Santuario di Madonna della Corona 774 m

Monte Baldo

20 ottobre


In un baleno

«La sua situazione su uno stretto ripiano della parete strapiombante e la disposizione irregolare degli annessi fabbricati per la canonica, l'oratorio e i negozi, il tutto quasi sospeso fra precipizi, fanno pensare a quei conventi dell'Anatolia e delle ambe abissine, ai quali si accede tirati su con corde o per sentieri invisibili»

Madonna della Corona
Madonna della Corona

Diario di viaggio

La strada pel Santuario s'insinua nell'orrido vallone detto «vajo» delle Pissotte, che pare impraticabile, tanto sono a picco i suoi fianchi, ma la difficoltà è risolta da una serie di anguste scale costruite contro l'impervia parete e perfino intagliate entro la medesima. Sono centinaia di scalini fino ad un ardito ponte che cavalca un burrone, poi al di là sonvene ancora 276 per giungere al Santuario della Madonna della Corona (m. 774), la cui fama è diffusa per larga zona all'ingiro e richiama migliaia di pellegrini veronesi, bresciani e trentini. La sua situazione su uno stretto ripiano della parete strapiombante e la disposizione irregolare degli annessi fabbricati per la canonica, l'oratorio e i negozi, il tutto quasi sospeso fra precipizi, fanno pensare a quei conventi dell'Anatolia e delle ambe abissine, ai quali si accede tirati su con corde o per sentieri invisibili.

Così scriveva nel 1909 un partecipante al quarantesimo congresso CAI a Verona, impegnato in una escursione patriottica che prevedeva anche lo sconfinamento nel Trentino irredento. Oggi le cose sono un po' cambiate, perché pochi anni dopo questo scritto il santuario fu reso raggiungibile anche da una strada, che consente l'accesso anche ai motorizzati (avrei volentieri sfregiato con l'acido la targa commemorativa). Tuttavia il vajo, termine dialettale per valle, è rimasto sempre lo stesso, perché la strada arriva dall'alto, per cui anche l'escursionista può godere della salita e vivere il suo pellegrinaggio a piedi.
Nell'area sin dal Medioevo erano presenti eremiti legati all'abbazia di san Zeno a Verona, e nel santuario è presente un dipinto trecentesco risalente all'originaria chiesetta. Tuttavia la data canonica di fondazione è collocata nel 1522 ed è legata al ritrovamento di una statua, che sarebbe miracolosamente svanita da Rodi in preda dagli ottomani, per apparire qui circondata di luce. Non manca il particolare secondo cui i devoti avrebbero voluto traslarla altrove, ma ogni volta spariva a riappariva qui. Questa leggenda, assai diffusa, rimanda al carattere sacro di certi luoghi, che travalica la volontà umana e le religioni: molto spesso edifici sacri medioevali erano edificati sopra preesistenti templi romani.
La storia risale a parecchi decenni dopo la data di fondazione ufficiale e non era nota ai primi cronisti che citano il luogo. Oggi i religiosi tengono un basso profilo, accennandone appena sul sito del santuario. Quanto al nome, sembra che corona sia una adattamento all'italiano di un termine locale per cornice, crona in Trentino e kruane tra i cimbri dei Lessini.
La statua è insolita rispetto all'iconografia abituale della Madonna, che in genere è raffigurata come giovane e graziosa fanciulla, perché in questo caso ha invece la faccia deformata da un'espressione di intenso dolore.
Il santuario si trova abbracciato a una parete calcarea del versante orientale del monte Baldo, dove la bassa valle dell'Adige è ancora provincia di Verona; è quasi dirimpetto al Corno d'Aquilio, l'ultima propaggine dell'altopiano lessino, subito prima del salto vallivo. La scalinata parte da Brentino, piccola frazione senza negozi, chiusa tra le pareti rocciose e i vigneti, che tappezzano fittamente tutto il piatto fondovalle, senza concedere spazio né a un prato né a un albero. Le case sono adagiate sul conoide di deiezione, magari per non sottrarre terra arabile e scampare alle piene del fiume, oggi invece a regime ridotto. Un secolo addietro non avremmo potuto arrivarci dalla statale del Brennero con un comodo ponte, ma avremmo dovuto scendere alla stazione di Peri e varcare l'Adige con un'imbarcazione. In compenso a Brentino avremmo trovato ben tre alberghi per i pellegrini, che in autunno erano molto numerosi.
La sera prima a cena, un paio di parenti di religione automobilistica mi avevano presentato l'ascesa più o meno come io immaginerei il Monviso in giornata da Paesana. Mia mamma, che percorse la scalinata da bambina in compagnia di mia nonna, lo ricorda come una distesa di pietraie degne del vallone del Miage. A me è sembrata una tranquilla passeggiata, con un minimo di scomodità per certi gradini alti, ma mai ripidi e sconnessi come quelli della Beccara o di Monesteroli; va detto che è stata recentemente restaurata. Mi sembra accessibile a chiunque non abbia trascorso tutte le domeniche degli ultimi dieci anni tra Netflix e patatine.

Alla base della prima rampa c'è uno slargo, dove si trovano una fontanella e un lavatoio in disuso. Sono all'ombra di un grande ippocastano, i cui frutti non sono gradevoli al palato, ma a cui sono attribuite varie proprietà più o meno taumaturgiche. Vedo che qui l'albero non ha quella malattia, comune nella mia città e diffusa anche in luoghi isolati di montagna, che ne fa ingiallire precocemente le foglie.
L'imbocco della salita è un lastricato di bassi gradini tra due muri, per poi divenire un'alternanza di gradini in pietra e tratti di sentiero in terra battuta, moderatamente ghiaiosa. A volte delle tracce consentono di aggirare alcuni gradini, ma per motivi devozionali mi impongo di affrontarli tutti, anche se in certi casi la distrazione potrebbe avermi fatto deviare dalla retta via. Soprattutto però, non li salgo in ginocchio, come taluni facevano una volta. La guida ottocentesca di Ottone Brentari è molto minuziosa nel computo, diviso per sezione del tragitto; conosco un signore che in questi casi li conterebbe tutti, mentre a me basta sapere che sono davvero tanti, magari non quanti i chilometri che ci separano dalla luna, ma proprio tanti.
L'ambiente è quello del bosco di ornielli ancora in veste estiva, che nelle Alpi Orientali sono i più comuni alberi della bassa montagna. Sono invece assenti a ovest, per cui impiego non poco prima di accendere la lampadina; l'illuminazione avviene più o meno quando faccio caso che le loro foglie assomigiano a quelle dei frassini, con cui condividono il genere. Oltre a loro ci sono anche querce di varie specie e pochi frassini.
Ogni sabato alle 15 un gruppo sale al santuario pregando, per cui sono state piazzate delle stazioni che ricordano i vari misteri del rosario. Si parte da quelli gaudiosi, quando si è entusiasti dell'escursione appena cominciata, quindi si transita per quelli della luce, ma quando la fatica comincia a farsi sentire, si passa a quelli dolorosi; infine, alla comparsa del santuario, a quelli gloriosi. Insomma, la scansione sembra pensata da un credente di religione escursionistica, più che cattolica.
Ci sono anche delle lapidi a ricordo di varie persone, tra cui una di un escursionista morto recentemente, nella quale a una maestra non sfuggirebbe un quì con l'accento. Ne manca una per i tanti soldati austriaci in fuga e accerchiati da ogni lato, precipitati e morti in seguito una battaglia legata alla Rivoluzione Francese, che ebbe il forte di Rivoli come epicentro.
Un po' prima di affacciarsi sul santuario, troviamo un bivio con il sentiero che si inoltra nel vallone calcareo, fino a un ponte tibetano di recente costruzione, e può essere una via alternativa di discesa, molto più lunga. Questo vallone si presenta completamente boscoso, assai incassato, quasi orrido nel senso romantico del termine. Il bosco fitto è un dono dell'abbandono delle attività agricole di montagna, perché invece, quando la legna era il principale materiale per un'infinità di impieghi, il bosco era rado, ed era anche stato costruita una teleferica per portare la legna a valle. Lo sguardo verso la bassa valle è invece limitato, e afflosciato dalla foschia dovuta al caldo fuori stagione. I camion sull'autostrada del Brennero sembrano tante processionarie con la faccia incollata al sedere di chi le precede. Poco prima, dove oltrepassiamo il costone tra valle dell'Adige e vajo, c'è un tratto con il fondo roccioso, accanto a cui è stato ancorato un cavo metallico per tenersi: con l'asciutto è pleonastico, ma, si sa, queste cose si apprezzano soprattutto quando il fondo è bagnato e, se è calcareo, ancor di più.
Più in alto un salto è superato con una scala di cemento, che ad un certo punto finisce in una piccola caverna, dove è stato ricavato un altare adorno di immagini sacre. Questa scala è un rifacimento di una precedente risalente al 1770 circa.

L'accesso al santuario avviene con un cancello oltre un ponte a scavalco di una forra. La leggenda della statua di Rodi cita anche un albero miracolosamente cresciuto in una notte, che avrebbe consentito il primo scavalco del burrone. Una volta era l'unico modo di entrare, perché i 775 gradini pr scendere da Spiazzi, sull'altopiano soprastante, conducevano anch'essi qui. Siamo accolti dal volteggiare non delle grole, come sono detti qui i gracchi, ma di un drone con il suo caratteristico ronzio meccanico. Sta effettuando dei controlli sulla stabilità delle pareti: la cosa è presa molto seriamente, perché il Venerdì Santo del 1833 un crollo distrusse un edificio e richiese il suo tributo di sangue.
Risalita una scala con alcune edicole, accediamo all'area sacra via toilette, presso cui è stata allestita anche una stanza riscaldata, per consentire a chi ha espiato le pene sudando l'anima in salita, di indossare vestiti asciutti. Mia cugina ne approfitta, mentre io ascolto due signore parlare di incontri con i veggenti di Medjugorie: da queste parti, sarà per la vicinanza geografica, sono sempre stati molto popolari.
Si raggiunge la chiesa con un'ulteriore scalinata affollata di turisti (molte le famiglie tedesche con figli): a giudicare da quanta c'è un un qualsiasi giorno feriale di ottobre, persino sul sentiero, non vorrei trovarmi qui la domenica. L'edificio all'interno è di stile neoclassico; sul lato sinistro e dietro l'altare non c'è un muro, ma la montagna nuda. Quest'anno hanno preso il via le celebrazioni per il 500° anniversario dal ritrovamento ed è possibile ottenere l'indulgenza plenaria, ovvero, nel sistema di credenze cattoliche, la cancellazione della pena temporale dovuta ai peccati già perdonati con il sacramento della riconciliazione. Per chi ne desidera approfittarne, è stato allestito un apposito percorso tra i vari poli del santuario, come preparazione, prima dei sacramenti che la fanno conseguire.
Io ne avrei di peccati escursionistici da confessare: tutte le volte che ho camminato distratto, senza scorgere dettagli che meritavano un ricordo, tutte le volte che ho fatto la gita isolato dai miei amici, quella volta che traumatizzai un giovane stambecco per scattargli una foto, quella volta che dispersi una pila frontale inquinando i monti e così via, ma dubito che troverei un prete della religione adatta, in grado di ascoltarmi. Chissà quanti secoli mi toccherà pertanto vagare come anima in pena tra gli outlet di Babele dell'aldilà per espiare. Accendo almeno una candela nella cappella edificata sul luogo del ritrovamento della statua.
La zona del santuario che mi colpisce di più e dove scatto più foto, è però il locale in cui sono esposte le foto delle persone care ai pellegrini: interi muri tappezzati di fototessere anonime, ingiallite dal tempo, spesso con abiti e acconciature fuori moda. Non ci sono solo italiani, ma anche tedeschi. Molto più evocativo degli ex-voto, alcuni dei quali sono pure pregiati, e molto più impressionante degli eremiti imbalsamati nella sala adiacente.
Andiamo infine a mangiare un panino sui tavoli predisposti per il pic-nic e a prendere un caffè ai tavolini esterni del bar. In salita avevamo caldo, mentre ora dobbiamo stare ben coperti.

Per scendere ripercorriamo il tragitto dell'andata, senza guizzi creativi, tra altra gente che sale. Ci toccano un paio di scivolate a testa sulla ghiaia. A breve distanza dalla meta, incrociamo due tedeschi obesi, in evidente affanno, le cui bici elettriche troveremo parcheggiate accanto all'ippocastano. Alla partenza faccio caso alle indicazioni per il sentiero diretto nel vajo, che quindi forse non esiste solo su OpenStreetMap, ma anche sul terreno. Dev'essere un luogo di un certo fascino, anche se non so quanto si riesca ad apprezzare tra la fittissima vegetazione.
Concludo la giornata con una cena etnica veneta a base di polenta, finferli e monte (il formaggio d'alpeggio dei Lessini), innaffiati da Valpolicella.

Per approfondire

O. Brentari, Guida di Monte Baldo, Padova e Verona 1893
O. Valdinoci, M. Voltan, Due montagne una valle : il Monte Baldo e la Lessinia in Provincia di Verona, Milano 2011
Basilica Santuario Madonna della Corona

Galleria fotografica

In salita
In salita
Alla nicchia
Alla nicchia
Madonna della Corona
Madonna della Corona
Madonna della Corona
Madonna della Corona
Madonna della Corona
Madonna della Corona
Brentino e Corno d
Brentino e Corno d'Aquilio

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Sergio Chiappino

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