Dentro una notte di primavera
Gardetta, val Pellice
Ma mi seguiresti dentro una notte di primavera, così fredda che persino giù nella bassa il riso ha bisogno di una coperta? Solo ora lo sai: se avessi potuto scegliere all'ultimo di tagliare l'indomani per una follia, avresti evitato ancora per un giorno la certezza del futuro traballante. Temo tuttavia sarebbe stato l’unico ed effimero profitto concreto, perché di materiale ti posso ammannire unicamente brividi di freddo e calzini fradici di rugiada: la ricompensa dell’insonnia è piuttosto abbandonarsi alle vigili visioni notturne.
Il cellulare mi desta perciò senza consonanze dal sonno ancora giovane e privo di sogni. A Ciarmis mi accompagnano subito due ali di canini e latrati fendenti come sciabole, prima del silenzio dei miei passi nel bosco e dei fischi dei rapaci notturni. È una lunga, meditabonda e quieta passeggiata lunare senza lumi di fuochi fatui, nel freddo sempre più penetrante e nell’ovattato panorama antracite sempre più argenteo, a mano a mano che il bosco si dirada.
In die Traum- und Zaubersphäre
Sind wir, scheint es, eingegangen.
Fuhr uns gut und macht dir Ehre
Daß wir vorwärts bald gelangen
In den weiten, öden Räumen!
Alle sfere di sogni e magie
siamo noi, così pare, venuti
Tu guidaci bene. Ti sia
onore che presto si vada più innanzi
noi, nelle solitudini.
J. W. von Goethe, Faust - Parte I. Notte di Valpurga (vv. 3871-3875) (trad. F. Fortini)
Tutto è come mi aspettavo, senza allarmi né sorprese: la notte limpida con appena un velo di foschia, le percezioni malferme, il canto del riposo tumultuoso della natura, le cime imbiancate e le pendici scure, le luci sparpagliate delle frazioni e il bagliore della pianura, le rustiche baite di sassi accanto ai frassini imponenti nel prato gibboso. La luna piena pasquale ancora ingobbita plana senza fretta verso il Bucie; mi lascia tutto il tempo di distendermi e contorcermi in una danza sgraziata sul prato e sullo spuntone: sono il mio cromlech, dove afferro l’essenza delle eteree luci notturne, che sono salito a contemplare.
Io fermo nel prato, tutto ruota attorno a me: ruotano le stelle e le ombre lunari, fino a che Venere fora la foschia e annuncia l’alba. Culetti bianchi devono rinunciare bramendo stizziti all’erba risuscitata, per la mia molesta presenza, e il canto delle cince si leva fino a sovrastare lo scroscio dei torrenti che precipitano tra i torrioni. La luce rosa tocca per prima la calotta della Meidassa e scende lentamente sulla piramide del Frioland, finché d’improvviso i raggi contornano lo sperone del Castelluzzo e arrivano qui.









That’s all folks: gli ultimi sguardi alla fugace luce dorata che affonda nella valle, altri quattro passi tra faggi e castagni, gli alberi da frutto fioriti. Per ultima la cerimonia italiana del cappuccino al sole del mattino, tra le fusa della gattina di Jervis e l’orgoglio di una femminista alpestre, chiude la giornata anziché aprirla, come ha fatto lo stesso astro abbagliante.

