Bivacco Ivrea 2770 m

Vallone di Noaschetta - Parco del Gran Paradiso

3-4 agosto


In un baleno

Al bivacco Ivrea si arriva dopo una salita di 6 ore e oltre 1700 m, per sentieri dei pastori e una mulattiera di caccia del primo re d'Italia. Sin da quando ragazzo ne vidi la posizione sulla carta IGC del Gran Paradiso, ho sognato di raggiungerlo: non tanto per il dislivello, che con una salita diretta potrebbe essere superato in 4 ore da un camminatore medio, ma per la distanza che lo separa dalla civiltà motorizzata e dall'affollamento agostano delle zone di comodo accesso

Bivacco Ivrea e montagne senza nome
Bivacco Ivrea e montagne senza nome

Diario di viaggio

Al bivacco Ivrea si arriva dopo una salita di 6 ore e oltre 1700 m, per sentieri dei pastori e una mulattiera di caccia del primo re d'Italia (oppure dal vallone adiacente per una più breve pietraia di massi instabili, a seconda del vostro credo). Sin da quando ragazzo ne vidi la posizione sulla carta IGC del Gran Paradiso, ho sognato di raggiungerlo: non tanto per il dislivello, che con una salita diretta potrebbe essere superato in 4 ore da un camminatore medio, ma per la distanza che lo separa dalla civiltà motorizzata e dall'affollamento agostano delle zone di comodo accesso. Per raggiungerlo, bisogna infatti percorrere l'interminabile vallone di Noaschetta, «il più dilettoso di quanti scendono in val d'Orco» scriveva Luigi Cibrario nel 1891, che a ricurve balze successive si porta dai 1000 m di Noasca fino ai 4000 m del Gran Paradiso. Il fascino di percorsi così lunghi e con partenza dalla bassa montagna sta poi nella gran varietà di ambienti e climi attraversati: temperatura, escursione termica, piovosità, copertura nevosa, intensità del vento, eliofania, vegetazione, fauna, cambiano drasticamente al variare della quota e dell'esposizione, come in un viaggio dalle zone temperate al circolo polare concentrato in una singola giornata di cammino. Un tragitto dalle medie quote al limite della vegetazione offre pertanto uno spaccato dell'adattamento dei viventi alle diverse condizioni che la natura montana propone.

Lascio l'auto al parcheggio oltre il ponte, dove non vige il disco orario. Il sabato mattina alle 8 la mia auto è l'unica ad occupare uno stallo. I molti altri escursionisti, che vedo aggirarsi per la piazza, si fermano solo per un caffè al volo, nel bar lungo la 460, e poi proseguono in auto verso l'alta valle: oggi non ne vedrò nessuno sul mio sentiero e pochi domani. Per qualche oscura ragione, i turisti e gli escursionisti si concentrano dove terminano le carrozzabili. Rifornitomi di acqua alla fontana, salgo alla parrocchiale, dove trovo le indicazioni per il sentiero Ada e Renato Minetti, intitolato nel 2014 dal CAI di Rivarolo a due soci fondatori, in occasione del cinquantenario della sezione. Giro intorno all'abside della chiesa (dall'odore il lato a monte, nascosto alla vista del paese, sembra adoperato come orinatoio pubblico) e risalgo il ripido sentiero, che subito si biforca. Imbocco il ramo di sinistra, per fare una puntata alla famosa cascata, che posso ammirare dall'interno di una caverna. Il sentiero fu tracciato in origine dal CAI di Torino negli anni Settanta dell'Ottocento, per i numerosi turisti che si recavano ad ammirarla affascinati. Allora bisognava arrivare a Noasca a piedi (o per i più facoltosi a dorso di mulo), perché la carrozzabile terminava in località Lilla, cinque chilometri più a valle. Scrive «il più giovine della comitiva» del CAI Torino nel giugno 1884: «La cascata è degna dell'ammirazione dei touristi. Si penetra facilmente al disotto di essa in una fresca caverna, dalla quale attraverso la massa argentea delle acque, che si precipitano innanzi a voi come sempre smossa cortina, intravvedete i pascoli lontani in fondo ad una valle, e di rimpetto l'altra parete del monte dalle ombre umide e cupe. La cascata scintilla ad un timido raggio di sole e ne rifrange la luce in un polverio iridiscente.» Allora il flusso doveva essere assai più copioso che oggi, nonostante il clima più fresco (il torrente è originato dalla fusione del ghiacciaio), in quanto ora una parte consistente del rio Noaschetta è captata a beneficio della diga del Telessio, nel vallone adiacente. Quanto al sentiero di accesso, vedo che già allora il CAI prediligeva la via più ripida e diretta, senza tornante alcuno, con al massimo qualche gradino, dove si sale strisciando il grugno sul terreno come cinghiali alla ricerca di tuberi.
Tornato indietro, rientro sul sentiero Minetti e continuo a salire sempre molto ripidamente su fondo terroso, tra minimi terrazzamenti, i soli ricavabili da queste balze impervie, di roccia tenace che si sfalda poco. Ora sono stati ripresi dal bosco misto di latifoglie, mentre resiste una baita addossata alla parete. Lascio sulla destra il sentiero diretto a una parete di arrampicata e tra la fitta erba risalgo stavolta una scalinata di gradini rocciosi, che segue una cengia, su cui è edificata anche una piccola balma. A giudicare da quante ragnatele trancio, oggi sono il primo a salire di qui. Arrivo a una prima casetta isolata, con un prato in scala, dove non ci sono segni di presenze, ma è teso il filo per contenere il bestiame. Non sono certo mucche a poter salire qui, anche se potrebbero arrivare dall sentiero di Sassa, a cui arriverò a breve. Sull'altro lato del vallone si eleva un bel picco di roccia, illuminato dal sole. Finora io sono invece stato in ombra. Sempre nel bosco, arrivo a un gruppo di baite in buono stato, Case Sengie, da cui ammiro le Levanne e la Cima di Courmaon, che delimita ad ovest il vallone del Roc; trovo un bivio per un sentiero che oltrepassa il torrente e porta a Sassa, anch'essa ancora immersa nell'ombra.
Il mio sentiero diventa ora meno ripido, per cui smetto di grondare sudore, come avevo fatto finora, nonostante l'ombra e la mattina fresca (ma umida). Il sentiero rimane nel bosco cosparso di rocce, fino a una casetta isolata dalle molte decorazioni, curata come una bomboniera, che porta un cartello con scritto “Herbs” e dovrebbe essere l'alpe Scialer. Chi per diletto le bada come a un cucciolo da vezzeggiare, in questo eremo così isolato e raccolto, dove i dirupi e il bosco ti avviluppano, dev'essere senz'altro una persona molto originale e solitaria, con il senso del bello e amore per sé. Invece chi veniva a pascolarvi e dipendeva da essa per il proprio sostentamento, tra questa balze impervie di molta roccia e scarso prato, doveva condurre una vita ben aspra. Sulle balze al di sopra della casa noto un camoscio che non si cura troppo della mia presenza, limitandosi a tenermi d'occhio, senza agitarsi. Il sentiero va quindi a costeggiare una gola rocciosa profonda alcune decine di metri, dai fianchi verticali e frastagliati, che il torrente scende a gradoni, con cascate e pozze smeraldine. Il contrasto tra il buio di questa forra ancora in ombra e la luminosità delle Levanne oltre l'infilata mette a dura prova la mia fotocamera, mentre tento di ordinare la scena nel mirino. In cima al salto superiore si trova l'alpe Lavassai, che chiaramente prende il nome dal termine dialettale del Rumex alpinus, una delle piante più comuni della vegetazione nitrofila degli alpeggi. L'edificio è curato e ha anche dei pannelli solari, ma sembra sprangato e non vedo segni di bestiame. Qui supero il torrente grazie a una chiusa e insieme ai raggi del sole raggiungo l'edificio del rifugio Noaschetta, che non è custodito ed è chiuso (le chiavi sono a disposizione in un bar di Noasca). Doveva essere una costruzione di servizio alle opere idrauliche, successivamente passata al CAI. Mi fermo ai tavoli esterni, bevo e faccio uno spuntino, oltre a spalmare il primo strato di crema solare.

Risalgo la traccia di accesso al rifugio nella folta vegetazione bassa, tra miriadi di farfalle, fino a raggiungere un recinto elettrificato, dove pascolano degli asini e i cinghiali hanno fatto festa. Subito sopra raggiungo il sentiero principale del vallone di Noaschetta, che si stacca dalla mulattiera reale da cui scenderò domani. Sale gradualmente fino all'alpe Bettasse, un paio di edifici diroccati con vista sulle Levanne, tra radi alberi, sia larici che varie latifoglie, soprattutto betulle. Aggira quindi un costone roccioso e scende verso il fondo del vallone, dove ci sono ampi prati e una sorta di foresta a galleria sulle sponde del torrente.
Il vallone sterza ora bruscamente di un angolo retto verso nord-ovest e s'impenna, divenendo quasi privo di vegetazione arborea, a parte qualche ontano e sorbo, e più roccioso, con molti terrazzi erbosi sospesi su pareti verticali. Le rocce sono quelle gneissiche e granitche della falda Sesia-Lanzo, tipica del gruppo del Gran Paradiso, molto resistenti, che non formano colate di sfasciumi alla base delle pareti. Risalgo quindi a tornanti verso una protuberanza rocciosa, da cui punto verso la base del vallone, senza raggiungerla, con un traverso ai piedi di un ripido pendio di erba e rocce. Si tratta di un gradino vallivo che ora devo lungamente risalire a tornanti, tra prati e qualche fioritura, oltre ai rododendri che a questa quota hanno già fruttificato. Raggiungo la diroccata alpe Arculà, sovrastata da tre bei picchi rocciosi che mi accompagnano da un po', e poco dopo il casotto dei guardiaparco. Qui contavo di trovare una fonte d'acqua, perché così mi dicevano i ricordi, ma evidentemente erano sbagliati. Non ne ho più molta con me e spero quindi di trovarne altra, per non dover ripiegare sui torrenti glaciali intorno al bivacco. Mi fermo a pranzare e anche a sdraiarmi sul prato, perché il caldo delle ore centrali mi ha messo sonnolenza. Durante la pausa odo fischi di marmotta.
Riprendo a salire a tornanti, tra fioriture, soprattutto violacee di centaurea frigia, e rododendri che qui sono appena sfioriti. Mi avvicino alla gola del torrente, ma senza affacciarmi. Il sentiero è poco segnato da bolli radi e sbiaditi, ma sempre molto evidente. Oltrepasso la presa d'acqua per la diga del Telessio e mi inoltro in un ampio canale prevalentemente erboso, tra pareti di roccia sulla sinistra e rocce montonate a destra. Dall'altra parte del vallone c'è invece un bel canino roccioso, che se fosse a bordo strada attirerebbe frotte di arrampicatori. A quota 2300 circa trovo una piccola sorgente, dove, con l'ausilio del bicchiere, riesco a riempire le due borracce da un litro e mezzo che ho con me. Bevo anche un po', ma non quanto vorrei, perché l'acqua è molto fredda e mi trasmette una sensazione sgradevole allo stomaco. Si alza intanto un vento moderato, foriero di frescura all'ombra dei nuvoloni, che stanno risalendo la valle e vanno appiccicandosi a qualche cima. La mulattiera, molto bella, arriva a valicare un dosso, da cui tra richiami di passeriformi mi affaccio su una conca glaciale erbosa, un tipico laghetto di escavazione glaciale dove il processo di interramento è già giunto al termine. Nel piano il torrente si separa in mille rivoli e scorre a meandri. Sui pendii circostanti ci sono estese pietraie, forse di deposito morenico. A dominare la scena c'è sullo sfondo la mole del Gran Paradiso, che riconosco immediatamente, perché identifico gli elementi che vedo dalla mia stanza, solo con una disposizione leggermente diversa per la mutata prospettiva. Mi allaccio qui alla mulattiera di caccia proveniente dalla Bocchetta del Ges, a cui salirò domani. La sua fattura è molto più curata di quella del sentiero di pastori percorso sinora e le sue pendenze più contenute. Inoltre qui corre l'Alta Via Canavesana, ben segnata dalle tacche biancorosse del CAI. Scende con ampi cerchi verso il fondo del piano, dove c'è una baita senza nome, per poi risalire fino al guado. Nel passaggio segnalato il torrente è molto ampio e la portata copiosa, perché sono le ore più calde, in cui lo scioglimento del ghiacciaio è maggiore. Ci sono molte pietre dove poggiare i piedi, parecchie sotto il pelo dell'acqua. Vado invece a cercare una zona in cui il corso d'acqua si suddivide in più rami, e, quando sto pensando di ripiegare sulla tecnica “a piedi nudi nel parco”, mi faccio coraggio e un ramo alla volta riesco a passare sulla sponda opposta, anche appoggiandomi a pietre ben sotto il livello dell'acqua, facendo affidamento sulle scarpe alte. Vado a recuperare il sentiero e mi fermo presso la baita diroccata dell'alpe Bruna. Anche quando i pastori ancora la utilizzavano, la costruzione doveva essere già allora molto precaria, in questo luogo remoto dove ogni trave andava portata da molto più in basso e tutto era edificato a secco. Scrive un alpinista che pernottò qui dopo la demonticazione, qualche anno prima della costruzione del bivacco Ivrea, che lui e i suoi compagni impiegarono mezz'ora per turare con la paglia (lui scrive fieno ma è evidentemente un refuso) «i molti buchi attraverso i quali sibila il vento della notte». Allora gli armenti erano appena scesi a valle, perché era la seconda metà di settembre, mentre oggi non ce n'è alcuna traccia, nonostante sia agosto. Questo è uno dei pochissimi riferimenti al vallone di Noaschetta nei bollettini CAI, dalla fondazione ai giorni nostri: evidentemente non è molto frequentato. I nuvoloni sono intanto risaliti fino ad avvolgere qualche cima qui intorno; sono le 14.30 ed è normale per la stagione, anche se il tempo è previsto stabile. Nonostante l'ombra e la brezza, non sento il bisogno di coprirmi.

Quando mi alzo e mi giro per avviarmi, mi rendo conto che una marmotta mi stava tenendo d'occhio da poco sopra e ora, al mio movimento, si mette al sicuro in silenzio. Con un ampio giro, mi porto parallelo al torrente, un po' più in alto di esso, in un tratto in cui scende con pendenza moderata in un ampio incavo, tra prati con sempre più sassi. Noto una sorgente che domani mi sarà utile per rabboccare le borracce. Un tratto con una pregevole lastricatura, che serve a mantenerlo elevato in un tratto a volte allagato, anticipa il piano di Goi. Il nome deriva da un termine dialettale per acquitrino, indubbiamente azzeccato: infatti il vasto pianoro è percorso da innumerevoli rami del torrente, profondi anche meno di un palmo, separati da isolotti verdi fittamente cosparsi dai ciuffi bianchi degli eriofori, la tipica vegetazione delle paludi di alta quota. Le cime circostanti sono nascoste da qualche nuvoletta. Nei pressi di una palina metallica che sarà vecchia come il bivacco, cioè di settant'anni, a giudicare da quanto è contorta su sé stessa e arrugginita, faccio un'inversione ad U e con una larga curva mi porto in direzione di un canale poco pendente, più pietroso che erboso. La mulattiera va alla ricerca della poca erba tra molte fioriture, soprattutto gialle, e delle piante a cuscinetto, segno inequivocabile che sto per toccare il limite superiore della vegetazione. Raggiungo così i ruderi dell'alpe La Motta, a oltre 2600 m, una quota davvero ragguardevole. L'edificio è stato costruito sfruttando un avvallamento naturale ed è perciò così basso da fare quasi tenerezza, minuto come l'ultimo striminzito lembo di prato pascolabile, sovrastato da una catena di monti rocciosi.
Superato il dosso su cui sorge l'alpe, entro in una valletta chiamata vallone del Gias della Losa, erbosa sul mio versante, di sfasciumi sterili su quello opposto, dove è chiusa da una catena di monti impervi, senza nome sulla carta e sulla Guida ai Monti d'Italia, che li denomina con le rispettive quote e li definisce «di ardito aspetto». Nel gruppo che effettuò la prima traversata in cresta, vi era Vally Matteucci in Viano, una signora indistruttibile con cui una volta chiacchierai, quando ottantenne partecipò a una ciaspolata da 800 m di dislivello. Sul fondo corre un copioso torrente. Il sentiero scende puntando verso di esso, facendomi temere un altro guado. Invece arriva a lambirlo per poi rimontare la china sulla sinistra, fino a sbucare su un altro piano acquitrinoso, ma stavolta brullo, oltre cui si eleva il dosso su cui sorge il giallo bivacco. A monte del piano una delle cime che lo contornano si chiama Becca di Gay, come un cognome comune nelle valli delle Alpi Occidentali. Tuttavia non c'era nessuna improbabile villa di montagna di questa famiglia. In realtà è una delle solite storpiature dei militari addetti alla cartografia, che non parlavano i dialetti franco-provenzali delle montagne: il nome deriva anche qui da goui, acquitrino, e si riferisce a questo pianoro. I nomi delle cime, infatti, furono attribuiti in tempi tardi prendendoli in genere dal basso, in quanto i luoghi dove arrivavano i valligiani avevano un nome, mentre le cime improduttive no. A loro infatti non interessavano, come del resto a tutti gli europei prima della Rivoluzione Industriale: il Monte Bianco nel Cinquecento era privo di nome, nonostante fosse visibile da Ginevra, una delle capitali culturali dell'epoca. «Perché le montagne esistono da sempre, ma la montagna è un’invenzione recente, che nasce in città» scrive Aldo Audisio.
Nel piano perdo le segnalazioni e provo allora a ripiegare su guida e cartina, per capire come mi conviene affrontare il pianoro paludoso. La prima è vaga, facendo intendere che mi devo arrangiare, mentre la seconda indica di passare sulla sinistra del corso d'acqua principale. Faccio così e tra pozze fangose raggiungo il lato opposto del pianoro, dove ritrovo le segnalazioni, che lo hanno bordeggiato. Peccato che esse mi dirigano in un punto in cui il torrente bagna il suo margine roccioso e non mi lascia altra scelta che fare un paio di passi con i piedi a mollo, confidando che l'acqua non sia troppo alta. Procedendo in punta dei piedi, in senso letterale e non metaforico, per scongiurare l'ingresso di acqua dall'alto, oltrepasso il punto e salgo sul dosso erboso, raggiungendo il bivacco. Da sotto resta invisibile fino all'ultimo momentoi, ma la sua posizione è segnalata da una bandierina residua di un trail da 55 km e oltre 4000 m di dislivello, tenutosi a luglio, di cui avevo visto molti striscioni lungo la 460, oltre a un'altra bandierina sul guado dell'alpe Bruna.

Al bivacco sarò solo per tutta la notte, come prevedevo, per cui avrò la possibilità di mettermi comodo. Costruito nel 1947, come altri simili ha nove posti, ma in quattro si sta già stretti e bisogna mangiare a turno. Lo apro e scopro che è interamente rivestito di legno, con il risultato di un buon isolamento termico. Ha un tavolo estraibile molto sgangherato, disarticolato come le ginocchia dopo cinquant'anni di trail, che ribalterò solo sfiorandolo. Lo riporrò pertanto e, temendo di dare fuoco alla struttura con una mossa improvvida, cucinerò invece su una delle due panche, che sono fissate a terra. Per prima cosa vado alla ricerca dell'acqua, su cui ho notizie incerte. Vicino al bivacco scorre un rigagnolo proveniente da una pietraia, che mi verrà comodo per le necessità non alimentari, avendo acqua sorgiva a sufficienza per cucinare. Mi levo poi di dosso la crema solare con acqua e sapone e stendo al sole l'asciugamano e le calze, umide nelle punte per l'immersione indesiderata. Vado quindi a sdraiarmi un'oretta sul letto che ho prescelto, quello con delle mensole buone per riporre occhiali, pila frontale e cellulare per la sveglia, un'accortezza che spesso manca anche nei rifugi. Oltre alle coperte di lana, ci sono dei caldi piumoni che gradirò tantissimo. Il bivacco ha una sola piccola finestra sigillata sulla facciata anteriore, ma tra la porta e lo stipite corre una fessura ampia abbastanza a far passare aria sufficiente anche se chiusa, perlomeno con una sola persona all'interno. Noto che manca un quaderno; qualcuno ha rimediato scrivendo il proprio nome e i propri pensieri sulle pareti. Alcune scritte sono ispirate alle esperienze spirituali che il luogo elevato suggerisce, da quelle mistiche a quelle dionisiache.
Prima che il sole cali dietro ai monti scatto qualche ritratto ambientato al bivacco. Si trova in una conca abbastanza ampia ma molto profonda, dove il sole scompare presto e non è perciò ideale per le foto di aurora e tramonto, in quanto solo le punte delle montagne sono illuminate nell'ultima e nella prima mezz'ora di sole. L'unica cima fotogenica illuminata fino a tardi è una montagna che spunta da oltre la strettoia verso valle, forse il monte Castello che ho aggirato salendo il vallone, ma purtroppo non ho un tele sufficientemente lungo per lo scopo, perché amo viaggiare leggero. Il posto sembra invece più adatto a foto con la luna piena, perché ha soggetti in tutte le direzioni, per cui si può beneficiare dell'intero suo corso nel cielo. Magari una volta ci verrò in queste condizioni; oggi la notte sarà invece di sole stelle. Esplorando i dintorni noto il proseguimento della mulattiera verso il lago della Losa, dove c'era una postazione di caccia, e anche un'altra diretta verso il ghiacciaio di Noaschetta. Quest'ultima non è riportata sulla mia carta, ma sembra proseguire evidente, con dei tornanti ancora in buono stato un poco più a monte. Neanche il Berutto né la Guida ai Monti d'Italia la citano, nella descrizione dell'itinerario verso il colle del Gran Paradiso, preferendo invece salire lungo una morena. Proseguendo di qui, un alpinista può salire sul Gran Paradiso restando interamente sul versante canavesano: se mi piacesse l'alpinismo, la salita da Noasca al 4000 italiano sarebbe una delle escursioni che vorrei compiere. Questo versante fu salito la prima volta nel 1875 da Vaccarone con Toni Castagneri, la leggendaria guida di Balme. Dal resoconto si apprende che Vittorio Emanuele II amava cacciare stambecchi sui ghiacciai, al punto da chiedere agli alpinisti di attendere un giorno in modo da non disturbarlo, ricompensandoli poi con «un bel coscio di stambecco arrostolito, che ci faceva aguzzare i denti solo a vederlo, a sentirne poi i saporiti effluvi c'era da cadere in deliquio». Di fronte al bivacco non è lontana la poderosa morena frontale del ghiacciaio di Noaschetta, risalente alla Piccola Era Glaciale. Ai tempi del re il fronte sarà stato poco oltre, mentre oggi ci sarà da superare una vasta distesa di sfasciumi prima di potervi posare piede. Anche il secondo re d'Italia venne a cacciare qui, mentre Vittorio Emanuele III preferì l'altra riserva di caccia (ma soprattutto pesca), nelle Alpi Marittime, tanto che nel 1917 cedette questa allo Stato Italiano con la condizione di farne un parco, che nacque pochi anni dopo.
Dopo che il sole è scomparso dal dosso, preparo una minestrina, che mi riscalderà al punto da farmi levare il pile di dosso per qualche tempo. Scatto quindi l'unica foto al tramonto che il posto permette, alle seghettate montagne senza nome, e vado a letto presto, puntando la sveglia alle 4 per fotografare la Via Lattea e la stellata, in quanto dalle 4.30 dovrebbe apparire il primo chiarore dell'alba. Il bivacco è molto isolato anche acusticamente, grazie al rivestimento di legno: lo scroscio del torrente a porta sprangata è solo un sommesso mormorio e non sento aeroplani. Il piumone mi regala un confortevole tepore dentro cui mi crogiolo: pensare che ieri sera nella canicola ho dormito in mutande patendo il caldo. Anche se adesso manca la compagnia del gatto contro i piedi è una goduria. Mi sveglio intorno alle 2 e dopo le 3 mi alzo e mi vesto. Fuori è cessata la brezza di ieri sera e non sento troppo freddo; posso restare a lungo, realizzando con calma i vari scatti previsualizzati ieri sera con la bussola, anche senza guanti, per una migliore manipolazione dei comandi della fotocamera. Il cielo è parzialmente coperto di velature, che in direzione della pianura, alle spalle delle cime rocciose senza nome, sono luminosissime e in foto vengono arancio per l'illuminazione stradale al sodio. Compiuta la missione, mi crogliolo nella solitudine notturna e contemplo la stellata, che non mi capiterà di rivedere presto. Le stelle sono talmente tante che mi disorientano e non riesco a individuare nemmeno il Grande Carro, così facile da riconoscere tra le luci cittadine. Nonostante l'isolamento e il buio, che ai miei occhi di mammifero diurno rende tutte le forme incerte come in un sogno agitato e confuso, non provo sensazioni di timore irrazionale per la mia insignificanza e fragilità in questa soverchiante immensità indefinita, ma anzi, mi sento perfettamente a mio agio e felice.
Torno a letto e mi riaddormento. Mi sveglio giusto in tempo, quando le velature cominciano a tingersi di rosso. Esco e mi accorgo che nelle conche le piantine sono argentate di brina. Faccio appena in tempo a scattare una foto ai torrioni del Gran Paradiso chiazzati di rosso in cima, che le velature, ora più estese e ispessite, spengono la luce dell'aurora. Rientro perciò nel bivacco e mi scaldo il latte quel tanto che basta ad ammorbidire il m¨sli. Nemmeno mi ha sfiorato il pensiero di darmi una sciacquata almeno alla faccia.

Riposte nello zaino le masserizie che avevo sparpagliato nel bivacco, parto quando ancora il sole non ha raggiunto la conca. I torrenti sembrano un po' meno rumorosi e spumeggianti di ieri sera, ma è difficile esserne sicuri, perché sono l'unico suono e non c'è modo di confrontarne l'intensità con altri. Ad ogni modo riesco a superare il guado ad immersione senza bagnarmi le calze. Allo sbocco del piano metto in fuga tre camosci intenti a brucare sul dosso. Più avanti, verso l'alpe La Motta, ne vedo due cuccioli in fuga su una roccia montonata. In queste zone remote i selvatici non devono essere molto abituati alla presenza umana, perché altrove li ho visti allontanarsi con più calma. Alla prima alpe vado a saltellare sulle rocce in riva a uno dei due laghetti subito a sud del sentiero, che nell'aria senza brezza di stamattina riflettono le montagne circostanti, specie quelle rosse della Costa di Prosces, a ovest del piano di Goi; sono illuminate da una bella luce, che qui non è ancora arrivata. Nel tratto di discesa verso l'alpe Goi metto in fuga qualche marmotta grassa e mi affaccio sull'alpe Bruna, che il sole sta raggiungendo. Uno stambecco con due grandi corna si spaventa per la mia apparizione lontana e si dà a una fuga precipitosa, mostrandomi nel contempo come si fa un guado: si porta su un masso a picco sulla riva e con un sol balzo salta sull'altra sponda, senza neanche inumidirsi gli zoccoli. Faccio caso a un grande masso spezzato a metà dai cicli di gelo e disgelo. Il taglio è così perfettamente netto, che se fosse in un luogo accessibile sarebbe un'attrattiva turistica speziata da qualche vicenda leggendaria, come l'omologo tranciato dalla spada Durlindana del paladino Roland accanto all'omonima cascina in valle di Susa. Al piano di Goi riesco a fotografare il Gran Paradiso, che ieri pomeriggio era nascosto dalle nuvole, insieme alla grande distesa di eriofori di questo piano paludoso. Lungo la discesa verso l'alpe Bruna, mi fermo a rabboccare le borracce alla sorgente individuata ieri. Provo anche a berla, ma è così gelida che dopo due sorsi mi si chiude lo stomaco. Il torrente al guado mi sembra meno copioso di ieri, oppure sono io ad aver acquisito maggiore sicurezza; sta di fatto che lo supero senza difficoltà, poggiando i piedi su qualche pietra sotto il pelo dell'acqua.
Ho intanto raggiunto la luce del sole e posso così levarmi di dosso il pile e i guanti che mi hanno scaldato sinora. Mi accorgo che a scendere ci ho messo quasi mezz'ora più che a salire da qui al bivacco, per via delle pause per ammirare i selvatici e i vagabondaggi fotografici. Arriva nel frattempo un ragazzo con l'espressione dura, che nemmeno ricambia il mio saluto. Indossa scarpe basse e un enorme zaino avvolto da un coprizaino nero. Si affaccia al guado, si accorge di non poter passare di lì e, in men che non si dica, con qualche balzo felino riesce a trovare una via alternativa, simile a quella percorsa da me ieri. Scendo al piano con la baita diroccata senza nome, dove il torrente scorre a meandri nell'erba, per poi risalire al bivio per la Bocchetta del Ges. Seguo la mulattiera reale diretta ad essa, che sale dolcemente ad ampi tornanti panoramici, a volte un po' invasa dai massi della pietraia. Godo di una bella vista su un paio di cime piramidali illuminate di lato, che fotografo ripetutamente sullo sfondo della mulattiera, nel continuo perfezionamento dello scatto ideale. Arrivo ai piedi della Bocchetta dell'Alpetto, dove stanno pascolando due giovani maschi di stambecco. Due tornanti prima del colle lascio la mulattiera seguendo le segnalazioni, in favore di una traccia, fino all'innesto su una bella mulattiera, che riparte dal nulla oltre una pietraia. Probabilmente qui la congiunzione è franata insieme alle pietre. La mulattiera di caccia descrive ora un lungo traverso, dove spesso è scomparsa e sostituita da una magra traccia, a volte anch'essa in via di frana, fino a raggiungere la base di un canalino roccioso. Qui riesce a rimediare il poco prato presente e a risalirlo a stretti tornanti, nuovamente in buono stato di conservazione. La conoscenza del territorio da parte dei montanari doveva essere davvero minuziosa, se sono riusciti a scovare un passaggio in una zona rocciosa, dove far transitare una via così ampia. Al colle mi aspetta uno stambecco, che si allontana senza agitarsi. Il cartello al passo chiama questo colle Ger e non Ges, come riportato sulla carta e sulle guide.
Mi fermo per mangiare un boccone e spalmarmi il primo strato di crema solare. Sull'altro versante c'è un ripido pendio di sfasciumi, chiuso in una conca che si incunea verso valle in un intaglio. Oltre la valle Orco appaiono le Levanne e qualche tremila delle valli di Lanzo, come la Ciamarella con i suoi piccoli ghiacciai. Da qua mi accorgo che dall'alpe Goi all'alpe la Motta ho scavalcato una morena: la forma è inconfondibile.
Ora in discesa mi aspetta un breve tratto di ombra, l'ultima fresca di cui godrò oggi. Poi sarà solleone e anche l'ombra del bosco a fine escursione sarà tiepida. Sul primo pendio di sfasciumi la mulattiera si è conservata sorprendentemente bene, senza cedimenti. Il tracciato esce poi dalla conca ombrosa e procede in traverso, per restare alto sopra un avvallamento costellato di grandi massi, preferendovi una pendio erboso, di cui segue qualche cengia naturale, a piedi di pareti rocciose. Vedo un gruppetto di giovanissimi stambecchi, che alla mia comparsa entrano in fibrillazione e si mettono a saettare convulsamente: prima corrono verso un masso proteso nel vuoto, ma non faccio in tempo a estrarre la fotocamera dalla custodia per riprenderli in questa fotogenica posa, che sono già schizzati sui prati a monte, dove scompaiono ben presto dalla mia vista. Più in basso sta invece pascolando quieta in una piccola conca erbosa, presso un laghetto senza nome, una piccola mandria di vacche di vari colori. A monte del lago la valle sale abbastanza repentinamente, chiusa da cime rocciose dal colore rossiccio. Segue ora qualche breve passaggio dove il regolare tracciato originario è scomparso ed è stato sostituito con tracce che rotolano per la via più diretta. La causa della perdita sono frane nelle pietraie e colate di pietre giunte dai picchi soprastanti della Costa di Prosces, anche in zone altrimenti prative. Proseguendo in obliquo punto verso il gruppetto di vacche con vitelli. Una mia accoglie mostrandomi le terga e sgravandosi l'intestino; un vitello seduto a terra invece si agita e con esso la madre, suggerendomi di girargli al largo. Arrivo al bivio per i laghi di Ciamousseretto, di cui vedo da un po' l'emissario, un torrente di origine glaciale, a giudicare dalla portata copiosa e dal colore slavato. In alto, in cima a questo vallone, ci deve essere un piccolo ghiacciaio, ormai in via di scomparsa, data la bassa quota e l'esposizione a sud. La mulattiera scende ora molto gradualmente per prati fioriti, accompagnata dal fragoroso scroscio del torrente, che cala con turbinose rapide di bianca schiuma. Sono ormai in vista della casa di caccia trasformata in casotto dei guardaparco, un basso edificio stretto e lungo, tinto di rosa. Si trova su un pianoro chiuso a valle da dossi montonati, dove termina il vallone sospeso di Ciamousseretto. Sui tavoli accanto al casotto trovo un signore con un bambino, entrambi a torso nudo e abbronzati.

Per il pranzo vado ad accomodarmi sui dossi montonati protesi a valle, nella vana speranza che lì il telefonino prenda e possa avvisare casa che va tutto bene, dopo un giorno e mezzo di silenzio. Mangio e faccio un pisolino sotto il sole implacabile. Quando sto per partire, vedo salire due signori. La mulattiera ora è molto bella, specie negli attraversamenti delle pietraie. In certi punti ho l'impressione che queste fossero facilmente aggirabili, ma i costruttori volessero affrontarle per mostrare la propria abilità al re, oppure magari per battere cassa al ministero della Real Casa. Le cacce reali generavano un indotto tutt'altro che marginale, in questi montagne povere. Probabilmente l'avevano ben compreso gli amministratori di Ceresole, quando offrirono gratis i diritti di caccia al re (è per questo che il paese da allora porta l'appellativo di “reale” nella propria denominazione). Nei tratti su prato, la mulattiera è ridotta a più stretto sentiero, forse per l'invasione prodotta dal soliflusso, lento ma più che secolare. Su ampi prati, abbastanza ripidi, la mulattiera scende molto gradualmente, con tornanti su tornanti, spostandosi nel contempo verso est. Per un lungo tratto ammiro le cascate del rio Ciamousseretto, che, terminata la sua valletta glaciale, precipita spumeggiante e fragoroso. Supero un paio di orridi canaloni di slavina, dove ricordo di aver visto molti camosci la prima volta che salii al Gran Piano, durante una vacanza a Ceresole Reale da ragazzo. Supero il bivio per Balmarossa e entro nella porzione che è rimasta pr alcuni anni interdetta, per il timore di una frana, che però non si è mai scaricata. Mi avvicino al lariceto e alla sua agognata ombra, per quanto rada, ma il sentiero si diletta in circonvoluzioni nei prati senza raggiungerlo. Poco prima di arrivarci, incrocio un quartetto formato da una coppia di quarantenni insieme ai genitori di lei, che mi chiedono ragguagli su quanto ancora manca loro per raggiungere il Gran Piano. Hanno informazioni abbastanza contraddittorie sulla lunghezza del percorso, anche perché hanno male interpretato un cartello all'imbocco del sentiero, forse perché non hanno la cartina. Con altimetro e cronometro indico loro quanto dislivello ancora ci vuole e quanto tempo ho impiegato io a scendere. La mamma della donna sembra la più sconfortata e dubbiosa, ma dopo le mie informazioni sceglie di proseguire. Spero solo che nei loro minimi zainetti ci sia abbastanza acqua, perché fa molto caldo e non ne troveranno fino al rientro; io solo per scendere ne consumerò oltre due litri.
Finalmente raggiungo l'ombra del lariceto e mi fermo a bere in abbondanza. Questo lariceto senza sottobosco doveva essere un pascolo, mantenuto a bosco anziché a prato per evitare frane a causa dell'elevata acclività del terreno. Il larice era l'essenza preferita per questo scopo e perciò diffuso a discapito di specie concorrenti, perché la sua ombra rada non ostacola la crescita dell'erba, come fa invece l'abete rosso, altra specie della medesima nicchia ecologica. Attraverso quindi la zona a rischio frana, dove il tracciato originario è scomparso, sostituito da tracce a volte disagevoli, con qualche ponticello in assi di legno a permettere il superamento di certi passaggi. La temperatura sale e il bosco solatio diventa un pullulare di insetti, di qualunque ordine.

Termina intanto il lariceto, sostituito da un rado bosco di betulle su un fondo a volte costellato di massi. Qui, per una porzione considerevole, il tracciato è invaso da felci, forse rese rigogliose dalle abbondanti piogge di questa primavera (non le ricordavo in passaggi precedenti, anche recenti); un breve tratto di ritorno del lariceto senza sottobosco è un'illusione momentanea. Questa vegetazione è in genere il primo passo della colonizzazione degli spazi aperti abbandonati dall'uomo da parte del bosco. Questo mi mette un po' di tristezza, perché è un segnale di fine di una cultura; nel corso della mia vita vedrò se sarà sostituita da un'altra, con un'occupazione diversa di un territorio divenuto più selvaggio, o se sarà solo un funerale. Quel che è certo è che vedrò cambiare la vegetazione, oltre che ridursi la copertura nevosa, anche se in questo caso per fattori indipendenti dall'opera dei montanari. D'altronde anche le betulle, numerose nelle parti basse dell'escursione, appartengono alla medesima categoria. Le Alpi che amo frequentare stanno divenendo un gigantesco spazio residuo della civiltà, dopo secoli non più soggetto alla pressione antropica e al suo maniacale bisogno di controllo. Non tutte, beninteso, solo quelle parti meno accessibili, che non è possibile ridurre a spazio ricreativo per le masse urbane, dove invece alla pressione agricola si è sostituita quella dei divertimentifici. Dopo un certo penare, finalmente comincia un bosco misto più fitto, dove non riescono più a proliferare.
Al bivio con la bretella per Balmarossa mi fermo a prosciugare l'acqua della borraccia, ormai tiepida, da gelida che era quando l'ho rabboccata stamattina. Arriva nuovamente un tratto aperto, con vista su una cascata del rio Noaschetta, a cui mi sono nuovamente avvicinato, dalla sponda opposta rispetto a ieri mattina, dopo aver doppiato il costone con il vallone di Ciamousseretto. A tornanti arrivo alla borgata Sassa, dove mi fiondo senza incertezze verso la fonte, rintanata tra le case del paese, ma che ben conosco. Non mi viene in mente di immergere nella vasca la testa o almeno il cappellino, ma sarebbe stata un'idea geniale. Qualche villeggiante sta chiacchierando seduto all'ombra, mentre delle vacche stanno pascolando in un pratino a valle delle case. Proseguo per la stretta stradina sterrata chiusa al traffico, dapprima in un bosco misto a prevalenza di frassini, poi nel lariceto. Già sento il rombo delle moto al rientro dal colle del Nivolet, che raggiungo dopo qualche tornante. Le case di villeggiatura a Sassa e all'alpe Scialer sono dei modi di occupare il territorio, da parte della società modernista della bassa, che preservano una qualche forma di identità alternativa rispetto ai modelli culturali importati dalla pianura, pur restando una sua dépendance festiva e non un'entità autonoma. Invece l'invasione dei mezzi motorizzati nell'alta valle vi trasla i modelli della civiltà che ha drenato le energie migliori della montagna svuotandola: le alte quote diventano grandi parcheggi, non dissimili da quelli dei centri commerciali, e i suoi prati una riproposizione del modello della spiaggia (giusto trenta anni fa un guardaparco annotava nel suo diario che si erano pure materializzati i venditori di chincaglierie, «comunemente detti “marocchini”, con tanto di tappeti in spalla»). I bagnanti marini e i loro epigoni d'alta quota nemmeno sanno di essere in un ambiente naturale fragile, ma non lo distinguono da una piscina o un solarium.
Percorro la strada asfaltata, scendendo i quattro ripidi tornanti a monte di Noasca fino a raggiungere il centro abitato. Una ragazza alla guida di un'auto strombazza e smanaccia affiancandomi, per un omaggio all'insolito pedone secondo le sguaiate consuetudini motorizzate. Lascio lo zaino nell'auto ora in numerosa compagnia e, con la sola macchina fotografica, salgo alla cascata, perché ora è illuminata dal sole e la sua portata è più consistente che ieri mattina. A metà pomeriggio c'è un certo viavai lungo il sentiero e affollamento nella caverna, che mi costringe ad aspettare pazientemente il mio turno, come nella fila dello scivolo della piscina. Scatto qualche foto e medito se tornarci con la prossima luna. Rientro in paese e vado a concludere il viaggio spazzolando uno dei gloriosi panini del bar oltre il ponte sull'Orco. Per una volta tralascio le consuete acciughe al verde e mi cimento invece con lardo e castagne: le castagne bollite probabilmente in acqua e miele sono succose, mentre il lardo non può competere con quello di Colonnata.

Per approfondire

E. Andreis - R. Chabod - M.C. Santi, Gran Paradiso, Milano 1980
A. Audisio - P. Cavanna - E. De Rege di Donato, Fotografie delle montagne, Scarmagno 2009
U. Bado - M. Blatto, Valle dell'Orco - Gran Paradiso, Rimini 2008
G. Berutto, Il Parco Nazionale del Gran Paradiso vol 1°, Torino 1981
G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata 2005
J. Dorst - C. Favarger - R. Hainard - O. Paccaud - P.C. Rougeot - J.P. Schaer - P. Veyret, Guida del naturalista nelle Alpi, Bologna 1983
A. Segàla, Le ore della luna - I diari segreti dei guardiaparco del Gran Paradiso, Trento 1992

Galleria fotografica

Case Sengie
Case Sengie
Sassa e Levanne
Sassa e Levanne
Alpe Scialer
Alpe Scialer
Gola del Noaschetta
Gola del Noaschetta
Asini
Asini
Alpe Bettasse
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Alpe Arculà
Alpe Arculà

Alpe la Motta
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Bivacco Ivrea e Gran Paradiso
Bivacco Ivrea e Gran Paradiso
Bivacco Ivrea e montagne senza nome
Bivacco Ivrea e montagne senza nome
Montagne senza nome
Montagne senza nome
Bivacco Ivrea
Bivacco Ivrea
Bivacco Ivrea e Gran Paradiso
Bivacco Ivrea e Gran Paradiso
Il piano paludoso
Il piano paludoso
Alpe la Motta
Alpe la Motta
Alpe la Motta
Alpe la Motta
Masso spezzato dal crioclastismo
Masso spezzato dal crioclastismo
Alpe Bruna
Alpe Bruna
Piano di Goi e Gran Paradiso
Piano di Goi e Gran Paradiso
Mulattiera reale
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Bocchetta del Ges
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Gran Piano
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Mulattiera reale
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Cascata del Ciamousseretto e Levanne
Cascata del Ciamousseretto e Levanne
Cascata del Noaschetta
Cascata del Noaschetta
La stradina per Sassa
La stradina per Sassa
Cascata di Noasca
Cascata di Noasca
Cascata di Noasca
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Sergio Chiappino

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