva oscura, dove trovo un lavatoio con un pezzo di una statua. Il sentiero è un po’ infrascato, ma qualcuno ha segato di recente la vegetazione più invasiva. Confluisco su un sentiero più ampio, che imbocco in salita, sempre tra oliveti invasi. Ne raggiungo uno con ancora le reti, da cui con una traccetta risalgo alla strada, da cui mi immetto su quella a fondo cieco diretta a Lavaggiorosso.
Apparentemente il percorso segnalato evita il borgo, ma io imbocco la scalinata in salita che vi entro, tra passaggi voltati, gente a spasso e gatti. In cima sono in corso dei lavori di ristrutturazione alla chiesa di san Sebastiano, con i fondi dell’8x1000.
Trovo le indicazioni per Lizza e scendo ripidamente, in parte su fondo lastricato e in parte eroso, per un oliveto abbandonato, fino a raggiungere una casetta. Attraverso la strada, incontro due signori con un bimbo piccolo sulle spalle del papà, che mi chiedono se il sentiero da cui arrivo è infrascato. Per una discesa abbastanza sostenuta lungo il rio profondamente infossato, supero un B&B e raggiungo il vecchio mulino con un bel ponte in pietra. Il luogo è abbastanza spettrale, con un surreale cartello Vendesi, in trepida e virginale attesa di qualche tedesco amatore.
Superato indenne un rogo di sterpaglie in mezzo alla mulattiera, raggiungo Lizza, anche stavolta evitata dal sentiero segnalato. Mi inoltro tra le case, tra lontani latrati di cani e cinguettii. All’uscita vedo dei gatti e un signore e una vecchia a spasso. Dalla parte bassa del paese vado a ripescare i segnavia e scendo su sentiero anticamente lastricato, tra fasce abbandonate. Trovo un punto in cui un rio ha occupato il sentiero, seguito da un breve tratto fangoso, e finisco a costeggiare un terreno cintato, ma abbandonato. Il sentiero diventa cementato e passa tra altri campi abbandonati. Entro in paese, che ha un ex mulino di cui è stata restaurata la ruota. Nei pressi arrivano due signori con un mastodontico SUV bavarese, che si infilano in uno stretto pertugio sotto un arco come un cammello nella cruna di un ago.
Qui la gita è pressoché conclusa, visto che da ora in poi dovrò seguire la strada. Sento le campane di Montale suonare le 17; visto che i prossimi treni sono alle 18 e alle 20 allungo il passo e decido di non scendere in paese per una merenda. Prima di sbucare sulla strada principale, sento l'ultimo tango a Levanto prima del COVID-19 provenire da un tendone.

Per approfondire

M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961

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Levanto
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Rio Trinchetto
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