Laghi di Sumiana

Valli di Lanzo

8 giugno


In un baleno

I laghi di Sumiana sono due minuscoli specchi d'acqua delle valli di Lanzo, posti in un breve vallone del tutto marginale. È una zona a torto fuori dai principali itinerari escursionistici, in quanto è molto densa di testimonianze della civiltà contadina e operaia del passato

Piazzola dei carbonai
Piazzola dei carbonai

Diario di viaggio

I laghi di Sumiana sono due minuscoli specchi d'acqua delle valli di Lanzo, posti in un breve vallone del tutto marginale, escluso dalle vie di transito. È una zona a torto fuori dai principali itinerari escursionistici, in quanto è molto densa di testimonianze della civiltà contadina e operaia del passato. Si trovano infatti in una zona di fitta faggeta una volta terra di carbonai e pastori, solcata da non poche canalizzazioni, che nell'era agricola alimentavano una florida pastorizia: «le praterie dappertutto vi sono ridenti di bella e fresca verzura, fra cui prosperano assai bene gli alberi fruttiferi: le molte praterie che vi si possono irrigare, forniscono per l'ordinario tre fieni in ogni anno, di cui l'ultimo si fa mangiare alle vacche in autunno dopo che sono discese dalle alte montagne», annotava il Casalis. Oggi tutto questo brulichio è scomparso, a cominciare dal paese che dà il nome ai laghi, ma i prati delle frazioni abitate e i boschi restano molto gradevoli. Avrei voluto accoppiarli all'alpe del Conte, un panoramico alpeggio su un cocuzzolo a monte di Ceres, che avrei trovato al colmo della fioritura. Sarebbe stata una gita lunga, ma appagante. Tuttavia un guado difficoltoso mi ha respinto indietro e ha rischiato di costarmi caro.

Lascio l'auto nel parcheggio di Pessinetto, dove si aggirano pochissime persone, più che altro attorno alla panetteria. La notte è stata piovosa: ho preso l'ultimo scroscio mentre imboccavo la tangenziale, dove il traffico era feriale e ferale già alle 7, ma ancora acaudale. Adesso il cielo è coperto, ma le nuvole sono alte, e un abbondante flusso d'acqua scorre nella capiente Stura, alimentato anche dallo scioglimento primaverile della neve in quota. Riempita la borraccia a una fontanella, sottopasso la ferrovia e attraverso il torrente sul ponte pedonale in legno, diretto all'inverso.
Imbocco la mulattiera in direzione di Mezzenile e poi subito svolto a sinistra per Monti, facendo attenzione a non calpestare i molti lumaconi usciti nella notte umida. I bivi sono ben segnalati da numerosi cartelli, ma mi sembra che spesso i tempi siano messi a casaccio. L'improvvisa salita offre una vista sul paese, allungato su una striscia tra la Stura e il ripido pendio opposto e, più lontano, sullo svettante santuario di Sant'Ignazio di Loyola. Fu edificato nel Seicento per proteggere la valle dalla crisi ambientale della Piccola Era Glaciale, che si manifestava con malattie del bestiame, la sempreviva mortalità infantile, oltre che con attacchi di canidi, identificati come lupi, che minacciarono anche i bambini che pascolavano le greggi. Narra una cronaca del tempo: «Correva l'anno del Signore mille sei cento ventisei; et in Piemonte, fra le terre antiche di Avigliana, e Lanzo della Diocesi di Torino scorrevano ingordi, et arrabbiati lupi, che divoravano non pure i bestiami, ma anco gl'huomini[…] Penetrarono nel territorio di Mezzenile[…]; scorrendo i lupi fecero in poco tempo grandissima stragge. Del che impauriti in sommo quei habitanti, non vi ritrovando humano rimedio rimedio per li spessi, e stretti passi, ove da i lupi erano fieramente assaltati, ricorsero tutti d'accordo al divino aiuto, determinando di fare, come fecero per nove mattine continoe alla cappella di Sant'Igrazio di Loiola nuovamente edificata nella chiesa della prevostura, cantandovisi con ogni apparato possibile la messa. Non furono vane le preghiere; perché dopo alcuni processioni si viddero i lupi andarsene via». E così via, in un crescendo di eventi rocamboleschi e miracolosi.
Raggiungo un gruppo di case quasi tutte abbandonate. Le tenute sono riconoscibili per la legna accuratamente accatastata e qualche antenna. Seguendo una strada, arrivo a un'altra borgata con pratini e vitelli al pascolo. Taglio un prato su una bella mulattiera lastricata, costeggiando una grande casa fuori proporzione e stile, che ha però rispettato le tradizioni con un porticato tipicamente prealpino, sotto cui sono stesi dei panni. Un cartello mi informa che questi prati erano irrigati prelevando le acque dal lontano rio Saulera, con un lungo canale. C'è anche un pilone votivo. Continuo poi a risalire la strada tra boschi e prati, seguendo qualche taglio. Sul bordo della strada vedo della campanule di un viola molto tenue, ma che purtroppo sono tra l'erba folta e non si prestano a uno scatto, per cui ne allego uno dal repertorio.
Prima di Bogliano entro nel bosco e trovo un pilone restaurato recentemente, su cui è stato dipinto una appellativo dantesco della Madonna. Sono tra le semplici case di Bogliano, tra innumerevoli pali e fili e cani molto rumorosi nei cortili. Ci sono delle fontane edificate grazie alla munificienza di un benefattore. Su quasi tutte c'è scritto che l'acqua non è potabile: raramente ho visto scritto più correttamente che non è controllata e solo in Corsica ho trovato le analisi della loro acqua affisse al municipio. Il paese è dominato dalla mole cupa dell'Uja di Calcante. Questo versante è prevalentemente roccioso, di una roccia scura, con alberi sparpagliati. Una volta era ancora più spoglia, come riferisce il conte di Mezzenile nelle sue Lettres, per l'opera delle fonderie di ferro, di supporto all'attività dei chiodaioli e alimentate dal carbone ricavato dalla legna (il ferro era estratto da varie miniere sulle sue pendici). Nel Novecento il versante meridionale fu rimboschito con pini neri dalla forestale, che lasciò in eredità anche una bella mulattiera. Bevo alla fontana e faccio una sosta su una panchina accanto alla chiesa, che potrebbe essere del Seicento, quando, come risulta dalla cronaca del Teppato citata in precedenza, la zona sembra essere già stata diffusamente colonizzata.

Il sentiero si inabissa nel bosco, le cui foglie sono già di una cupezza estiva. Una linea elettrica lo ha lacerato e offre qualche squarcio di chiaro. Ce n'è poi un'altra, che sembra dismessa ma non smantellata, perché in certi punti il filo sfiora il terreno ed è stato colorato di rosso da chi cura il sentiero, per evitare inciampi. Si susseguono molti piloni votivi, generalmente un po' deteriorati. Mezzenile ne ha tantissimi, ma non vi ha dedicato la cura di Melle, dove invece molti sono dipinti di fresco. Un tronco caduto di traverso, senza ostruire il passaggio, dev'essere così storico che vi hanno affisso il numero del sentiero.
Sbuco nel prato di Villa, un toponimo che nel cuneese è di solito riservato al capoluogo, mentre qui a una casa isolata con stalla. Gli edifici sono in stile a tocchi e tacon, secondo l'usanza contadina. Le galline vanno a zonzo, mentre le vacche sono in stabulazione. Risalgo il fradicio prato, dove rovino i piani di una gattina a chiazze nere e arancio, che era uscita a caccia di topini. Nel prato c'è qualche rada pannocchietta rosa di Persicaria bistorta, uno dei miei fiori preferiti, quando tappezza i prati.
Un taglio di strada più in alto sono a Monti, dove due operai sono alle prese con del mobilio su un balcone. Mi fermo sulla panchina di fronte alla chiesa, sulla cui facciata è dipinta l'Ascensione della Madonna. Sul retro c'è un tendone con un campo di bocce e un palchetto per il ballo, oltre a un giardinetto con uno scivolo per i bimbi. Credo che in questo angolo defilato la pandemia non abbia imposto troppe limitazioni alla socialità.
Riprendo la marcia, passando tra due belle casette in pietra e poi per un prato riccamente fiorito, prima di inoltrarmi in un bosco dal lussureggiante sottobosco. Si tratta qui di un bosco di ripopolamento su vecchi prati. Mi rendo conto che il sentiero costeggiava una royi, un canale irriguo per i prati di Monti. Il termine francoprovenzale è affine al ru valdostano, ma completamente diverso è il clima delle due valli. Questi canali si trovano infatti soprattutto nelle valli endoalpine a clima arido, (tra i più famosi ci sono anche le bisse e i suonen della valle del Rodano e i waal della val Venosta) dove hanno raggiunto livelli di ingegneria tali da essere divenute attrazioni turistiche. Le intricate necessità di condivisione della scarsa risorsa e gli oneri del sistema hanno anche generato complesse culture giuridiche. Tuttavia anche in questi pissur si sentì la necessità di costruirne, magari meno arditi, data la più diffusa disponibilità di acqua, ma non meno numerosi.
Arrivo a fontana Saccona, con il relativo pilone di gratitudine, e zona umida con tanto di buprestidi (gli scarabei delle zone umide dai colori sgargianti e metallizzati), dove bevo per motivi devozionali più che per necessità. Guado quindi il copioso rio che alimenta la royi, tra appoggi abbondanti ma scivolosi. Entro quindi in un bosco di faggi maturi, dove trovo subito una piazzola dei carbonai, raggiunta da una luce verticale livida ma affascinante. La legna di faggio era la prediletta per questo scopo e consentiva di sfruttare zone ombrose o troppo impervie per il pascolo e l'agricoltura. Spesso infatti i sentieri dei carbonai attraversano zone molto fascinose per l'orografia accidentata.

Il carbone serviva principalmente per uso domestico, per scaldarsi o cuocere i cibi, ma anche per stirare (ne “I soliti ignoti” Capannelle adopera uno di questi ferri da stiro in una scena). C'erano poi vari impieghi industriali dalla siderurgia, come raccontato in precedenza, alla chimica. In montagna le necessità della siderurgia potevano essere talmente pressanti da generare crisi ecologiche localizzate e anche la cessazione dell'attività mineraria, per l'esaurimento della legna disponibile. Durante la Seconda Guerra Mondiale l'Italia si trovò tagliata fuori dai rifornimenti di petrolio provenienti dall'Impero Britannico, per cui si adattarono anche i mezzi stradali, per farli funzionare a carbone.
Il lavoro era gestito da ditte appaltanti, in genere a conduzione familiare, che potevano impiegare della manodopera subordinata. Tra questa ce n'era anche di infantile, proveniente dalle famiglie povere e numerose non in grado di provvedere a loro; si dovevano in genere occupare delle mansioni di cucina. I carbonai vivevano infatti spesso sul posto, portando parte della famiglia a creando dei piccoli accampamenti. C'era lavoro anche per le donne, e non solo nelle mansioni domestiche, ma anche nella raccolta della legna: lavoravano in entrambi i settori, per cui avevano meno tempo libero degli uomini. Era privilegio maschile la conduzione della carbonaia.
C'era poi tutto un mondo che gravitava attorno al trasporto e soprattutto al commercio del prodotto finito, con la relativa subcultura di furberie per raschiare qualche soldo in più, tanto ai carbonai quanto ai clienti finali. La possibilità di maneggiare soldi era un notevole elemento di differenziazione con i contadini, che erano pressoché esclusi dalla circolazione monetaria. Il fatto poi che sapessero trarre di che vivere dal bosco, luogo tradizionalmente in antitesi alla civiltà, fuori dallo stretto controllo reciproco del villaggio, li faceva percepire come creature infide e temibili, a metà tra gli uomini e gli esseri fantastici della natura.
La preparazione e la conduzione della carbonaia richiedevano molte abilità: al di là delle singole operazioni tecniche o delle conoscenze ambientali, bisognava saperla odorare, ascoltare, vedere, toccare, manipolare, suonare, per capire se la combustione avveniva nel modo appropriato, per attuare interventi correttivi e per sapere quando era conclusa. Era percepita come una persona a cui badare, come un infante o un vecchio, a cui bisognava prestare molte cure affinché prosperasse; le sue parti erano descritte come metafore tratte dal corpo umano. Anche se alla fine il carbone buono aveva lo stesso prezzo di quello mediocre, le ditte appaltatrici stabilivano rapporti di favore con i migliori. Inoltre per essi fare il proprio lavoro con passione e competenza era motivo di orgoglio e autostima. Il corretto controllo del fuoco aveva anche un notevole significato culturale, che dava al carbonaio un ruolo da demiurgo, nell'addomesticare una forza naturale, che, lasciata libera, avrebbe distrutto ogni cosa. Il fuoco era infatti percepito come un'entità vivente, non come un semplice oggetto, che andava ammansito dall'abilità del carbonaio.

Altre piazzole e altri guadi più avanti, supero una morena plasmata dall'erosione, ma ancora riconoscibile per la presenza di grandi massi. Di morene del genere ne esistono davvero tante sparse per le basse e medie valli di Lanzo. Risalgono all'ultima glaciazione pleistocenica e sono state rimodellate fino a divenire irriconoscibili per la forma: quelle che vediamo in quota con la classica V rovesciata sono più recenti e risalgono all'espansione glaciale dell'Età Moderna. Arrivo infine a un rio più copioso, che passo su un un ponticello di assi: sto entrando nei pascoli dell'alpe Laiet.
La consunzione di un cartello metallico scritto a vernice, che chiede di tenere i cani al guinzaglio per non molestare le vacche, denuncia da quanti anni l'alpe non è più caricata, anche se erano stati condotti lavori di disboscamento. Solo gli occhielli del filo elettrico sembrano recenti. Seguendo i segnavia sugli alberi aggiro dal basso i ripidi prati. Ad un certo punto, non mi accorgo che i segnavia puntano in basso e seguo invece la traccia più marcata, salvo presto accorgermi della loro scomparsa e tornare sui miei passi. All'ingresso nel bosco, trovo subito una piazzola dei carbonai, riconvertita in pozza di fango dei cinghiali, come simbolo della naturalizzazione. Nel bosco fitto, senza punti di riferimento se non lo scroscio del rio Saulera in lontananza, mi avvito su me stesso e perdo il senso della direzione, restando avvinghiato ai segnavia e alla traccia per non smarrire la giusta strada.
In discesa giungo al superiore dei laghi di Sumiana. È una minuscola pozza d'acqua, che sarà profonda non più di una manciata di metri, sbarrata da un cordone morenico. È completamente avvolto in un bosco fittissimo, per cui credo che prima o poi verrò ad ammirarlo con i colori autunnali, meglio se in un giorno di brume. Noto che uno degli immissari è una royi, proveniente dal rio Saulera. Mi siedo per un po' su un sasso. Il lago inferiore non è tanto diverso, solo un po' più lontano dal ripido pendio, che stringe l'altro al monte, e pertanto meno claustrofobico, ma forse anche meno intrigante.

Torno sui miei passi per puntare all'alpe Restreit, da cui voglio poi raggiungere per sterrata l'alpe del Conte. Seguendo i segnavia, senza una traccia univoca, di piazzola in piazzola salgo al retro dell'alpe Laiet. Dopo un po' di vagabondaggio, capisco di non dover seguire la traccia che entra nel prato, ma costeggiarlo seguendo i segnavia. Anche qui c'è della legna accatastata, che non sembra vecchia, come quella di prima. Imbocco quindi un vecchio sentiero, chiaramente non più usato, ma ancora evidente e che aveva richiesto non poco lavoro di costruzione, specie dove passa in sopraelevazione delle pietraie. Attraverso una zona ripida e impervia quel minimo che basta a impedirne la trasformazione tanto in pascolo quanto in bosco maturo.
In quota arrivo infine al guado sul rio Saulera. Mi accorgo che c'è troppa acqua per le mie scarse doti equilibriste. Vedo un punto dove una persona agile potrebbe balzellare di masso in masso, ma io che ho bisogno di quattro gambe sicure non ce la farò mai.
Questo rio dove essere spesso così carico d'acqua, e non solo adesso dopo gli acquazzoni primaverili degli scorsi giorni, se vi erano tante roye che vi attingevano per l'irrigazione estiva. La cosa è un po' sorprendente, se si considera che proviene da un vallone breve, con una limitata area da cui raccogliere le falde, senza nevai permanenti, per la scarsa altezza delle cime. Probabilmente ciò è permesso dalle abbondanti piogge prealpine.
Senza consultare la carta mi convinco di poter raggiungere la soprastante sterrata ravanando tra rododendri e alberelli sul ripidissimo pendio sopra di me e mi lancio fiducioso. Sperimento così un po' di natura selvaggia, non addomesticata dal secolare lavoro degli alpigiani. È difficile dire se questo pendio ripidissimo sia mai stato adibito a pascolo, perché mi sembra a rischio frane, in caso di disboscamento. Pur trovandosi nel piano montano (1400 m), non c'è bosco sviluppato, ma una vegetazione arbustiva già del piano subalpino, com sorbi, rododendri e ontani. Probabilmente è dovuto all'acclività e all'esposizione ombrosa, che facilita le slavine e l'accumulo nevoso, tutte condizioni ambientali che favoriscono queste specie. Ricordo ambienti simili anche in altre valli analoghe, come la Valchiusella.
I rododendri stanno cominciando a fiorire. Di questi cespugli, originari dell'Himalaya, dove sono alberi, mi affascina la visione contrapposta che ne hanno gli escursionisti e gli alpigiani. Per i primi sono una meraviglia, per i vistosi fiori rosa; per i secondi una iattura, perché invadono i pascoli, sottraendo spazio all'erba. Per questa ragione era considerato buon pastore chi li bruciava: ho visto questa pratica effettuata ancora oggi. A mezza strada potremmo collocare gli apicoltori, visto che il miele di rododendro è pregiato.
Sicuramente questo ambiente è molto meno agevole da attraversare di un bosco di faggi senza sottobosco o di una prateria. Il fuoripista mi costa perciò non poco sforzo e patimento, fino a quando raggiungo una dorsale più spoglia, dove mi accorgo di avere completamente sbagliato le stime. Per raggiungere la strada non c'era altra alternativa che guadare, mentre sopra di me non c'è che Rocca Moross con le sue inavvicinabili pietraie: non posso più andare avanti e sono pure esausto. Se avessi consultato la carta me ne sarei accorto in anticipo e sarei tornato immediatamente sui miei passi, o magari sarei stato più ardimentoso nel guado.
Per fortuna prendono i dati del cellulare e posso caricare la cartina, che mi indicherà il punto in cui ritrovare il sentiero poco evidente percorso in salita. No, domani il giornale non titolerà: “Esce dal sentiero per evitare un guado e deve chiamare l'elicottero. Gli amici: «eSono la sua bestia nera»”. Mi fermo a pranzare, recupero le forze e imbocco la via del ritorno.
Dall'alto individuo una zona più sgombra di quella salita e mi dirigo lì. Superando una cengia rocciosa, come d'incanto mi trovo tre metri più in basso con una bella botta alla spina dorsale, finita contro un sorbo. Pile e giacca arrotolati nello zaino hanno attutito. Forse ho messo i piedi sui rododendri, credendoli un appoggio sicuro, o sono stato sbilanciato da qualcosa, ma non mi sono accorto di nulla. Riesco a muovermi senza difficoltà e a risollevarmi con un po' di lavorio. C'è un però: ho perso gli occhiali e non riuscirò più a trovarli. Mi mancano 5-6 diottrie per occhio e il problema non è trascurabile.
Provo a ripartire per vedere come me la posso cavare. Per fortuna di qui la discesa è più agevole e trovo a vista (!) il punto del guado e il sentiero. Questo è tracciato quanto basta a essere seguito da un cieco e non ho problemi. Un po' più complicato è trovare a tentoni le tacche nel bosco senza traccia, ma il picchio mi guida con il suo fischio nella giusta direzione fino ai laghi, o almeno mi convinco di ciò, anche se non ho battuto la testa. Riesco persino a superare indenne un impaludamento.
Decido di non tornare sui miei passi, ma di proseguire in quota fino alla cappella del Giardino, indicata a un'ora, da cui troverò strada fino a Mezzenile, e di lì 20 minuti di mulattiera per Pessinetto. Non sono mai passato da questo sentiero. Un'altra volta ho percorso quello più a monte, ma non era molto marcato. Il sentiero non è tracciato come speravo, ma non mi perdo. Passa da alpeggi ripidissimi, dimenticati da ere, e presenta delle belle fioriture che posso solo intuire. Ho qualche incertezza sui punti sconnessi e la schiena mi duole nella salite più ripide.

Tra il sole che fa capolino, arrivo alla cappella del Giardino, dove mi fermo a fare merenda. È una tipica chiesetta campestre in pietra e intonaco bianco, con un campanile edificato per la munificenza di un benefattore e un portico con panche di pietra per dare riparo, durante le frequenti piogge delle zone prealpine. Provo a scattarle una foto, ma con la luce zenitale di giugno la scena non mi gusta, per cui carico una foto in veste invernale, poco prima del tramonto. Trovo tre zecche a passeggio su di me, di cui una tra i capelli, di quelle grandi. Nei giorni successivi ne troverò due agganciate alla pelle, tra l'altro in posti scomodi da rimuovere con le pinzette, ma di quelle piccole, che si confondono con un neo o le croste dovute alle unghiate del gatto. Intanto decido di non avvisare casa di portarmi gli occhiali da sole alla partenza, per non metterli in apprensione, ma di narrare la storia solo quando mi vedranno arrivare intero. Devo percorrere strade ben note, sulla tangenziale andrò ai 20 in coda e dovrei almeno vedere i TIR che mi vengono addosso. Sarò prudente e non sorpasserò nemmeno i trattori.
Ringalluzzito dal successo avuto finora, decido anche di non seguire da subito la strada, ma per il primo tratto il sentiero alternativo, perché lo ricordo sufficientemente marcato: è un falso ricordo. Proseguo per sterrata fino al pilone votivo affacciato sull'Uja di Calcante, passo tra casette destreggiandomi tra svariate piste per fare legna e imbocco il sentiero. Per un po' tutto bene, ma ad un certo punto imbocco una falsa traccia. Me ne accorgo quasi subito, ma mi sembra di vedere in basso il ponte sul rio Saulera che devo superare. Il ponte è in realtà un albero orizzontale sdoppiato dalla miopia (i mancorrenti), con i rami a fare da presunte assi. Quando me ne rendo conto, arranco tra le foglie marce fino all'ultima tacca e ritrovo la pista giusta. «Quando un cieco guida un altro cieco…». No, sto facendo tutto da solo, quindi almeno non sto mettendo nel pericolo nessun altro.
Senza più errori confluisco sulla sterrata in corrispondenza di una casa, la seguo fino a raggiungere la pista che scende dalla cappella. Sono ormai sull'asfalto della zona abitata in forma sparsa. Scendo per la ripida strada tra i consueti cani, uno dei quali suona come quei pupazzi di gomma che si strizzano. Mi imbatto in un'edicola votiva sotto una tettoia, che chiaramente era lungo la mulattiera, che infatti riesco a seguire per un tornante; è lastricata e bordata dalle lose verticali anti-capra, anche se un po' invasa dalla siepe di una villa. Raggiungo Mezzenile, dove il bar purtroppo è chiuso (poi peraltro mi sembra di ricordare che il caffè non fosse eccezionale). Nella piazza c'è qualche vecchio che chiacchiera, mentre altri sono intenti ai lavori di giardinaggio.
In passato il paese era sede di un'attività pre-industriale di fabbricazione di chiodi, alimentata dalle summenzionate fonderie. Erano anch'esse pre-industriali ancora in pieno Ottocento, allora dette forno alla catalana e successivamente dei bassi fuochi: erano sotto forma di buche scavate nella terra, per distinguerle dall'altoforno della Rivoluzione Industriale. «I terrazzani di questo comune, che abitano più presso all'anzidetto fiume-torrente, sono quasi tutti fabbricatori o mercanti di chiodi; e la coltura dei loro poderi è quasi intieramente abbandonata alla donne», annota il Casalis nel 1842. Le valli di Lanzo sono sempre state ricche di miniere di ogni sorta, che hanno alimentato attività e permesso la formazione di interi villaggi specializzati.
Imbocco la mulattiera lastricata accanto alla chiesa, che scende prima a una strada e quindi a una semplice cappella, anch'essa con porticato e stavolta posa dei morti: qui il parroco incontrava i cortei funebri scesi dalle frazioni superiori, per la mulattiera percorsa al mattino. Poco oltre c'è un bel ponte a schiena d'asino, risalente al 1741, che può anche essere ammirato dal basso, dove arriva una traccia che permette l'accesso a una grande pozza verde. Non mi mancano che pochi passi al ponte pedonale di Pessinetto, su cui è parcheggiata un'Apecar, arrestata solo dai gradini. Anche il bar di questo paese è chiuso per riposo settimananale. La proprietaria, che abita nella casa adiacente e mi vede andarci, si scusa del disguido, come se avere un giorno la settimana da dedicare a sé stessi fosse una sorta di colpa o mancanza. Tra queste aspre montagne l'edonismo non è di casa.
Il viaggio in auto scorrerà senza intoppi.

Tirando le somme, ho rischiato di perdermi e di farmi male per le mie deficienze. Non sono però morto e ne sono uscito da solo. La convalescenza mi darà il tempo di riflettere se devo essere orgoglioso o vergognoso. Sicuramente dovrei essere più prudente e riflessivo.
Una nobile tradizione vuole che ci si ricordi degli dei solo quando una tragedia ci sfiora senza farci troppo male, attribuendo a loro il merito dello scampato pericolo. Allora li si ringrazia con piloni votivi o ex-voto da depositare nei santuari. Costruire un pilone sul bordo della tangenziale accanto a casa temo sia vietato: devo trovare un santuario raggiungibile per sentiero dove rispettarla.

Per approfondire

G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
E. Sesia, Il giro delle 5 “roye”, Blog camoscibianchi
B. De Luca, L'arte del fuoco nascosto. I carbonai del Cansiglio, Sommacampagna 2018
J. Dorst - C. Favarger - R. Hainard - O. Paccaud - P.C. Rougeot - J.P. Schaer - P. Veyret, Guida del naturalista nelle Alpi, Bologna 1983
B. Gallino - G. Pallavicini, La vegetazione delle Alpi Liguri e Marittime, Peveragno 2000
E. Sesia (a cura di), Scorrevano ingordi et arrabbiati lupi, Lanzo 2014
E. Sesia (a cura di), Nascita, vita e morte di un villaggio minerario medievale: Pertus in Valle d’Ala (1267-1665), Lanzo 2015

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Conce
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Bogliano
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Monti e Uja di Calcante
Monti e Uja di Calcante
Piazzola dei carbonai
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Lago di Sumiana
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Lago di Sumiana
Lago di Sumiana
Lago di Sumiana
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Cappella del Giardino
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Uja di Calcante
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Pessinetto
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