Nemus Aleveti

Parco Naturale del Monviso

17 luglio


In un baleno

A Bertines mi ferma un vecchio, che mi chiede della mia destinazione. Gli spiego il giro che ho in mente e lui approva entusiasta dicendo che gli piace molto

Detrito morenico
Detrito morenico

Diario di viaggio

Un’intera escursione giornaliera all’interno di un bosco è un’esperienza molto insolita tra gli escursionisti: infatti, tra i non molti che camminano con lo scopo di guardarsi attorno, la stragrande maggioranza direbbe che «non si vede niente, c’è il bosco», o anche «noioso come due ore di bosco» o ancora «opprimente» (testuali parole ascoltate con le mie orecchie, l’ultima riferita proprio al nostro). Nei diari delle camminate, le eventuali porzioni tra gli alberi sono liquidate con pochi accenni e molte imprecazioni, in attesa del sugo.
Il bosco è infatti un panorama di montagna privo di cime svettanti e spazi dilatati, di radure idilliache e borghi incastonati. Questa tuttavia non è una mancanza, ma piuttosto una qualità diversa, ovvero l’intimità: per tale ragione, credo che la condizione meteorologica più consona al bosco sia la nebbia, nella quale lo spazio visivo si contrae ulteriormente e la sua essenza di conseguenza si dilata.
Inoltre la decodifica del paesaggio non si presta a una lettura puramente estetica da selfie con paesaggio di sfondo, particolarmente laddove non si può praticare il culto della personalità di qualche singolo albero monumentale distinto dalla massa, ma richiede un minimo sindacale di competenza naturalistica e antropologica, per poterlo apprezzare. Entrambe sono necessarie, poiché i boschi italiani sono il prodotto dell’azione combinata della natura e dell’uomo; entrambe inoltre non sono costanti nel tempo, in quanto la prima sta mutando per effetto dei cambiamenti climatici connessi con la fine della Piccola Era Glaciale e dell’immissione antropogenica di anidride carbonica dell’atmosfera, la seconda per effetto dell’epocale mutazione delle attività agro-silvo-pastorali, conseguenti allo spopolamento della montagna. Non mancheranno esempi chiarificatori.

In principio era la parola

Il bosco dell'Alevè si trova sulle pendici meridionali del gruppo del Monviso, ai piedi del cuore del massiccio, dove i picchi di roccia sterile cedono il terreno ai verdi fianchi della Val Varaita. Nel suo cuore più antico è una grande distesa quasi monospecifica di pini cembri, Pinus cembra nella nomenclatura linneana e elvou nel dialetto locale. Una delle supposte etimologie del nome deriva appunto da questo termine, così come una lunga serie di toponimi, a cominciare da quello del vicino paese di Elva, in val Maira, ma anche delle grange dell’Oliveto nel vallone di Marmora, generato da una surreale storpiatura dei cartografi militari.
Risalendo a ritroso nel tempo, nelle carte ottocentesche il nome del bosco assume forme leggermente diverse: in quella militare contenuta nel volume di Isaia (1884), è detto “Bosco d’Elve”, dove elve è la grafia del tempo per elvou; nello stesso modo è chiamato da Quintino Sella (1863) e nella Storia della alta valle Varaita di don Allais (1891). È invece completamente diverso il nome nella Carta degli Stati Sardi di Terraferma (1854), ovvero “di Malatraccia”, per estensione dell’appellativo con cui è indicato l’attuale Chiot, dove effettivamente la tracciatura del sentiero diventa molto incerta, come spesso capita nei terreni pascolati.
In un libro sulla storia dell’esercito sardo (1845), pubblicato in francese a Torino, il bosco è citato per le operazioni che si svolsero nel corso della Guerra di Successione Austriaca, attorno al campo di battaglia principale, ora ribattezzato colle della Battagliola da quell’episodio, ed è invece detto “Bois de la Levée”. Tradotto suona “bosco dell’argine”: alcuni autori lo interpretano come un riferimento al fatto che fino al 1713 si trovava al margine orientale del Delfinato, dove perdura il toponimo della frazione Confine, ma molto più probabilmente è una storpiatura di chi parlava francese ma non occitano.
Infatti, se la settecentesca Carte des Alpes françaises del generale Bourcet e i rilievi seicenteschi di Jean de Beins, ingegnere di Enrico IV di Francia, non vengono in soccorso, perché si limitano ai paesi e alle vie di transito, è invece inequivocabile la carta più antica che ho reperito, la Figura debati castri Dalphini del 1422, che lo chiama “nemus aleveti”: la prima parte è uno dei termini latini per bosco, che nel Medioevo erano adoperati in maniera intercambiabile, il secondo è identico all’attuale.

La nicchia ecologica del cembro e un paio di interpretazioni allegoriche

Il cembro è una specie di pino adattata al clima estremo delle alte quote, dove la temperatura, la neve e il vento rendono ardua la vita e breve la stagione vegetativa. È originario della Siberia ed è arrivato alle nostre latitudini durante le glaciazioni quaternarie. Il clima estremo in cui vive determina un ciclo vegetativo alquanto lento, con anelli di accrescimento minimi e una durata di vita plurisecolare. Tempeste di vento e carichi di neve che lo sfrondano o fulmini che lo tranciano contribuiscono a un aspetto estetico fascinoso, ma nel contempo molto difficile da fotografare, poiché la forma può essere assai caotica, per il tronco e i rami tortuosi così come per i moncherini delle parti tranciate.
Su una rivista del Ministero dell’Agricoltura, un centurione della Milizia Forestale fascista ne decantò con ammirazione la tenacia e la resilienza, paragonandolo implicitamente a un soldato sempre a testa alta sotto la furia nemica.
Invece per Henry Bordeaux, scrittore tradizionalista savoiardo che al suo tempo ebbe un certo successo internazionale, tanto meritare uno sberleffo nel Tropico del Capricorno di Miller, nei medesimi anni un viale di pini cembri ai piedi del Cervino assume la funzione delle palme di Patong: infatti un vedovo e il figlio dell’alta società francese, nella loro estrema diversità entrambi puri di cuore e idealisti, vi vedono attentati il loro legame e i valori della famiglia da una strafiga d’oltremare, mobile qual piuma al vento e addirittura abbronzata, resistendo però alle lusinghe e facendo infine trionfare il Bene e l’Amore.
Invece il culto mariano, che ha assorbito i culti animisti degli alberi, non propone nessun santuario dedicato a questa specie. Non credo che ciò sia dovuto alla sua localizzazione remota, rispetto ai centri abitati, quanto piuttosto alla mancanza di un ruolo nel mondo agricolo, in quanto era relegato nelle aree selvagge, terre dei diavoli e delle loro creature come orsi e lupi. Infatti il larice, che condivide la medesima nicchia ecologica, ma ha un funzione agricola per il pascolo, ne ha invece uno, la Madonna del Lares in Trentino.

Il cembro e le sue creature

Questa conifera è poi interessante da un punto di vista ecologico, in quanto si riproduce tramite la simbiosi con un corvide, la nocciolaia, che ha un becco adatto ad aprire i robusti coni, per cibarsi dei suoi semi e ne permette involontariamente la diffusione: accumulando delle scorte che ogni tanto dimentica, rende possibile il loro trasporto su grande scala e anche in salita. Senza la sua azione sarebbe altrimenti impossibile, in quanto, a differenza di quelli di larice, con cui condivide la nicchia ecologica al limite superiore della vegetazione arborea, sono troppo pesanti per poter essere trasportati dal vento. Spesso su creste rocciose scarsamente innevate, oppure tra detrito morenico a grossi blocchi, capita di vedere cembri cresciuti negli anfratti, dove la nocciolaia aveva accumulato scorte. Questo corvide è più schivo dei suoi consimili, come i corvi reali o i gracchi, ma nel bosco gli incontri non sono rari e lo si può osservare a distanza con un buon binocolo. Molto frequenti sul terreno del bosco sono poi le pigne private dei semi dalla sua azione.
Un altro uccello che beneficia del cembro è il picchio, che fora gli esemplari infestati dagli insetti per nutrirsene: in giro per il bosco capita di vedere ceppi e tronchi di esemplari morti tutti bucherellati e il suo ticchettio è un sottofondo ricorrente.
Per quanto riguarda gli ungulati, l’alternanza tra prati e bosco fitto è un habitat ottimale per il cervo, un animale schivo, difficile da osservare da vicino, ma che al principio dell’autunno lacera il silenzio della nebbia o della notte in maniera inconfondibile con i suoi bramiti. Sono assai gravi e cupi: una signora russa che ha un bar a Frassino, mi ha raccontato una volta che soggezione le mette ascoltarli al buio da casa sua.
Il cervo, con il capriolo, è la preda prediletta del lupo: così risulta dall’analisi genetica delle sue feci. A Bertines un pastore di capre, saputo che anelavo a un tempo da lupi per le mie foto, una volta mi mise in guardia da questi predatori e mi consigliò di portare sempre con me un bastone, in caso di incontro. Per la verità, come a quasi tutti gli umani del resto, mi è capitato piuttosto di essere io una minaccia per loro, quando una sera uno cascò sulla strada pochi metri davanti all’automobile. È stato il mio unico incontro con loro, che sono pochi ed elusivi, tanto che persino dei guardiaparco che li studiano non li hanno mai incontrati da vicino.
Gli autori ottocenteschi rimarcano come la selvaggina allora scarseggiasse, perché la pressione antropica l’aveva eliminata con la caccia per integrare la dieta, ma anche semplicemente distruggendo il loro habitat, per trasformarlo in colture o pascoli per il bestiame domestico. Per contro, i primi coloni del New England furono impressionati dalla spropositata quantità di cervi e lupi che laceravano il silenzio della notte con i loro richiami, rispetto a quanto avevano potuto sperimentare nella loro terra d’origine densamente popolata.
La concezione della creatura selvaggia come minaccia è tipica dei secoli in cui l’uomo vive separato dalla natura, perché si procura il sostentamento tramite l’agricoltura. Ad esempio nelle agiografie dei santi di epoca tardoantica, in cui la civilizzazione romana era ancora predominante, sono le belve esotiche ad avere l’ordine dei carnefici di dilaniarli. Invece nell’Alto Medioevo, in cui l’uomo era più cacciatore-raccoglitore che contadino e viveva nel bosco dipendendo dal bosco per la sussistenza, le storie si concludono con la coesistenza e la condivisione delle risorse. Fu tuttavia una breve finestra, perché una volta ripresa l’espansione agricola le belve tornarono a essere raffigurate come Visitors di altri mondi e come forze ostili da soggiogare o eliminare tout-court. A differenza di oggi, tali belve erano però erano soprattutto orsi, mentre i lupi sarebbero divenuti un’ossessione a partire dal periodo carolingio.

Tra le creature dell’Alevè, meritano una citazione speciale le formiche rufe e i licheni.
Se professassi qualche forma di religione veg, non potrei certo camminare nel bosco in estate, perché a ogni passo calpesto un po' di formiche e, dopo sette ore di passi, quante vittime avrò fatto? Centinaia, migliaia, milioni. Molte più di quante acciughe potrei sterminare in una vita di gite in val Maira.
Una singola formica è millimetrica, ma in un bosco vetusto i loro caratteristici nidi di aghi possono arrivare a pesare una tonnellata per ettaro e la loro alimentazione contribuire in maniera significativa al flusso biochimico degli elementi. Insieme infatti, pur avendo a disposizione un cervello minuscolo e pochi segnali chimici per comunicare tra di loro, danno vita a un formicaio strutturato, che si comporta come un singolo superorganismo, in cui le singole formiche formano le cellule e le caste gli organi.
Quanto ai secondi, spesso non godono di buona nomea, perché ad esempio i contadini li raschiano dai tronchi degli ulivi, considerandoli alla stregua di malattie, e i rocciatori li considerano una forma di sporcizia delle pareti da attrezzare. Pur non essendo il clima particolarmente piovoso, come del resto in buona parte delle Alpi Occidentali e come posso constatare personalmente osservando l’abbondanza di ginepro nel sottobosco, un’indagine a campione degli Anni ‘90 del secolo scorso, la prima nel suo genere, ha rinvenuto una notevole biodiversità, oltre 160 specie.
Questo è indice di una buona purezza dell’aria, come confermato dalla presenza di specie particolarmente sensibili all’inquinamento e dalla prevalenza di quelli a morfologia ramificata e laminare, che lo patiscono maggiormente per l’elevata superficie esposta all’aria in rapporto al volume: la ragione per cui i licheni sono ottimi indicatori ambientali è infatti dovuta all’assenza di strutture di filtraggio alle sostanze esterne.
Di tutti questi, so a malapena riconoscere il Letharia vulpina, così chiamato perché tossico per molti mammiferi (uomo compreso) e adoperato in passato per i bocconi avvelenati. Cresce molto spesso sulle cortecce dei larici, con cui condivide la predilezione per i climi continentali, perché è così sollevato rispetto al terreno al riparo dalla coltre nevosa, che non gradisce, ed è quindi facile da identificare.

La storia dell’Alevè

Molti articoli nobilitano l’Alevè con alcune citazioni antiche, che comproverebbero che già i Romani lo conoscessero.

Un possibile riferimento è contenuto nel libro X dell'Eneide, dove Virgilio in una metafora richiama un cinghiale braccato dal morso dei cani, che il «Vesulus pinifer» protesse per molti anni. Si tratta di una citazione poetica, a cui non si può certo attribuire una precisione botanica chirurgica: alle pendici del Monviso esistono o sono esistite altre specie di pino. Ad esempio Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, in III, 20 afferma che il nome latino del Po, Padus, deriva dal nome celtico di una conifera allora diffusa attorno alla sorgente, che egli chiama picea e viene abitualmente identificata con il pino silvestre.

Una citazione ancora più incerta è attribuita invece proprio a Plinio il Vecchio da vari siti e libri, anche di quotidiani a diffusione nazionale o di enti pubblici, che si copiano a vicenda, senza però riportare il riferimento preciso. Verificando le fonti, ho scoperto che nel libro XVI, dedicato alle piante selvatiche, il dotto cita la taeda: certe sue caratteristiche collimano con quelle del pino cembro (ad esempio è indicata come miglior pianta da resina per la pece), ma scrive anche che lo diventa a causa di una malattia il larix, termine con cui traduce pure erroneamente dal greco il pino domestico e il pino laricio. Ad ogni modo manca ogni riferimento geografico preciso: si legge infatti che la taeda «si trova di rado e solo in poche zone dell'Italia subalpina» «atque rara nec nisi paucis in locis in subalpinae Italiae» (Storia naturale, XVI (22), trad. F. Lechi).
C'è poi un secondo riferimento al cembro, stavolta indiretto. Nel capitolo sugli alberi da frutto (XV, 9), il dotto latino afferma che i Taurini, popolazione insediata nella zona prealpina piemontese, utilizzano delle pigne, da loro chiamate aravicelos, cotte nel miele per ottenere un preparato contro la tosse. Plinio le ritiene di pino marittimo, una specie assente in Piemonte; tuttavia Dioscoride, medico greco vissuto al tempo di Nerone e autore di una influente opera sulle erbe medicinali, nota in ambiente latino come De materia medica, indica i pinoli della taeda insieme al miele come rimedio per la tosse e le malattie del petto, oppure le pigne fresche pestate e cotte nel passito contro la tisi (I, 76). Inoltre i glottologi ritengono che la radice prelatina e preceltica arav sia alla base del nome dialettale del cembro in alcune zone alpine tra la Savoia e il Gottardo (arola in Valle d’Aosta, ad esempio), che a sua volta genera vari nomi di località, come Airolo sulle pendici meridionali del San Gottardo. Ad ogni modo, per l’aspetto che ci interessa, neanche stavolta Plinio fa riferimento a boschi di qualsiasi sorta.
L'attribuzione pliniana compare la prima volta in un articolo uscito su Tuttoscienze, il supplemento scientifico de La Stampa, il 21 febbraio 2001, scritto da Fredo Valla, un regista che si è ripetutamente interessato alla cultura occitana. In esso però è la citazione virgiliana ad essere erroneamente attribuita a Plinio (ringrazio Roberto Labanti, uno studioso di folklore contemporaneo, per la segnalazione).

Infine fin dagli Anni Settanta del XX secolo la conoscenza dell’Alevè è attribuita anche a Strabone. In questo caso la fonte è il pregevole articolo di Pasquale Natale su CAI Monviso del maggio 1977, che ritiene di cembro le foreste da cui i Liguri traggono legname per navi, citate nel capitolo 6 del libro 4 della Geografia. Si tratta però di un errore dell’articolista, in quanto dai periodi precedenti è chiaro che Strabone si sta riferendo alle foreste nelle immediate vicinanze della costa. D’altronde il legname migliore per navi viene dai roveri, essenze di bassa quota: la loro coltivazione a beneficio della flotta genovese è perdurata fino all’Età Contemporanea, nell’Appennino ligure-piemontese. Descrivendo il regno di Cozio, si limita invece a citare la sorgente del Po e nient’altro.
Semmai, nel secondo capitolo del quinto libro, dedicato alla Gallia Cisalpina, un riferimento in qualche modo collegabile ai cembri è l’abbondanza di pece della regione, derivata dalla resina del cembro, come descritto da Plinio. Manca tuttavia qualsiasi riferimento a boschi montani di qualunque sorta.

La prima citazione certa del bosco è invece medievale, appunto la Figura debati del 1422. Grazie all’abbondanza di toponimi ivi riportati, possiamo circoscrivere il bosco fitto dell’epoca alla zona ai piedi della Roccio Russo e del Monte Reisasso, grossomodo tra il lago Bagnour e la valletta a est del Chiot, delimitata a valle dai prati dove oggi vi sono gli alpeggi di Pralambert e Fungiarda. È la zona più rocciosa, dove il detrito morenico è più grossolano e meno vegetato, e dove ancor oggi sono conservati gli alberi più vetusti. Il bosco è detto nemus, che nell’antichità designava il bosco selvaggio, non fruttifero, ma nei trattati medievali i termini latini per bosco erano adoperati come sinonimi.
Le zone immediatamente a monte di Bertines erano invece coltivate a cereali, alternati a prati e maggese, mentre tra queste e il bosco e dal Chiot verso est vi erano alpeggi, i gias (jacium in latino medievale) o i recinti per le pecore (clotus), con alberi sparsi. I fabbricati per il ricovero dei pastori e la produzione del formaggio erano in pietra, per cui il legname disponibile in loco era scarso. Purtroppo il rendiconto della costruzione del Castrum Delfini (1336) cita solo legname di larice per le travature e i solai, in quanto è più adatto alla funzioni strutturali, oltre a generici altri legnami: non possiamo sapere se all’epoca il bosco fornisse legname per il mobilio. Tuttavia nell’elenco dei tributi pagati all’erario delfinale non compare in alcun modo la legna, quindi poteva avere al massimo un impiego locale: da zone analoghe sappiamo che derivavano principalmente dai cereali e in misura minore dai prodotti d'alpeggio. In quel secolo le indagini delfinali riferiscono molto spesso il timore dei montanari per uno sfruttamento centrale delle foreste, un bene divenuto sempre più scarso con i ronchi dei secoli precedenti e da cui sono strettamente dipendenti per la sopravvivenza. Inoltre vari documenti coevi e posteriori del Marchesato di Saluzzo fanno riferimento al diritto degli abitanti di Casteldelfino di tagliare legna nel territorio di Sampeyre, concessione che fa pensare a una scarsità sul loro.
Il maggior trattato agricolo medievale, l’Opus ruralium commodorum di Pietro de’ Crescenzi, parla degli alberi nel libro quinto, ma è purtroppo interessato prevalentemente al bosco planiziale e collinare, limitandosi a fare un gran calderone impreciso dei pini (cap. 24) e delle conifere di montagna (cap. 31). Inoltre si concentra sui boschi arati e seminati, come non è certo il nostro, data la natura impervia del terreno, per cui non sappiamo quale tipo di rapporto potesse esserci nel periodo tra bosco e montanari.

Come già accennato, intorno alla metà del Settecento l’alta val Varaita, annessa da pochi decenni al Regno di Sardegna, fu coinvolta nella Guerra di Successione Austriaca, che determinò una severa devastazione dell’Alevè. Nelle estati del 1743 e del 1744, l’esercito sardo si attestò a Casteldelfino e Castello di Pontechianale, mentre i rivali gallo-ispani fecero base a Chianale. Le necessità di approvvigionamento dell’esercito sardo determinarono un elevato consumo di legna, tra l’altro anche perché il clima rigido al culmine della Piccola Era Glaciale richiedeva di tenere accesi giorno e notte fuochi per scaldarsi; il 12 ottobre 1743 gli invasori dovettero ritirarsi sotto una precoce bufera di neve che mietè centinaia di vittime. Inoltre fu necessaria moltissima legna per edificare fortificazioni: al principio del 1744 fu ricostruito il forte di Pontechianale, distrutto l’anno precedente, con «le immense fascine formate dai rami dei pini cembri fatti venire dal bosco della Levée» e fu edificato ex-novo un sistema difensivo di forti in grado di ospitare centinaia di soldati, così esteso che al termine dei lavori «si vedeva il Monviso congiunto al Pelvo di Bellino [oggi d’Elva, ndr] sia per palizzate, sia per muri, sia per fortini», come riferisce don Allais.
Anche durante il periodo napoleonico vi fu un grande consumo di legna, stavolta a livello globale; in parte fu motivato ancora una volta dalle frequenti guerre (l’arsenale di Torino ne era un vorace consumatore), in parte dal venir meno degli istituti medievali di gestione locale, non sostituiti dal controllo centrale che si prefiggeva il legislatore, che lasciò mano libera allo sfruttamento incontrollato.
A conferma di questi documenti storici, i dati dendrocronologici, ricavati dall’analisi degli anelli di accrescimento, mostrano che la quasi totalità degli alberi della zona ha al massimo 220-240 anni.

In tempi più recenti, ovvero nella prima metà dell'Ottocento, alcuni documenti fotografano una situazione non molto diversa dal tardo Medioevo, ovvero di un bosco assai più striminzito che oggi. Il Dizionario del Casalis dice che a Casteldelfino, il comune nel quale si trova la maggior parte del bosco, abbondano fieno e bestiame, mentre scarseggia il combustibile; su questo dato concorda la Statistica dell’Eandi, secondo cui vi è una qualche abbondanza di cembri a Casteldelfino, ma la scarsità di legname mette a rischio l’esistenza stessa della comunità. L’Eandi conferma le distruzioni belliche, affermando che non vi sono cembri vetusti. I Cenni del Ferrero, riferendosi in toto alla provincia di Saluzzo, accennano a generici pini, ma non parlano di legname da arredo, mentre l'elevato consumo di combustibile delle filande e delle altre attività industriali era soddisfatto da faggi e castagni, presumibilmente perché erano più vicini ai luoghi di consumo, in bassa valle; inoltre non citano per nulla la produzione di resina di cembro, all'epoca diffusa e commercializzata con il nome di balsamo carpatico.
Questa situazione è ribadita dai primi alpinisti che salirono sul Monviso nella seconda metà del secolo. Matthews si limita a notare che sull’adrech vi erano molti meno alberi che sull’ubac e poi che poco oltre la dorsale tra Villaretto, frazione di Casteldelfino, e il vallone di Vallanta trovò una foresta di pini silvestri e cembri. Più dettagliato Sella nella celebre lettera a Gastaldi sulla prima salita italiana al Monviso: salendo sempre da Villaretto, riferisce che non vi erano cembri sotto quota 1800 m, ovvero dove oggi termina il bosco puro. Un altro alpinista, Cesare Isaia, aggiunge che i cereali si spingevano fino a 1700 m, nella zona in cui oggi ci sono boschi misti di ripopolamento. Sempre da lui e da don Allais sappiamo che la zona a nord-est di Villaretto era detta Vignassa; all’epoca non vi erano più vigne (al massimo arrivavano a 1100 m, mentre la qualità era buona solo fino alla collina) e magari il nome era un ricordo antecedente il raffreddamento climatico, ma d’altronde il dispregiativo suggerisce che sin dall’origine la qualità del prodotto non doveva essere eccelsa, cosa non strana vista la quota e il clima nebbioso della valle.

Negli ultimi decenni il bosco si è espanso verso l’alto, dove gli alberi sono esclusivamente giovani e non vi sono ceppi, per cui nei secoli passati non vi erano piante. In questo singolo caso, è impossibile discernere quale causa tra la diminuzione delle attività pastorali e il riscaldamento climatico sia il fattore trainante. Sicuramente il secondo agisce, perché dove gli alberi hanno meno competizione dai vicini si osserva un aumento della crescita annuale, negli ultimi decenni, ma in un ambiente fortemente antropizzato come le Alpi anche l’effetto del pascolo più o meno intenso è presente.
Anche alle medie quote si è infittito e i cembri stanno espandendo il proprio areale in ogni direzione, tanto a spese dei larici quanto dei terreni pascolati. I vitelli da carne piemontesi continuano a essere allevati al suo interno, ma non hanno il potere decespugliatore degli ovini e dei caprini, che una volta erano le specie più diffuse in montagna.

Il cembro nell’economia umana

Lo sfruttamento economico di un bosco è un sistema assai articolato, che vede una molteplicità di interessi tirare la coperta da ogni angolo: la necessità di combustibile e materiale da costruzione domestici, i fabbisogni militari, specie della Marina (le leggi veneziane erano particolarmente draconiane), ma anche l'arsenale di Torino ne era un grande consumatore, gli impieghi minerari, promossi dai Savoia a fini bellici, la passione reale e nobiliare per la caccia, la protezione del territorio dal rischio idrogeologico, la sicurezza delle strade dai briganti annidati nei boschi, il pascolo del bestiame, i bilanci pubblici nel caso di boschi comunali o demaniali, le necessità pubbliche e le libertà dei privati. Esiste poi un contrasto di fondo tra le esigenze locali e il mercato a più vasta scala.

Nel corso dei secoli della colonizzazione delle montagne, questa conifera ha visto contrarre il proprio areale: l’analisi dei sedimenti di carbone sulle Alpi Francesi ha mostrato che la quota massima raggiunta dalla specie, prima della colonizzazione umana, era fino a quasi 400 m più elevata dell’attuale. Una prima ragione è che i pastori lo sostituirono con il larice, più adatto a permettere il pascolo sotto le sue fronde, perché ha una chioma più rada, mentre l’ombra del cembro è così profonda che nemmeno il rododendro riesce a vegetare; una seconda è che il suo tenero legno profumato si prestava a vari impieghi. A riprova di ciò, in numerose aree alpine è distribuito in maniera spezzettata, nelle aree che non era possibile convertire ad usi pastorali o troppo remote per un trasporto economicamente sostenibile. Senza andare troppo lontano, nell’adiacente vallone di Vallanta, più adatto al pascolo dell’Alevè in quanto molto meno roccioso, i larici alle quote in cui il pascolo era più intenso, intorno ai 2000 m, hanno la medesima densità dei cembri, per poi ridursi in percentuale al crescere della quota. Nello stesso Alevè è consistente il numero di ceppi in avanzato stato di decomposizione, che testimoniano il taglio in epoche passate. Con l'abbandono dell'ultimo secolo l'estensione del bosco non è sostanzialmente aumentata, perché è rimasta intorno agli 800 ettari, ma i cembri stanno conquistando aree precedentemente devolute al pascolo, dove prima vi era prato, oppure al lariceto pascolato. Il cembro lo soppianta, impedendo la rigenerazione dei larici, che sono una specie eliofila danneggiata dalla sua ombra, mentre i giovani cembri sono sciafili e possono pertanto svilupparsi. Il processo è tutt'ora in corso ed è osservabile durante questa escursione: uno studio nel vallone di Vallanta ha anche mostrato numericamente il fenomeno, perché ha rilevato che il 60% dei ceppi è di larice, mentre quasi la totalità di giovani alberi è di cembro.
Dopo aver letto i testi antichi, per prima cosa mi sono chiesto se le pratiche mediche di allora fossero perdurate nei secoli e ho perciò consultato tutti i libri sulla medicina popolare dell'Italia nord-occidentale, che sono riuscito a reperire in biblioteca, dall'Ottocento ai giorni nostri. L’impiego del miele contro la tosse è raccomandato tutt’oggi da numerosi siti di cure naturali e documentato in trattati di etnomedicina; inoltre anche i preparati industriali contengono sciroppo di glucosio. Per quanto riguarda invece il cembro, tra un'infinità di soluzioni contro la tosse, ho trovato un'unica citazione: qualche scolaro valdostano riferiva che in famiglia era consigliato il decotto di germogli e radici di cembro. Si tratta di una pratica marginale, tra un'infinità di rimedi diversi. L’uso dei pinoli per la tosse, dopo averli lasciati macerare per un mese immersi nello sciroppo di glucosio esposto al sole, è una pratica marginale in val di Sole, in Trentino. La cosa interessante è che invece l’impiego della pianta non era stato rilevato in un’indagine nel 1989 (magari la riscoperta può essere dovuta a una naturopata citata nello studio recente). D’altronde il confronto tra aree anche contigue mostra che la scelta delle specie per le pratiche erboristiche può differire anche di molto.
I pinoli sono stati impiegati anche a fini alimentari. Già nel Neolitico integravano i cereali alpini, negli insediamenti in quota delle Alpi francesi, un’usanza presente ancora in maniera marginale fino al termine della civiltà agricola alpina. Da essi si ricavava anche un olio pregiato, detto appunto olio di arolla, dal sapore delicato ma anche facile a irrancidire. La sua produzione era diffusa però soprattutto in Siberia. Ovviamente, per questa attività di raccolta, la nocciolaia diventa un rivale, perché sottrae all’uomo i semi. Una volta questi animali erano detti di rapina, perché si dava per scontato che tutte le risorse naturali appartenessero all’uomo e gli animali che ne beneficiavano violavano i suoi diritti.
Esistono poi moltissimi impieghi del legno di quest’albero, che aggiungono ulteriori ragioni alla contrazione del suo areale per l’intervento umano. Non lontano dall’Alevè, a Saint-Veran, nell’Età del Bronzo i cembri fornivano il carbone per ricavare il rame dal minerale estratto in alta quota (un impiego analogo in siderurgia era ancora diffuso nell’Ottocento). In tempi storici, Plinio ci informa che la sua resina una volta cotta forniva la pece per impermeabilizzare le imbarcazioni. Dai pezzi di legno messi in una fornace, cola un primo liquido, più fluido, che gli Egizi adoperavano per imbalsamare, come riferisce Erodoto; quindi un secondo fluido più denso forniva una resina impiegata sia anche per usi alimentari, aggiunta nel vino. Come scritto sopra, la resina rimase fino a tempi recenti un prodotto ricavato dai pini, noto commercialmente come balsamo carpatico. Il profumo di resina che si sente in estate attraversando il bosco è davvero penetrante.
Il legno è troppo tenero per essere impiegato come materiale da costruzione, per cui per la travature delle baite si preferisce il larice, come osservato a proposito del Castrum Delphini, per cui lo si limita al più al rivestimento interno (si usava nelle stube tirolesi). In compenso è molto adatto a farne mobilio, in quanto è profumato e durevole, di lenta usura e resistente alle tarme. La tenerezza e il profumo lo rendono anche ideale per l’intaglio artigiano in genere: in val Gardena, in particolare, nell’Ottocento fiorì un’industria dei prodotti intagliati in cembro, che sul finire del secolo arrivò a produrre fino a 600 t di prodotti l’anno, esaurendo del tutto la disponibilità di legname locale, che dovette essere importato da altre zone del Tirolo, per consentire il proseguimento della produzione.
Al giorno d’oggi sui siti di vendita a distanza si trovano cuscini contenenti i trucioli del cembro, scelto per il profumo, che è persistente nel tempo anche se comunque è infinitamente meno intenso di quello che si odora nei boschi a luglio, durante la massima produzione di resina, e per varie proprietà benefiche sul sonno che vengono loro attribuite. È anche molto commercializzato l’olio essenziale. Perdura l’usanza di produrre piccoli oggetti artigianali in legno, come complemento d’arredo.

Fotografare il bosco: la nebbia e il suo significato

Le foto a corredo del diario sono state quasi tutte scattate durante escursioni fotografiche in giorni in cui il bosco è avvolto dalla nebbia fitta, in cui diventa più fotogenico.
L'ideologia edonista dominante, con fede cieca nella crescita, ama solo le giornate radiose nella convinzione che più sia meglio e ciò è applicato pure alla luce. La luce crepuscolare della nebbia, scarsa in quantità, è percepita per contro come lugubre e detestabile, senza comprenderne le qualità. Eppure basta aver osservato attentamente il bosco sotto le due luci, per accorgersi che con il sole è un caos di contrasti, che non fa vedere un bel nulla. Invece la nebbia purifica la visione, eliminando gli elementi di disturbo. Mi dispiace solo che non mi sembra mai abbastanza fitta, per quanto avrò un’impressione ben diversa una volta risalito in auto.
I tipi sociali portatori di queste balzane convinzioni convenzionali amano stendersi in comitiva su un prato al sole e fare cagnara con lo stereo a tutto volume o anche solo caciara spettegolando o discutendo di attualità (spesso i due argomenti si sovrappongono). Per chi invece è introverso e disadattato come me, una volta che si è introiettato solitario nel bosco e l'ovatta umida lo isola a sufficienza, non c'è nulla di più rasserenante dell'essere racchiusi in pochi metri di mondo, soli con gli alberi, i massi erratici, il muschio e un dispositivo per trasformare in un’immagine bidimensionale asciutta tutto questo distillato di benessere.
Il processo di creazione di una foto è in parte un dono del mondo, che suggerisce al mio sguardo un'essenza, una sintesi del genius loci in un angolo specifico, in parte un lavoro mio, che cerco di capire il punto di vista più consono per esprimerla con il linguaggio del mio medium. Naturalmente provo più soddisfazione se ci riesco, però è il processo stesso, più che il risultato, a motivarmi a salire quassù, tanto che a casa non mi dispiace scartare la gran parte degli scatti. Inoltre non credo che mi piacerebbe riuscire a farne un lavoro remunerato, in parte perché in quel caso dovrei salire e scegliere i soggetti in base alle esigenze della committenza, ma soprattutto perché il mio scopo precipuo è donare senso alla vita, come solo le cose inutili alla sopravvivenza possono fare. Cose tramite le quali entro in consonanza con le mie profondità ineffabili e irrazionali, tramite corrispondenze simboliche nel mondo esterno a me, che invece la vita lavorativa e sociale, per quanto appagante e stimolante, non è in grado di portare. Credo siano le medesime che coloro che hanno bisogno di credere che esse siano un dato oggettivo chiamano con un sinonimo di dio.
Non so perché, ma non appena raggiunto lo strato di nuvole basse, in un'occasione cominciò a vorticare per la mia testa Immaginata di Enzo Maolucci. Eppure non trovo nulla di più inadeguato di quell'amore travolgente, esplicitamente violento in certe metafore, per descrivere le mie sensazioni quando sono immerso in un bosco avvolto dalla nebbia. Seppure fotografare mi elettrizzi e mi faccia dimenticare ogni altro pensiero, perché stimola molte facoltà e mi coinvolge totalmente, nonostante la tensione del tentativo di scattare buone foto mi sento piuttosto in uno stato di pace interiore, come se mi lasciassi ipnotizzare dal fuoco del camino, seduto su una poltrona con un gatto sulle ginocchia. Certo alla lunga mi affatico, anche perché non porto molti viveri per restare leggero e dedicare il maggior tempo possibile alla contemplazione, ma ogni volta mi sorprendo di quanto poco mi sento devastato a fine giro, molto meno di quanto immaginassi prima di partire.
E poi il silenzio. Ogni rumore lontano è respinto dalle goccioline in sospensione: ricordo una volta, nel Gran Bosco di Salbertrand, come non appena fui sceso al di sotto dello strato di nuvole, cominciai a sentire il rombo dei TIR e delle moto sull'autostrada, che fino a poco prima era assente. A casa, pure nella mia stanza chiusa la sera tardi, penetra il rombo dei jet diretti all'aeroporto, persino forte mentre virando puntano i propulsori verso casa mia. Nella nebbia fitta, invece, se smetto di respirare sento le gocce di rugiada ticchettare ad una ad una sul terreno, intervallate da un silenzio più intenso del buio di una notte senza luna e senza stelle, come in un vuoto interstellare, quasi da piangere per la commozione.

Curiosamente Eliade non cita dèi della nebbia, della quiete e del silenzio che la accompagnano: i fenomeni meteorologici, anche quelli benefici, sono attributi di esseri taurini e sanguigni. In un unico caso tra molte epifanie tempestose, Jahvé sul monte Oreb si manifesta a Elia come silenzio, ma pare piuttosto un espediente per mostrare con una contraddizione l’incomprensibilità del divino, e poi si palesa per ordinare un bagno di sangue. Sono figlio di nessuno, senza un qualsivoglia dio che mi vegli e protegga.

Sul legno morto e l’utile del bosco

Per qualche motivo nelle mie foto tornano poi spesso gli alberi morti a terra. I montanari non hanno una grande opinione del legno morto: definiscono “sporco” il bosco che lo contiene. Credo che questo giudizio possa essere stato generato dalle necessità materiali dell'aspra vita di montagna, dove ogni risorsa andava inclusa nella magra economia e nulla lasciato alla natura, ma vi sono anche eventi storici precisi alla sua origine.
A partire dall'Alto Medioevo, dopo il collasso del sistema agricolo romano, il bosco era una risorsa comunitaria, da cui chiunque poteva trarre prodotti per il fabbisogno familiare: ghiande, strame, foraggio per la capra domestica, legno morto da ardere, materiale edile, frutti del sottobosco. I boschi non appartenevano a nessuno o, anche quando erano di proprietà privata, questi diritti erano garantiti a prescindere. Per le fasce meno abbienti era l'unico modo di procurarsi combustibile e alimenti per la capra familiare, per le famiglie benestanti un modo di generare ulteriore reddito senza bisogno di investimenti, ma sfruttando le risorse comuni.
Fino alla Rivoluzione Francese, il controllo centrale sul territorio fu molto limitato e questo sistema di gestione locale rimase in vigore. A partire dal Settecento i boschi furono però identificati con la loro capacità di fornire legname, strategico per la nascente industria e l'accresciuto tenore di vita cittadino.
Questo portò i poteri centrali a ritenere lo sfruttamento comunitario di sussistenza come il principale responsabile del degrado dei boschi a cui si era assistito dal XVI secolo e a limitarlo per quanto possibile, a favore invece dello sfruttamento mirato a ottenere reddito dalla vendita del legname sul mercato. Il pascolo delle capre, "il flagello dei boschi, ma anche la ricchezza del povero", per citare un intendente forestale della Restaurazione, fu limitato e la raccolta di legno morto soggetta a concessione; in cambio molti boschi comuni furono lottizzati tra chi precedentemente godeva di questi diritti.

Assieme al cambio dei beneficiari, il clima culturale illuminista produsse anche una radicale trasformazione del metodo di gestione, da autogestito a centralizzato. La voce bosco dell'Encyclopédie è emblematica al riguardo, perché sottomette la foresta al controllo di un’autorità centrale onnisciente e benevolente, in grado di bilanciare ogni esigenza umana presente e futura, massimizzando l’utilità pubblica. Contemporaneamente in Germania nacque una scienza forestale matematica, che si proponeva di trasformare ogni bosco in un’ordinata macchina di produzione di legname.
In Piemonte il progetto di controllo sul territorio fu portato avanti soprattutto con due Regolamenti, nel 1822 e nel 1833, che limitavano grandemente le pratiche tradizionali autogestite, che furono trasformate in delitti. Questa rivoluzione copernicana generò non poca conflittualità anche molto violenta, sia con singoli cittadini sorpresi a trasgredire, ma anche con intere comunità, che si cementarono e trovarono un’identità comune nella difesa dei vecchi usi, fino alle rivolte generalizzate del 1848, nelle quali il disagio economico rurale si unì alle aspirazioni cittadine.
Nella mentalità montanara il bosco non sottoposto a tali usi civici è pertanto rimasto percepito come una risorsa sottratta alla comunità in favore di beneficiari lontani e connotato negativamente. Sebbene il valore del legno come combustibile sia nel frattempo crollato, il divieto di raccolta del legno morto è rimasto in vigore ancora al giorno d’oggi ed è sempre fonte di conflitti.
Inoltre i funzionari preposti alla vigilanza dei regolamenti non brillavano certo per preparazione (un istituto forestale fu istituito solo nel 1869), lealtà ed efficienza, oltre ad essere così sottopagati che la stessa amministrazione li riteneva costretti a integrare il reddito con connivenze e taglieggiamenti. Non furono pertanto un freno agli appetiti locali, che continuarono a gravare sui boschi moltiplicando così gli attori che li sfruttavano. Tutto questo nel contesto di un'espansione demografica senza precedenti, permessa dall' introduzione della patata, che rese sostenibile da un punto di vista alimentare una popolazione più numerosa, che necessitava di maggiori risorse boschive. Al termine del processo la nostra camicia nera constatava che i cembri avevano dovuto capitolare di fronte all’avidità umana e i boschi, ritenuti dal regime fascista importanti a fini militari, erano sotto scacco.

Il punto di vista della natura sull’utile è parecchio diverso rispetto a quello degli uomini: su un libro di un naturalista, ho letto che «almeno metà del contributo di un albero al tessuto della vita giunge dopo la sua morte, quindi la misura della vitalità di un ecosistema forestale è la quantità di legno morto. Ti trovi in una grande foresta se non riesci a camminare dritto senza dover scavalcare grossi rami e tronchi caduti. Un suolo sgombro è segno di cattiva salute» (David George Haskell, La foresta nascosta).
Il legno morto, decomposto in loco, è infatti uno scrigno di biodiversità, un habitat per un sacco di specie; tutti esseri che probabilmente mi farebbero ribrezzo a guardarli, ma che sono fondamentali in un ecosistema, per la fertilità del terreno, il riciclo delle sostanze nutritive contenute nel tronco e in cascata su tutti gli animali del bosco, compresi quelli instagrammabili.
L’espressione poetica di questa funzione arriva dalle parole di Pablo Neruda: «un tronco marcio: che tesoro! Funghi neri e azzurri gli han dato orecchie, rosse piante parassite lo han colmato di rubini, altre piante indolenti gli han prestato le loro barbe e dalle sue fradice viscere sbuca, veloce, una biscia, come un’emanazione, quasi che dal tronco morto fuggisse l’anima…». (Confesso che ho vissuto).

Memorie del bosco

Lasciata l'auto sul bordo della provinciale, attraverso il borgo vecchio di Casteldelfino, allungato su un ripido pendio, lungo la strada per la Francia; spicca una grande casa con loggiato. Attraverso la via principale, che corre parallela al pendio, dove un vecchio sta borbottando contro i mala tempora, mi sembra però in riferimento al tempo instabile di questo luglio fresco e piovoso, venuto dopo un inverno caldo e secco, e non alla pandemia o al turismo in crisi. Proseguo dritto in ripida salita, raggiungendo una mulattiera inerbita, con rigogliose fioriture di una campanula dai lunghi steli e dai grandi e numerosi fiori. Nel fresco bosco, tra erba grondante di rugiada, raggiungo un'edicola votiva quasi del tutto scrostata, dei cui dipinti rimane una decorazione floreale, e un recinto per le bestie.
A Bertines mi ferma un vecchio, che mi chiede della mia destinazione. Gli spiego il giro che ho in mente e lui approva entusiasta dicendo che gli piace molto. Adesso purtroppo ha le ginocchia malandate («non posso più salire sul Pelvo»), ma ricorda con commozione quando in gioventù saliva sulle cime circostanti, che mi enumera, per passione o per partecipare a feste collettive. «Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero». Mi dice poi che lì c'è dell'ottima terra, «vengono delle carote lunghe e tenere», ma quando lui era giovane la mamma non conosceva tutte queste verdure, piantava solo segale, grano saraceno, fagioli e poco altro. Credo che la fertilità sia legata al deposito morenico su cui ci troviamo, che in genere è più produttivo della terra dovuta alla disgregazione delle rocce ofiolitiche, comuni nel gruppo del Monviso. Mi racconta anche che la vita era dura: suo fratello maggiore morì di meningite a soli 16 anni. Mi mostra quindi la pietraia accanto alle case, un tipico esempio del deposito morenico su cui sorge il bosco. Mi dice che arrivò lì chissà quando: «fu una specie di diluvio universale». Anche i geologi, prima che De Charpentier raccogliesse sufficienti prove a favore dell'origine glaciale dei massi erratici, erano soliti attribuire ad alluvioni catastrofiche il trasporto dei grandi massi. O magari è memoria storica deformata di un'alluvione che, secondo il Casalis, sul finire del Quattrocento (del Trecento secondo Savi Lopez) colpì Casteldelfino, quando una frana ostruì il corso del Varaita e quindi la precaria diga cedette di schianto sotto il peso dell'acqua. Il villaggio, allora costruito alla confluenza dei due torrenti di Bellino e Chianale, sotto il castello di cui è rimasto un rudere, fu ricostruito nella posizione attuale, più riparata dalle alluvioni.

Una passeggiata nel bosco

Oltre al signore, passeggia per la via una signora molto vecchia, con passo rallentato, espressione un po' assente e foulard sulla testa. Proseguo lungo la strada, fino a intercettare la mulattiera, che taglia un tornante e costeggia una grande casa con colonne circolari intonacate e infissi blu. Le rustiche case di Serre sono nobilitate da un pilone votivo ottimamente conservato dipinto nel 1862 da Luigi Gautier, membro di una dinastia di pittori erranti saluzzesi. Oltre le case c'è un recinto per le vacche; vedrò dei vitelli di razza piemontese pascolare più avanti, presso una baita diroccata ai margini della mulattiera. Passo quindi tra prati e zone di folta vegetazione, ai piedi di una zona dove la pendenza del pendio cala. La zona doveva essere intensamente coltivata o pascolata, come dimostrano i molti mucchi da spietramento a bordo sentiero. L'acqua è abbondante per le numerose risorgive, che filtrano dove termina il deposito morenico, l'erba è molto alta e le fioriture numerose, con accompagnamento di farfalle a altri insetti colorati. Le vene d’acqua sono tutte ben regimentate nell'attraversamento di quello che non era un comune sentiero, ma una vera strada (iter publicum nella Figura debati), diretta al colle di Luca. Invece il vecchio di Bertines l’ha definita strada di san Chiaffredo, dal santo del Monviso per eccellenza, perché poi dal lato opposto prosegue verso il passo omonimo e Crissolo. Oltrepasso vari incroci con sentieri che puntano verso l'alto, lasciando l’iter che sale in traverso verso grange Cruset e la Croce di Ciampagna, molto ampio ben delimitato da muri a secco. Tra i vari edifici che incontro, Grange Auriol conserva i più curati, con un balcone di legno. Le altre, invece, pur essendo anche grandi, sono più essenziali. Da notare il termine francofono grange per alpeggio, ricordo di quando la zona era sotto il controllo del Delfinato francese, prima che il Trattato di Utrecht del 1713 la consegnasse definitivamente ai Savoia. Ancora Matthews nel 1861 annota che «a Saluzzo si parlava italiano, a Sampeyre era sostituito da piemontese con un po’ di francese e a Casteldelfino il francese appariva essere la lingua madre degli abitanti».
Oltre grange Brondu, attraverso una zona più selvaggia, con bosco e alcuni impluvi di slavina, colorati di giallo dalle ginestre, che non profumano. Prima di Croce d'Alìe, dopo una fresca faggeta c'è un impluvio scabro più incavato. Alla croce sono più o meno sul testè citato confine tra la Castellata e il ducato sabaudo: la frazione qui sotto si chiama ancora così, Confine. Sono ai margini di una zona dirupata e selvaggia, senza insediamenti umani, di cui la croce era il baluardo. Il panorama è assai ampio sia verso la bassa che l'alta valle, dal monte Ricordone con il suo Piantamento post valanga del 1885, al monte Pietralunga con le sue cruente reminiscenze belliche, passando per i grandi prati sotto Cima di Crosa e il bel borgo di Torrette sul fondovalle. A discernere gli elementi, viene in aiuto uno di quei trespoli con dei tubi puntati verso i vari luoghi notevoli, con appiccicato a ciascun tubo il nome dell'elemento osservato, inciso con la macchina da scrivere su una banda plastificata, come si usava quando ero bambino. Passa intanto un trailer con uno zainetto floscio, diretto a Ciampanesio.
Dalla croce comincia una salita piuttosto erta, dove a un certo punto la spugna dei bastoncini quasi mi scivolerà dalle mani sudate, ma comunque su sentiero quasi sempre ben marcato. Il primo tratto è su una dorsale riarsa, oggi ingentilita dalle fioriture. Più in alto cominciano i cembri. Si nota il lavoro di qualche pastore, nelle fatte di mulo lungo il sentiero, nei rami tagliati e in qualche ometto di pietre, dove la traccia si smarrisce. Poco prima di confluire sul sentiero che arriva da grange Auriol, per qualche motivo chi ha segnato il sentiero ha scelto di passare sull'unica pietraia.
A tale quadrivio prendo verso la Croce di Ciampagna, oltrepasso un trivio e proseguo nel rado bosco di cembri, fino a trovare il cartello che la indica, un poco più alta del sentiero. Per vaghe tracce tra erba, pietre e ginepri la raggiungo, restando a lungo senza risposta sulla sua origine e significato. L'attuale croce in legno porta una data degli Anni ’90, ma i giornali locali sembrano registrare notizie sulla sua posa o su ricorrenze ad essa legate. Solo quando ho consultato la Figura debati del 1422 ho scoperto che la Montanea de Champagna era un pascolo già allora e quindi la posa si perde nella notte dei tempi. Porre croci nei terreni di pascolo sottratti al bosco selvaggio e alle sue creature era una tradizione consolidata, con cui si segnava il passaggio simbolico della zona sotto l'egida della civiltà. Il portamento degli alberi, che si sviluppano a tronco di cono, grazie al fatto che possono ricevere luce anche in basso, conferma che qui il bosco è giovane. Gli alberi delle zone sempre rimaste boschive, che incontrerò più avanti, dove invece in basso gli alberi sono prive di rami, per la densità di popolazione, che impedisce l'irraggiamento nelle zone inferiori. Da notare poi l’appellativo montagna riservato a un declivio del piano montano anziché a una cima: per i locali la montagna era questa e finiva qui. Già le inchieste delfinali del XIII secolo avevano chiaramente mostrato che lo spazio geografico dei montanari era contrassegnato dai marchi antropici sul paesaggio, come ponti o alpi e non da quelli naturali, che apparivano indefiniti. Penso sia per tale ragione che né nell'Alevè, un territorio selvaggio, né nei dintorni non vi sia nessun culto legato agli alberi, nonostante il loro ruolo fondamentale per l'esistenza della comunità, a differenza di quanto capita in bassa valle con la Madonna della Betulla, posta invece nella zona dei coltivi estivi.
Ancora Matthews racconta un episodio tanto indicativo quanto gustoso: un «nativo» gli riferì che conosceva una guida che aveva portato a termine l’ascensione del Monviso, intendendo tuttavia che ne era arrivato alla base. Quando costoro scoprirono che l’inglese voleva raggiungere la cima, proruppero in un «coro di impossibile, inaccessibile, precipizi spaventosi, follia e morte», per quanto ammettessero che i cacciatori si inoltravano tra quelle pietraie.
Credo sia questa una delle ragioni per cui i montanari odierni connotano negativamente la naturalizzazione, che ha interessato negli ultimi decenni la montagna precedentemente antropizzata, e che per contro attrae gli escursionisti metropolitani come me in cerca di natura, ovvero che i loro punti di riferimento vengono meno, come quando un cittadino si intristisce e preoccupa alla chiusura delle attività commerciali e dei centri di aggregazione nel suo quartiere.
Scendo quindi al trivio a pranzare, perché sono ormai le 13.30.

Mentre sono immerso nel dolce far niente, sento una marmotta fischiare in lontananza. Mi volto e vedo un'aquila reale spiraleggiare sopra di me: la identificherò a casa con l'opuscolo di Airone; non sperando in tanto non ho con me quello sulle aquile. Sono facili da discernere dai falchi, perché sulla punta delle ali le piume formano come delle dita. Non faccio in tempo a prendere il binocolo, ma il rapace mi passa poco sopra e lo vedo lo stesso molto bene. Rapida com'è arrivata, altrettanto istantaneamente planando si dilegua oltre il pendio.
Quando mi rimetto in marcia, sono moderatamente in apprensione: per tutta la pausa ho udito dei campanelli da pecora o capra tintinnare poco distante. Qui il pendio è molto morbido e il bosco rado, per cui c'è ampia possibilità di girare al largo, ma spero comunque di non fare spiacevoli incontri maremmano-abruzzesi. Per fortuna la mandria si rivela essere di vitelli di razza piemontese. Mentre cerco di seguire le vaghe tracce che si disperdono, facendo attenzione a non smarrire la corretta, mi dirigo verso tre vitelli. I due più grandi mi puntano fissandomi, mentre il più piccolo resta alle spalle. Come ho sentito spiegare da un veterinario a una conferenza, si tratta di una configurazione di difesa che questa razza assume in presenza di minacce. Questa attitudine alla vita rustica consente loro di cavarsela egregiamente contro la minaccia dei lupi, senza bisogno di supporto. Per buona norma giro al largo e ritrovo una tacca più avanti.
Sono nel pieno del bosco dell'Alevè. Ciò che lo contraddistingue e che mi porterò come ricordo a casa, è senza dubbio alcuno l'intenso profumo di resina dei pini. Mi entra a satura le insensibili narici. Se fosse agosto, ci sarebbe anche il sapore dei mirtilli, ma è troppo presto. Ci sono poi dei sommessi canti dei passeriformi. Avevo portato il binocolo e le guide per il riconoscimento, non avendo ancora l'app magica della Cornell University che li riconosce dal canto, ma non sono domestici come sperato. Disturbo anche un paio di nocciolaie intente ad alimentarsi delle pigne. Numerose mosche mi ronzano intorno, ma come già raccontato, sono soprattutto le formiche rufe e i loro nidi ad attirare la mia attenzione
Quanto alla sfera visiva, almeno sotto l'aspetto fotografico, il bosco non è l'ambiente più amichevole. È affascinante, avvolgente, ma estrarne un'immagine soddisfacente è davvero un'impresa. Ci riesco quasi solo nella nebbia fitta, per cui tornerò a corredare il racconto di foto adeguate nel corso di due autunni, sia su questo percorso che su altri sentieri del bosco. Ogni tanto c'è qualche esemplare notevole, ma una foto non renderebbe l'effetto immersivo, non separabile dalla visione del singolo albero. Adesso poi c'è una luce pessima, perché il cielo è biancastro a causa di velature. Nel cuore del bosco, l'uniformità arborea è rotta solo sporadicamente da rari sorbi e qualche larice.

Incontri nel bosco

Raggiungo pian del Chiot, chiaramente un pleonasma introdotto da qualche cartografo che non parlava occitano, perché chiot vuol dire appunto pianoro. Nella Figura debati era una zona di pascolo, detta Clotus Magna Lapis, ovvero Piano (o recinto) Pietra Grande, a indicare qualche grande masso erratico, che però non scorgo. Nella carta degli Stati Sardi era detto piano di Malatraccia e apparentemente non c'era bosco. In effetti qui i cembri sono giovani, coevi e di forma tronco-conica, perché sono liberi di espandersi in ogni direzione per l’assenza di concorrenti. Il vecchio mi hai poi detto che qui c'erano due tampe (buche) da lupo, di cui quando era giovane già si era persa la funzione, essendosi estinti da tempo, ma era rimasto il ricordo. Cerco di fare attenzione e mi sembra di individuarne una, una fossa irta di pietre appuntite, sempre che non sia terreno morenico affiorante. Dal piano vedo anche comparire il Chersogno nel vallone di Elva.
Le grange di Pralambert soprano sono raggiunte con una discesa generalmente graduale, con qualche tratto panoramico nell'attraversamento delle frequenti ed estese pietraie, in mezzo a cui vedo i cembri cresciuti nei nascondigli della nocciolaia. È questa la zona di bosco più antico, il nemus, dove scatterò la maggior parte delle foto nei giorni propizi, per via della maggior maturità e naturalità del bosco, oltre che per l’irregolarità delle geometrie, molto più frattali che euclidee. Già da prima di pian del Chiot, su queste era evidente come il sentiero avesse una costruzione accurata e antica, per come erano ancora ben livellate, nonostante in tutti questi decenni di abbandono la natura stia cominciando a riprendersi gli spazi.
Nell'ultimo tratto, una zona in piano di bosco fitto, la traccia tende a scomparire, ma le tacche aumentano e compensano. Nei giorni di nebbia, qui cervi sono fuggiti al mio sopraggiungere, prima che potessi scorgerli e ne ho udito molti richiami.

Pralambert Soprano è costituito da un piccolo e semplice edificio, con una catasta di legna ammucchiata accanto a un ingresso. Segue poi una silenziosa salita a passo rallentato, tra massi e fitto bosco maturo, sotto una luce divenuta tagliente, per l'uscita del sole dalle velature. Al lago Secco gracchianti corvi volteggiano sulla rupe che lo sovrasta.
Arrivo al lago Bagnour in anticipo sui vaghi piani e temevo di trovarci ancora troppi bagnanti: ci sono invece due sole ragazze. Il nome evoca la sua funzione passata, ovvero di riserva d’acqua per irrigare i prati, che a bassa quota erano intercalati alle coltivazioni, fin dal Medioevo. Oggi invece per la siccità, il lago già di per sé quasi al termine del processo di interramento è ridotto a meandri tra bracci di terra avanzante, è ancora più striminzito del solito. Tuttavia c'è chi apprezza: il Brachipus blanchardi, un minuscolo crostaceo di un centimetro che nuota a dorso, ha infatti bisogno dei periodi secchi per completare il proprio ciclo riproduttivo. I gestori del rifugio si stanno rilassando attorno a un tavolo. Chiedo un tè e una torta al cioccolato, che nella sua rivoltante dolcezza ha una sua ragione perversa. Socializzo intanto con il pastore australiano di una loro amica, che lo richiama severamente quando allunga il muso verso la torta. Arriva poi una famiglia con una figlia piccola, che trascorrerà la notte qui. Prima di lasciare il lago, voglio soddisfare una mia vecchia fantasia di una foto con il Pelvo. La visuale effettivamente esiste, ma lo scatto è un disastro. Poco più a monte, all'imbocco del sentiero per il vallone del Duc, c'è poi un cembro monumentale: questi alberi possono essere molto longevi, ma la strage bellica, che falcidiò alberi e umani, ne ha lasciati davvero pochi di storici.
Scendo per un tratto in direzione della diga di Castello, su sentiero molto battuto, la via più breve di accesso al rifugio. Al primo bivio, prendo a sinistra un sentiero, inizialmente in quota e poi in lieve discesa, dapprima non molto marcato, poi evidente, che attraversa quella che mi sembra la zona di bosco esteticamente più bella vista finora. Magari è solo la luce che sta divenendo serale, perché con la nebbia anche la salita al lago mi parrà affascinante. Ad ogni modo, anche qui le foto sono fallimentari. Il sentiero sbuca poco a monte di Pralambert soprano, da cui scendo al sottano passando in un ampio passaggio tra due muri a secco. In questa zona ci sono grandi larici e cembri più piccoli: evidentemente i malgari avevano trasformato la zona in lariceto, più adatto al pascolo arborato, ma ora la natura si sta riappropriando degli spazi.
Pralambert sottano, pur in rovina, è un bel posto con ottima vista. Su un camino sopravvive il masso appuntito anti-masche. Prima di arrivarci vedo di lontano una nocciolaia su un ramo. Tento di avvicinarmi ancora un po' prima di estrarre il binocolo, ma è un errore fatale, perché lei svolazza via.
Da qui parte un ripido sentiero lastricato, che era adoperato per il trasporto del fieno sulle lese, le slitte da sentiero. A febbraio-marzo, quando terminava il fieno a Bertines, gli abitanti venivano qui a prendere le balle accumulate durante l'estate. Il vecchio mi aveva raccontato che, quando aveva quindici anni, sotto il peso della balla da 120-130 kg, troppo per lui, un ginocchio gli si era piegato al contrario. Mi fa male solo a sentire il racconto, chissà a lui. Certo poi non era andato a farsi un'ecografia o una risonanza, ma cammina ancora. Lo rivedrò negli anni successivi, transitando in auto per i giri fotografici, intento a lavorare. Ad un certo punto, lungo la discesa incontro un grosso masso adoperato come sosta.
Anche qui, come a Pralambert, i cembri stanno conquistando i vecchi appezzamenti coltivati. Scendo tra noccioleti d'invasione, il primo stadio della ricolonizzazione, incrocio un signore in sandali, costeggio la pietraia del diluvio, un bunker in cemento armato e sono a Bertines, poco dopo che il campanile ha suonato le 18. Mi fermo a una fonte a mangiare un frutto e bere. Davanti a casa c'è un signore che era nel medesimo posto stamattina, mentre il vecchio non è in giro. Peccato, mi sarebbe piaciuto raccontargli le mie impressioni. C’è poi una piccola colonia felina.
Ripercorro la mulattiera nel fresco bosco e arrivo a Casteldelfino, mentre da un bar si sente arrivare dell'intrattenimento musicale. Per ora non c'è quasi nessuno, ma i proprietari stanno facendo grandi traslochi di panche a altri arredi in vista della serata. Si sente, tra l'altro, “Staying alive”, molto più scoppiettante della monocorde musica occitana: «ah, ah, ah, ah!».

Per approfondire

M. Agnoletti, Atlante dei boschi italiani, Bari 2022
C. Allais, Storia della alta valle Varaita. La castellata, Saluzzo 1891
Piante legnose che hanno maggior importanza nella cultura silvana in Italia, Nuova Rivista Forestale pubblicata per cura dei professori dell'Istituto Forestale di Vallombrosa, Anno VI 1883
B. Andreoli - M. Montanari [a cura di], Il bosco nel Medioevo, Bologna 1988
V. Bertoldi, Relitti prelatini comuni alle Alpi e ai Carpazi, Archivio Glottologico Italiano 1930
M. Bianco, Il bosco dell'Alevé, Saluzzo 2020
D. Bobba, Boschi, comunità, stato. Piemonte 1798-1861, Torino 2015
F. Brevini, L'invenzione della natura selvaggia, Torino 2013
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
Vicomte Paul de Chaulot - Gabriel Ferrero, Histoire de l'armée sarde, Torino 1845
Piero de' Crescenzi, Trattato della agricoltura traslato nella lingua fiorentina rivisto dallo 'Nferigno accademico della Crusca, Milano 1805
Provincia di Cuneo - Assessorato Tutela Ambiente, I licheni dei boschi dell'Alevè e delle Navette, Cuneo 1995
L. Dematteis, Case contadine nelle Valli Occitane in Italia, Ivrea 1983
Dioscoride, Della materia medica, Firenze 1147
H. Falque-Vert, Les hommes et la montagne en Dauphiné au XIIIe siecle, Grenoble 1997
D.G. Haskell, La foresta nascosta, Torino 2014
C. Isaia, Al Monviso per val di Po e val di Varaita. Reminiscenze alpine, Torino 1874
W. Matthews, Ascent of Mont Viso, Peaks, passes and glaciers vol II London 1862
R. Motta - P. Nola, Growth trends and dynamics in sub-alpine forest stands in the Varaita Valley (Piedmont, Italy) and their relationships with human activities and global change, Journal of Vegetation Science 12: 219-230, 2001
G. Plinio Secondo, Storia naturale, Torino 1984
H. Reisigl - R. Keller, Guida al bosco di montagna, Bologna 1995
M. Savi Lopez, Leggende delle Alpi, Torino 1889
Q. Sella, Una salita al Monviso, Bollettino del Club Alpino Italiano, vol VI n. 20 1873
Strabone, Della geografia di Strabone libri XVII volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Milano 1832

Galleria fotografica

Ai margini del bosco: presso Castello
Ai margini del bosco: presso Castello
Ai margini del bosco:
Ai margini del bosco:
Ai margini del bosco: Alboin
Ai margini del bosco: Alboin
Ai margini del bosco:
Ai margini del bosco:
Ai margini del bosco: Serre di Bertines
Ai margini del bosco: Serre di Bertines
Ai margini del bosco: noccioleto
Ai margini del bosco: noccioleto
Ai margini del bosco: Pelvo d
Ai margini del bosco: Pelvo d'Elva
Ai margini del bosco: Pelvo d
Ai margini del bosco: Pelvo d'Elva
La presenza umana: Pralambert sottano
La presenza umana: Pralambert sottano
La presenza umana: croce di Ciampagna
La presenza umana: croce di Ciampagna
La presenza umana: Pralambert sottano
La presenza umana: Pralambert sottano
La presenza umana: Pralambert soprano
La presenza umana: Pralambert soprano
La presenza umana: pascolo al Chiot
La presenza umana: pascolo al Chiot
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Ritratti di cembri
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Detrito morenico
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Il nemus
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Legno morto
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Dettagli del bosco
Lago Secco
Lago Secco

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Sergio Chiappino

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