Una passeggiata in un giorno di pioggia


«Comincerò col dire, dei giorni e degli anni della mia infanzia, che il mio unico personaggio indimenticabile fu la pioggia»
Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, Torino 1998 (trad. L. Lamberti)

Cara F.,

ultimamente non sto facendo molte escursioni in montagna, perché la primavera è assai piovosa. Tuttavia nella domenica di aprile seguita alla Pasqua sono riuscito a fare una passeggiata indimenticabile, proprio grazie al “maltempo”, come lo definisce la Weltanschau da picnic. Avevo voglia di camminare un po' sotto la pioggia, di sentire il ticchettio delle gocce sul capo, di vedere il fiato che si condensa sugli occhiali, quando la testa se ne sta infrattata nel cappuccio, di lasciar fluire i miei pensieri introversi, perché era da un po' che non lo facevo. Ho preso l'ultima vera lavata un anno e mezzo fa. Ricordo ancora quel bivacco appenninico che ci aveva offerto riparo: sembrava un campo profughi, con il gruppone ammassato dentro e le giacche stese ad asciugare. Come dimenticare poi quel bar senza riscaldamento, dove a fine gita abbiamo battuto i denti? E i pantaloni, che premuti dalle ginocchia sprigionavano la schiuma del detersivo, rimasto tra le fibre nonostante i risciacqui e la centrifuga? Dalle mie parti le giornate piovose sono molto rare. Quest'inverno c'è stata una lunga siccità, che ha causato anche problemi di approvvigionamento idrico ed è cessata solo la settimana prima della mia gita. Molta gente, tuttavia, dopo un giorno di pioggia già non ne può più. Anche se qui la primavera è la stagione dell'anno con più precipitazioni, costoro ritengono che in un mondo pristino il sole dovrebbe splendere senza interruzione da aprile a settembre. Chiamano autunnali o invernali queste giornate benedette, anche se qui da novembre a febbraio c'è spesso alta pressione, ed elaborano fantasiose teorie sul perché si ostina a piovere ogni tanto.
Così sono andato in una zona vicino a casa, al colle Braida, sulla dorsale tra la val Sangone e la valle di Susa, con l'intenzione di raggiungere la chiesa del colle Bione, sempre lungo la dorsale, ma più a monte. Ho scelto quella meta perché ha un porticato dove mi sarei potuto fermare un poco all'asciutto.

Naturalmente il parcheggio del colle è vuoto. Nel riparo dell'abitacolo indosso la giacca impermeabile e i pantavento. Gita leggera e libera, senza zaino né macchina fotografica [le foto risalgono a una gita con ciaspole nello stesso posto due anni dopo, n.d.A.], solo un pile alla cintura per quando sarò fermo e un pacchetto di biscotti in una tasca.
Sono curioso di rivedere com'è il bosco mentre piove. Dell'ultima pioggia autunnale, ricordo le foglie di castagno lucide e coriacee, che formavano una coltre compatta sul terreno, a protezione dal fango sottostante. Col sole sono i chiaroscuri del terreno, le foglie traslucide nel controluce che attirano la mia attenzione. In luce diffusa tutto è quieto. Col vento le foglie mormorano. Con la pioggia, la prima cosa che colpisce è il colore delle foglie di faggio cadute l'autunno scorso, un amaranto brillante.
La chiesa è a 1400 m, proprio la quota dove, secondo il bollettino meteo, la pioggia dovrebbe trasformarsi in neve. Invece, con mia grande sorpresa, mezz'ora dopo la partenza alle gocce si mischiano i primi fiocchi e sulle pietre in mezzo alla sterrata si formano mucchietti candidi, come zuccotti di zucchero. Poi la pioggia scende sempre più lenta e leggera e i fiocchi sono sempre più fitti, finché mi trovo in mezzo ad un paesaggio da fiaba: dal cielo cadono fiocchi, neri se alzo lo sguardo al cielo, bianchi contro gli abeti, i cui rami sono carichi di neve.
Dietro sento uno sciaf-sciaf di passi. Mi volto e mi superano tre persone in tenuta da corsa, scarpette, tuta e K-Way, più matti di me. Mi attraversa poi la strada un capriolo. Nel silenzio più assoluto sbuca dal bosco 50 metri di fronte a me, si ferma un attimo e corre via dall'altra parte. La pioggia ha la voce sussurrata delle gocce che rimbalzano sul terreno e sulle foglie morte, creando un mormorio attutito dall'ovatta del cappuccio. Invece il suono della neve è il silenzio. Nei giorni di bel tempo, da qui si sente distinto il treno che corre sul fondovalle. Oggi non c'è rumore di sorta: non odo neppure i miei passi.
Dove finisce la strada c'è la possibilità di andare a mezza costa o superare un dosso, restando sulla dorsale. Scelgo la seconda opzione. Cammino ormai in 10-15 cm di neve fresca, cercando di non perdere il sentiero, che è a malapena visibile, come piccolo incavo sempre più impercettibile nella distesa bianca. Ben presto mi trovo su terreno aperto, tra radi alberi. Improvvisamente scorgo poco sotto di me quattro cervi, un maschio con due femmine e un cucciolo. Stanno risalendo il pendio, credo per svalicare in valle di Susa e andarsi a rifugiare e a nutrire nei boschi di questa zona, che offrono loro protezione fino a bassa quota, dove non c'è neve. Mi acquatto dietro un albero, per non intralciarli. La mia giacca rossa è ben visibile a un umano, ma non so come vedano i colori loro. Senza che si senta alcun suono, neanche il fruscio delle sedici zampe che fendono la neve, arrivano sulla dorsale, a breve distanza da me; apparentemente senza scorgermi, mi passano davanti e scompaiono nei boschi. Incrocio la loro scia con la mia e proseguo fino alla chiesa. Lì trovo una coppia di sessantenni con due cagnette, che sono venuti in auto fin dove finisce la strada e poi hanno seguito la via a mezza costa. La cagnetta nera mi abbaia minacciosa, salvo poi farmi gli occhioni quando tiro fuori il pacchetto di biscotti, il mio pranzo. L'altra, che è cucciola, se ne sta ancora tremante al calduccio nella giacca della padrona. Sulla staccionata al margine del pianoro ci sono più di venti centimetri di neve appena caduta.

Indosso il pile e mi fermo finché la mia temperatura non scende sotto il sopportabile. Il ritorno è più banale, perché, con la temperatura più alta del pomeriggio, la neve cade bagnata e i rami perdono il loro carico bianco. In una radura, dove finisce una pista sterrata, trovo le tracce di alcuni fuoristrada, che sono andati su per il pendio spoglio. Più sotto mi raggiungono e mi superano deliziando il mio naso con i loro effluvi di gasolio. Sono venuti anche loro a godersi la neve, ma senza inzupparsi e senza infreddolirsi, senza sprofondarvi e senza toccarla, guardandola dal finestrino come alla TV. Anche la passeggiata per digerire la fanno sul sedile.

Al colle Braida mi cambio a fatica le scarpe, perché le mani inzuppate e intirizzite mi stanno abbandonando. Decido che è meglio recuperarne l'uso, prima di mettermi al volante. Vado nel bar ristorante senza clienti. Cerco invano un attaccapanni a cui appendere la giacca che cola acqua. Parlando di una zia missionaria in Giappone, la proprietaria e la cameriera mi servono un caffè americano, che ho ordinato per avere tanta acqua bollente da far fluire nel sangue. Con quello che mi resta delle mani tento con successo di afferrare una meliga e di inzupparla. Prima di uscire faccio un giro al bagno, dove posso finalmente ammirami allo specchio: faccia rossa per il freddo e la camminata, capelli strizzabili. Mi accorgo che ho ancora indosso il cappellino con visiera che proteggeva gli occhiali dalla pioggia. Le due signore sono state gentili a non spaventarsi quando sono entrato.

Faggio
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Betulle
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Colle Bione
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Betulle
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Sergio Chiappino

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