L'eremo perduto di Vercio 830 m
Val d'Ossola
1 maggio
In un baleno
Ascensione serale a un poggio panoramico sul lago Maggiore, dove a fino a pochi anni fa visse un prete eremita che lo modellò a immagine di ciò che cercava

Diario di viaggio
I’m on the outside looking inside
What do I see?
Much confusion, disillusion
All around me
I talk to the wind
My words are all carried away
I talk to the wind
The wind does not hear, the wind cannot hear
Sono fuori guardando dentro
Cosa vedo?
Molta confusione, disllusione
tutto attorno a me
Parlo al vento
le mie parole sono portate via
Parlo al vento
il vento non sente, non può sentire
P. Sinfield, I talk to the wind, tratto da In court of the Crimson King
Temevo di trasformarla in vaina, guaito di sofferenza cosmica e messaggera di divorzio, quando per questo pomeriggio l’oracolo celeste vaticinava aria alla brace. Invece lei risale piano piano, centellinando lo sforzo e il patimento senza squagliarsi, dopo che nel viaggio di andata in auto ha riversato l’angoscia covata da giorni, per l’orrore delle genti normali tra cui costruiremo il nostro futuro. Ad ogni modo, riusciremo a godere sollevati da terra lo spirito romantico e mistico della meta.
A Mergozzo le auto non hanno riempito solo i parcheggi predisposti, ma si sono pure estese a ogni spiazzo dei dintorni, come tronchi scaraventati da uno tsunami incontrollabile. Temo pertanto di incrociare frotte di escursionisti in verso opposto, quando invece riusciamo a trovare l’ultimo anfratto nel minuscolo parcheggio di Bracchio e da monte non scende che una manciata di famiglie con figli in età scolare. Salutati un paio di gatti affettuosi, transitiamo dapprima di fronte alla chiesetta con tipico porticato fatto con il granito locale, dove don Pietro Udini, l’eremita di Vercio, celebrò la prima messa dopo l’ordinazione, quindi da un pilone dove è raffigurata una Madonna con un taglio nella fronte da cui sprizza sangue: è appunto la Madonna del Sangue di Re in val Vigezzo, la versione cattolica delle effigi divine che si animano e interagiscono con il nostro mondo mortale e transeunte, diffuse in tutti i tempi e tra tutte le religioni.
Dai vicoli della frazione imbocchiamo la spettacolare ma ripida mulattiera, lastricata tra il 1909 e il 1914 grazie a donazioni di villeggianti e benestanti di Bracchio. Per la verità dal lontano passaggio del 2009 la ricordavo liscia come un biliardo, mentre ora noto le sue scabrosità: mi sorprendo così meno della difficoltà incontrate dalla mamma cittadina, quando la dovette discendere. Tuttavia il caldo del pendio assolato è reso sopportabile dal manto di querce e castagni.
Facciamo una lunga sosta poco oltre metà salita, in un punto in cui un’apertura nel bosco, marcata da un’edicola votiva, consente la prima visuale sui laghi di Mergozzo, Maggiore e uno spicchietto d’Orta, oltre che sui versanti settentrionali di Montorfano e Mottarone. Ci sarebbe poi il bitorzoluto versante a franapoggio del Massone, che non passa certo inosservato per la mole imponente e massiccia, ma resterà illeggibile in ombra per tutta la serata, per cui lo ignorerò. Il dipinto stavolta non ha varcato secoli e raffigura la medesima vergine mediorientale di prima con fattezze da modella vichinga e un bambino ancor più femmineo di lei.
Nel bosco udiamo dai rami un misterioso cra cra diverso da quello dei corvi. Attivo l’app-osita per decifrarlo, ma da principio l’intensità è troppo flebile, quindi passa sulle nostre teste il ronzio di un aereo da turismo che lo sovrasta. Azzarderà fagiano la sfrontata, ciccando clamorosamente. Nel frattempo volteggia un corvo e superfluo lo identifica senza fallo.
Il primo edificio dell’alpeggio è un caseggiato intonacato con panni stesi e bosco diradato per offrire il panorama sulla valle verso il lago d’Orta, ora ben più ampio. Sul dosso dell’alpe troviamo baite di pietra in stile ossolano, prati ben rasati e una fioritura di azalee ancora non esplosa del tutto; rispetto a 15 anni fa i cespugli sono più grandi.
L’eremo di Vercio fu una creatura di don Pietro Udini, sacerdote di Bracchio e parroco di Oltrefiume di Baveno. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ricostruì la baite, che erano state distrutte da un bombardamento anti-insurrezionale dei tedeschi, in vista di un’operazione di terra nella contigua Valgrande. Il terreno gli era stato donato dal vecchio proprietario, il medico bracchiese emigrato a Torino Mario Peretti. Già da tempo l’alpe, oltre che luogo di monticazione estiva del bestiame dei locali, ne era pure il centro aggregativo: in aggiunta alla patronale della chiesetta, che scampò al bombardamento, nei primi anni del Novecento si festeggiavano gli emigranti stagionali prima della partenza, a fine inverno.
Don Udini fondò una colonia estiva, attiva per due decenni e destinata ad adolescenti locali e urbani marginalizzati dai nuovi modelli sociali, per offrire loro istruzione, ma soprattutto un rifugio morale e fisico, in ossequio alla consolidata convinzione della vita cittadina come causa di degrado. È molto viva nella zona dei laghi prealpini, dove la cultura romantica costruì un florido immaginario fatto di ritiri per esuli delle ciminiere nordiche e comunità utopistiche. Per la verità, gli adolescenti contemporanei francamente se ne infischiano e sono abbastanza creativi da intessere relazioni nei corridoi senza cielo e senza stagioni dei centri commerciali e rielaborare criticamente contesti cementificati, eleggendoli a terreno di gioco per attività fisiche come lo skateboard o il parkour.
Con l’insorgere di problemi di salute, don Udini interruppe l’attività delle colonie e rimase ad abitare a Vercio in eremitaggio, fin quasi al termine della sua vita, conclusa nel 2017 dopo settant’anni di sacerdozio. Con l’aiuto di molti volontari, felici di aiutarlo in quanto vedevano nella sua esperienza una guida verso il divino, imbastì molti lavori di cura quali la piantumazione di alberi (le foto della colonia mostrano un ambiente più spoglio) e dei cespugli di azalee per cui oggi Vercio è famoso. Il toponimo per contro pare derivare da un termine antico per querce: perkwus è il termine indoeuropeo ipotizzato, mentre nei dialetti odierni del lago Maggiore e Ossola si adoperano parole diverse, quali ru o analoghe, comuni ad altre zone pedemontane piemontesi. Poco più sopra lasciano spazio ai faggi, che a loro volta danno il nome alla cima soprastante, il Faiè.
Dal punto di vista teologico, don Udini si interessò soprattutto al pensiero del cardinale britannico John Henry Newman (1801-1890), anglicano convertito al cattolicesimo, considerato un padre nobile del Concilio Vaticano II. Fu uno strenuo oppositore del processo di secolarizzazione dei valori e del patto sociale allora in corso nel suo Paese e all’applicazione di metodi secolari nello studio della religione, che voleva restasse su un piedistallo inaccessibile e inattaccabile, come il forte dello Chaberton. Il suo pensiero è molto affine a quello di Joseph Ratzinger, che infatti lo beatificò durante il suo pontificato e scrisse un libro su Gesù rifiutando per principio ogni acquisizione degli studi storico-critici di Bultmann e successori.
Non rimase tuttavia solo sull’ex-alpeggio, in quanto alcune baite appartengono ad altri privati. Tra gli altri in passato visse anche un lavorante diversamente accogliente: nella prima visita trovai un tubo dell’acqua tagliato da un falcetto, una volta finì sui giornali per aver minacciato una vicina con la motosega. Troveremo parcheggiati tre fuoristrada, giunti da una pista riservata, costruita negli anni 2000 su iniziativa dei proprietari delle baite e con l’appoggio unanime del comune, dopo che l’idea era emersa carsicamente sui giornali fin da fine Ottocento. Don Udini invece era contrario, per proteggere il carattere eremitico, zazen, silenzioso e contemplativo di Vercio dal frastuono del divertimento, ma dopo qualche anno dovette capitolare, senza che il consorzio mantenesse nemmeno la promessa di fermare la pista qualche centinaio di metri a valle.
Andiamo ad affacciarci sul poggio verso la val d’Ossola, come affumicata dalla foschia ocra generata da un controluce basso e accecante. Questo versante è cintato, perché a valle pascolano cavalli bradi, anche se non vi è erba, ma soprattutto felci, molto estese sui prati dismessi attorno al lago Maggiore. Passiamo a monte delle baite superiori, dove viveva il don e ora circondate da attrezzatura edile, per raggiungere la chiesa settecentesca. Sotto il suo portico raccolto consumiamo la cena a base di torta salata alla feta e spinaci, accompagnata da una nota bevanda frizzante dal collo rosso, con dessert dei biscotti svedesi celebrati da Frank Zappa, per cui violo i miei principi etici e mi fermo volentieri all’IKEA. Don Udini non imponeva un suo menu cenobitico agli ospiti, ma dubito avrebbe approvato per sé questo coacervo di consumismo globalizzato.
Mentre abbracciati ammiriamo il paesaggio, la pennellata arancio del sole a poco a poco si dilegua dalle cime fin verso la lontana pianura di brughiere e aeroporti per scomparire infine. Attendiamo quindi il buio crepuscolare irradiarsi da oriente e le prime violente lune elettriche lacerarlo, mentre la falce di luna 1.0 alta nel cielo resterà puramente decorativa tra tutte queste. Rivisto il panorama sulla val d’Ossola, ora più nitido e adorno delle cuspidi degli immancabili 4000 svizzeri dalla Dufour alla Weissmies passando per tutti quelli in mezzo, ma privo di Cistella (pensando alle foto del Baltoro immagino cosa avrebbero visto i cacciatori pleistocenici), scendiamo al punto panoramico sui laghi. Ci muoviamo quatti per non spaventare con le nostre nere figure i villeggianti, intenti a cenare attorno a un tavolo circondato da luminarie natalizie, mentre un cane nero scorrazza felice attorno. Per loro Vercio è più un Eden di latte e miele che un giardino di Epicuro, un terreno di svago ludico e ricreativo per cittadini, secondo il modello attuale di fruizione della montagna, anziché un rifugio dove escogitare ideali di felicità alternativi a quelli vincenti.
Lì accanto è piantata una croce metallica a km 0: ovvero la croce fu donata da un erede di una dinastia metallurgica con stabilimento a Villadossola, che dal primo Ottocento lavorava il minerale della valle Antrona, ed è fissata a un piedistallo di granito, una ricchezza dei dintorni, di cui oggi abbiamo visto numerose cave sul Mottarone e sul Montorfano. La luce cobalto che permea l’acqua, perfettamente liscia ed eterea come uno strato di nebbiolina, e i pendii con i lumini al sodio è quanto di più instagrammabile potessi sperare, anche se purtroppo la vista sul Toce e il lago d’Orta è ostacolata da qualche betulla.
Torniamo sulla mulattiera ancora per poco senza frontale. L’aria serale si era fatta più frizzante, ma ben presto, al termine della più fresca faggeta, anche lei si toglierà tutti gli strati per l’afa del bosco, sebbene il termometro dell’auto segnerà appena 14°. Arriviamo all’edicola panoramica poco dopo che un campanile ha suonato le 10, a buio ormai pesto. Scopriamo che è illuminata da una luce dentro la nicchia, a detrimento dell’autoscatto che avevo in mente, perché pare fatto con il flash frontale di un principiante: avremmo dovuto muoverci di più per renderlo più artistico, rimugino a posteriori, ma ci penserà la confidente digitale ad aggiustare la luce. Inoltre sono contrario all’illuminazione artificiale dei monumenti montani, perché mi pare una forma di subalternità culturale alle luminarie cittadine, là necessarie per quanto abusate, ma che ci privano del piacere della luce naturale di luna e stelle. Continuiamo nel bosco feso dalle pile, da immaginario horror di serie B, senza udire fruscii o versi, fino a raggiungere Bracchio, dove i gatti coccolati alla partenza si sono rintanati.
Sono circa le 11, per cui tra viaggio, commiato e doccia andrò a dormire dopo le 2, con la sveglia puntata alle 6.30 e una giornata mediamente faticosa all’orizzonte, quantunque sgombra di tentati omicidi stradali per il ponte festivo: un po’ di insonnia è un prezzo che vale la pena pagare per una sera a Vercio.
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