Punta Manara 0 m

Riviera di Levante

14 febbraio


In un baleno

È impressionante vedere fino a che quota si spingono gli arrotondamenti degli spigoli dovuti all'azione dei marosi, durante le tempeste invernali: Turner avrebbe dato qualunque cosa, per essere qui a dipingere il libeccio.

Scoglio Garibaldi
Scoglio Garibaldi

Diario di viaggio

Punta Manara è un promontorio della Riviera di Levante, che riproduce su scala più ridotta alcune caratteristiche naturalistiche del vicino e più celebre promontorio di Portofino. Sui suoi rilievi corrono il Sentiero Verdeazzurro e a altri tracciati molto battuti, ma alcuni sentieri più impervi offrono accesso ad alcune emergenze costiere, raggiunte dalle barche dei bagnanti durante la stagione balneare, più introspettive in inverno. In questo itinerario ne tocco un paio tra quelle possibili: lo scoglio Garibaldi, sull'estrema punta protesa sul mare, e la Ciappa del Lupo, un poco più a ovest.

Sceso dal treno, mi dirigo verso la via dello struscio di Sestri Levante, dal nome insurrezionale e dalla vocazione consumista. Faccio incetta di ottima focaccia, unta, croccante, digeribile, gustosa e sodica. La mattina è tersa e fresca, la Baia del Silenzio liscia e muta come un lago insubrico: solo gli insistenti richiami dei gabbiani mi ricordano che questo è il mare. Sulla spiaggia un bimbo in custodia ai nonni freme di scatenarsi, mentre una ragazza si è seduta schiena al muro e faccia al sole e massaggia con la sabbia i piedi nudi. Per prima cosa salgo sulla collina della penisola, arrivando a una chiesa medievale in pietra, con la facciata curiosamente schiacciata a monte verso un nemus di lecci (intorno all'abside ci sono invece dei meno etnici ailanti), e andando ad affacciarmi sul cortile del castello, trasformato in un hotel lussuoso.
Ho deciso di salire dal sentiero della Madonnetta, riservando alla discesa quello della Mandrella che cala direttamente nel centro storico. Devo perciò attraversare la periferia del paese e costeggiare un grande complesso di casette disegnate con gusto da geometra, secondo un singolo progetto clonato per un intero rione. Arrivo all'imbocco, dove ai tempi della mia guida paninara c'era un complesso industriale dismesso, oggi sostituito da una piscina, a marcare il passaggio dall'era della produzione fordista di merci a quella dei servizi edonistici alla persona (di recente sul giornale della mia città questa trasformazione era raccontata nei suoi effetti sull'artigianato). Noto subito che ai tradizionali segni cabalistici FIE, riportati sulla cartina, si sono aggiunte le tacche austroungariche del CAI. Mi inoltro per un lungo viale diritto, che univa villa Cattaneo, invisibile alle mie spalle (chissà in che condizioni è oggi), con la sua tenuta agricola di Cantine-Mulinetto alla base dei rilievi del promontorio. L'edificio di servizio è stato ristrutturato e trasformato in un ristorante. Oltrepasso brevemente il cancello, per andare ad ammirare la copertura del pozzo, dalle colonne in pietre e la volta rifatta; è anche presente un tubo metallico da cui era aspirata l'acqua, con un volante che probabilmente azionava la pompa quando ruotato, probabilmente un'evoluzione rispetto al pozzo primigenio pensato per ai secchi. Oggi ha perso la sua funzione, divenendo un gazebo decorativo.
Il vero imbocco del sentiero è stato privatizzato dal ristorante, per cui tocca raggiungerlo seguendo i segnavia, che aggirano la proprietà e portano a risalire un terrapieno glabro, fino a ritrovarlo. In questo primo tratto sale a gradini di ardesia, importate dalle non lontane cave di Lavagna (la roccia del promontorio è invece arenaria sul lato marino e argillite su questo versante). Era di ardesia anche il muretto che sorreggeva il pendio a monte. Il bosco è quello di tipo continentale, caratteristico del lato ombroso del promontorio, a prevalenza di querce, con mi sembra qualche carpino. Assieme a questi, che potrebbero avere pretese di naturalità, anche se è difficile distinguere il naturale dall'artificiale in un territorio sfruttato dalla notte dei tempi, ci sono poi dei cipressi, forse connessi alla sacralità del percorso, diretto a un'edicola dedicata alla Madonna. Il tracciato costeggia un oliveto recuperato di recente, dove si distinguono bene i nuovi impianti dai vecchi ulivi precedentemente inselvatichiti e ora sfrondati. Sul pendio della collina di fronte, che forma con questa un semicerchio aperto a nord, c'è un oliveto più maturo. Da qui godo una bella vista su Sestri e sull'intero golfo del Tigullio, fino al promontorio di Portofino, suo confine occidentale. Passo accanto a un'edicola dentro cui è contenuta un'immagine della Sacra Famiglia, e continuo a salire fino a dove l'ambiente si fa più solatio e mite e la vegetazione più mediterranea, con la comparsa degli ornielli e dell'erica. La salita termina in cima a una collinetta, dove c'è un'altra edicola, molto deteriorata, con il busto di una Madonna con Bambino, oltre a una panca in legno dove mi fermo per una pausa. Lo spiazzo è circondato dai cipressi e da cespugli sempreverdi in via di fioritura. Quando la zona era sfruttata a fini agricoli, doveva essere più spoglia, perché il Casalis riferisce che dalla cima di questa collina si godeva una «mirabile prospettiva» sul Tigullio, mentre ora la vista è occlusa dalla fitta vegetazione.

Il sentiero costeggia quindi una grossa casa dotata di orti, che porta il nome di Castellaro, generalmente ritenuto segnale di un insediamento dei Liguri, e diventa a fondo più sconnesso, in salita sostenuta nella macchia. Arrivo a una terza edicola votiva, anche qui con una statua della Madonna con Bambino, dedicata stavolta alla Madonna delle Neve. Mi chiedo quale ragione avesse spinto gli abitanti del luogo a edificarne ben tre analoghe a breve distanza tra loro e così legate alla maternità: una delle tante memorie che si perdono e che probabilmente ora sembrerebbero incomprensibili, come alle nuove generazioni de “Il lungo pranzo di Natale” di Thornton Wilder, che non credevano agli incontri con i pellirosse della nonna. Calando leggermente di quota, arrivo a un crocevia, da cui prendo la diramazione in discesa per Ginestra. Il sentiero taglia un pendio ombroso e boscoso, da cui intravedo le costruzioni moderne sulla costa. Prima un oliveto abbandonato da qualche anno, quindi uno tenuto annunciano le case di Ginestra, dove il panorama si apre sui cantieri navali di Riva Trigoso e sui rilievi dell'immediato entroterra; compare anche una cima con qualche chiazza di neve. Scendo per una ripida cementata, quindi seguo a destra il Sentiero Verdeazzurro diretto a Riva, che cala a tratti ripidamente tra gli orti. Arrivo all'imbocco del sentiero diretto allo scoglio Garibaldi (non ci sono indicazioni, ma le descrizioni non danno adito a incertezze), dove al sommo di un muro vid'io scritte queste parole di colore oscuro: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (o almeno il senso delle minacce è questo).
Il mio nocchiero è un ponticello di cemento, che mi introduce nello stretto sentiero. Nel primo tratto transita ai margini di zone pianeggianti, dove forse una volta c'erano degli orti, come si deduce da una piccola colonia di Arundo donax, una canna introdotta appunto per gli orti e poi diffusasi spontaneamente. Oggi non ci sono che rovi. A valle del sentiero scorrono quindi degli oliveti abbandonati, su un pendio che a volte impressiona per quant'è ripido. Quando i prodotti agricoli erano l'unica fonte di reddito e la produttività dei terreni bassa, l'uomo colonizzò ogni lembo di terreno accessibile, oltre i limiti del possibile. Con fatiche improbe combatté contro la gravità, che durante le piogge abbatteva i muri a secco e trascinava in mare la terra fertile, richiedendo molto lavoro manuale per il ripristino. Oggi abbiamo fonti di reddito alternative e, grazie ai trasporti più efficienti, possiamo importare facilmente i prodotti alimentari necessari; inoltre la meccanizzazione non è compatibile con le fasce, rendendone i prodotti più costosi di quelli di pianura e riservandoli perciò a produzioni di nicchia più limitate, anziché a quelle di massa. Abbiamo pertanto abbandonato i terreni marginali ed esternalizzato lo sfruttamento del suolo ad altre nazioni meno montuose. In un oliveto, noto sulla destra una traccia che scende per la massima pendenza ed è diretta a una spiaggia sassosa detta Tersa Ciazeta (terza spiaggetta). Per ora la tralascio e punto verso il capo. I rovi tendono a invadere il sentiero in certi punti, per cui ogni tanto bisogna strisciare contro di essi, in bilico sul pendio a valle, anch'esso colonizzato dai rovi. La sera nella doccia farò caso a non poche escoriazioni lineiformi sulle braccia regalate da questi passaggi. Temo che con il rigoglio primaverile il percorso diventi impraticabile. Ad ogni modo, c'è chi lo tiene pulito, come si vede da certi rami segati. Immagino siano soprattutto i rocciatori, visto che nelle falesie in riva al mare vedrò infissi degli spit. Ogni tanto compaiono anche dei bolli rossi e in un punto una scritta “climb” con una freccia.
Il sentiero prosegue quindi in zone più boscose, dove l'ombra dei lecci tiene a freno il sottobosco invasivo. Ad un certo punto, poco prima del letto secco di un torrente, noto una deviazione sulla destra, segnata da un ometto, che dovrebbe riportare, con un po' di avventura, sul sentiero turistico che corre in alto, diretto al Telegrafo. Arrivo ai ruderi della “Casa dei preposti”, un edificio con funzione anti-contrabbando, come del resto doveva averla anche il sentiero, che ha una fattura troppo elaborata per essere una semplice traccia dei cacciatori, che una volta facevano la posta agli uccelli migratori sul capo (anche se senz'altro l'avranno usato a tale scopo). Dell'edificio non restano che quattro muri sbrecciati, mentre sulla foto della guida c'è ancora un accenno di tetto. Il sentiero prosegue ancora relativamente agevole fino a un grande leccio con i rami coricati sul sentiero, dove il gioco si fa duro. Infatti poco dopo il tracciato rimonta un masso, che mi richiede un momento di riflessione prima di essere affrontato, seguito quindi da tratti disagevoli e scivolosi; troverò questi passaggi ancora più insidiosi al ritorno, in discesa. Ad un certo punto mi sembra anche di udire voci femminili, di cui non riesco a individuare l'origine, come fossero canti di sirene che mi invitano a proseguire per infrangermi contro il mio Fato. Oggi però le Parche non troveranno le forbici. Rare viste sul mare ripagano lo sforzo. Il sentiero raggiunge la quota massima più o meno dove il bosco lascia posto alla gariga. Qui scompare anche il fondo costruito e rimane una semplice traccia sulla terra sassosa. La discesa è ripida e scivolosa, per cui la affronto con cautela e restando sempre in tensione. C'è anche un breve tratto di corda su dei gradini rocciosi, ma i passaggi sono bene appigliati e la ignoro. Tutti questi sforzi a fine gita mi produrranno un marcato indolenzimento alle gambe, destinato a durare un paio di giorni, nonostante il dislivello complessivo di appena 800 metri. In vista dell'edicola dedicata alla Madonna, raggiungibile solo dal mare, la via sembra farsi ancor più ripida e scivolosa, tanto che mi viene qualche dubbio sull'opportunità di proseguire. Mi faccio coraggio e il sentiero mi ripaga, addolcendosi e piegando a destra, verso gli scogli a riva. Vedo i gabbiani volare sopra le mie teste lanciando richiami e mi chiedo allora se non ci siano loro nidi sulla scogliera, ma è un timore infondato. Vedo poi un uccello nero con la livrea delle sterne sulla testa e una terrestre cornacchia, che mi pare del tutto fuori contesto. Terminata la gariga, con la sua fioritura gialla (apprezzata da una farfalla dello stesso colore e qualche bombo), entro tra le nude rocce, che si spingono fino al mare. Trovo un sedile confortevole dove fare un pausa e mangiare un boccone.
Fermo e finalmente rilassato, ho modo di ammirare le placche di arenaria che formano questa scogliera, oltre ai massi precipitati che vi si sono adagiati. Sono tutti fessurati ed erosi dalla forza chimica e meccanica delle onde. Uno ha delle concavità simili a coppelle, dovute all'erosione chimica differenziale sui composti più solubili, come il Roc 'dle Masche a Vonzo. È impressionante vedere fino a che quota si spingono gli arrotondamenti degli spigoli dovuti all'azione dei marosi, durante le tempeste invernali: Turner avrebbe dato qualunque cosa, per essere qui a dipingere il libeccio. Oggi è ben diverso: neanche faccio caso al suono delle onde, anche se quando scendo più in basso a fotografare fiuto distintamente la salsedine. Torno però indietro in fretta, perché la mia fotocamera non gradisce altrettanto: cimii l'antenata in una serata di luna e umidità salmastra a Punta Chiappa. Dagli scogli più protesi verso il mare vedo bene Sestri e Portofino, mentre il panorama più a ovest è inghiottito da una striscia di caligine marroncina, sopra cui emergono le Alpi Liguri coperte di neve. Scruto verso sud-ovest, anche con il binocolo, sperando di individuare le sagome delle isole toscane, ma la foschia bianca del mare non le lascia trasparire. Peraltro ho poco da lamentarmi, vista l'aria limpidissima che c'è qui intorno e gli interminati spazi blu che ho di fronte. Riesco a immortalare questi ultimi in una foto a una barca di un pescatore, fermo poco distante dagli scogli; un piccolo motoscafo se ne sta invece più lontano. Resto fermo un bel po', sia per godermi la solitudine e la pace, ma anche perché, tornato sulla terra dopo i voli contemplativi, voglio affrontare l'erta salita solo quando sono sicuro di aver digerito la torta pasqualina acquistata a Sestri. La tisana calda di zenzero e limone mi viene in soccorso.

Scendendo sono stato ben attento a memorizzare il percorso tra i massi, per non avere difficoltà a ritrovare l'imbocco del sentiero; sono anche aiutato da bolli arancioni. La salita si rivela senza difficoltà, a parte lo sforzo. È così ripido che ogni tanto mi posso aiutare con le mani. Riesco anche a captare il profumo di una pianta di timo, sfuggitomi in discesa. Come anticipato, qualche patema in più me lo danno i passaggi più impegnativi nel bosco. Mi fermo a ogni lembo di panorama per rinfrancarmi. Alla “Casa dei preposti” rimetto a tracolla la fotocamera, che avevo riposto nello zaino per essere meno impacciato nei punti critici. Lascio la Tersa Ciazeta alla volta in cui verrò qui con gli amici. Il mare verde che scorgo dall'alto tra gli ulivi mi motiverà a scendere.
Nuovamente sul Sentiero Verdeazzurro, risalgo a Ginestra, dove mi fermo a coccolare un gatto affettuoso, e di lì alla parte alta della frazione. In cima alle case, lascio il percorso del mattino e prendo invece per il Telegrafo di Punta Manara. L'ampio sentiero sale ancora ripidamente per un po', fino a dominare la piana di Trigoso, e poi si incunea in una fitta macchia di erica, alternando tratti in piano a salite. Ogni tanto la vegetazione si dirada e mi consente di ammirare il mare ormai lontano, 200 metri più in basso quasi sulla verticale. Mi colpisce la differenza di acclività tra questo versante scosceso e quello rivolto all'entroterra, dalla morbidezza collinare. È dovuta alla differente consistenza delle rocce che li compongono: resistenti arenarie qui, sfaldabili argilliti di là. Tralascio le diramazioni per il monte Castello, perché mi sembra che in cima la densa vegetazione non mi lascerebbe scorgere il panorama, e, raggiunto il culmine della gita, scendo per un sentiero molto ampio, ma dal fondo sconnesso. A un trivio prendo la diramazione diretta al punto panoramico, dove ci sono i ruderi di una torre di avvistamento. Passo accanto al bivacco sprangato e risalgo l'erta scalinata fino ai ruderi della torre. Ci trovo dei ragazzi che si sono allargati un po' e mi lasciano un contorto alberello quasi secco, come unico soggetto non ingombro delle loro masserizie. Mi piacerebbe fotografarlo in una notte di luna, anche se non lo farò mai per lo sproporzionato dispiegamento richiesto per una singola foto. Anche il successivo punto panoramico è già popolato, per cui vado a quello più proteso verso il mare, dove mi fermo a fare merenda con la focaccia e la frutta rimastami. Incantevole la vista sulla costa sottostante, intorno all'Erbun. Noto però che la linea dell'orizzonte sul mare si è fatta più sfumata, perché si è ispessita la foschia. Alle 16 la luce comincia a dorarsi ed è perciò venuto il momento di scendere alla Ciappa del Lupo.
Torno sui miei passi fino al trivio (i ragazzi sono ancora lì accampati, per cui rinuncio alla foto alla torre), proseguo brevemente verso Sestri e trovo quasi subito l'imbocco del sentiero che punta alla Ciappa. Stavolta l'accesso al mare è più semplice: il sentiero ha fondo generalmente regolare e solo in alcuni tratti le foglie secche dei lecci lo rendono scivoloso. Attraversa appunto una lecceta quasi pura, che un poco alla volta cede spazio alle eriche, e, poco prima della costa, alla gariga, dove ritrovo i fiori gialli e gli insetti. La Ciappa è un grosso masso piatto di forma triangolare, posto poco sopra il livello del mare. Ciappa è infatti il termine comunemente usato in Liguria per designare le placche rocciose. In dialetto significa lastra, ma per metonimia anche ardesia, che si frattura appunto a lastre, e le lavagne così ottenute. Quando al lupo, immagino che qui non ce ne siano da tempi remoti, vista l'antica antropizzazione del luogo: sono stati trovati manufatti risalenti all'ultima glaciazione e Sestri era un importante insediamento già in epoca romana. La mia guida non dice nulla a proposito dell'etimologia. Azzardo che una tale singolarità della natura meritasse un nome evocativo della sua potenza selvaggia. Dalle mie parti avrebbe senz'altro guadagnato un epiteto associato al demoniaco ballo delle masche (la wilderness non era un granché apprezzata nel mondo classico e nelle culture da esso derivate, per usare un eufemismo). Nonostante la foschia renda Portofino etereo come un'ombra chiara e già offuscata la penisola di Sestri, la luce è incantevole. Resto perciò a farmi inondare dai raggi dorati e accecare dalla scia del sole sul mare, di cui ascolto assorto il pigro borbottio. Faccio qualche foto ai dintorni e cerco di ritagliare composizioni geometriche dalle fratture dell'arenaria e dalle sue inclusioni calcaree, ma senza apprezzabile successo.
Lungo la risalita cerco invano di scorgere le piazzole, dove durante l'ultimo confitto era prodotto il carbone dalla legna di leccio. Nelle zone costiere, dove non cresce il faggio adoperato a questo scopo sui monti, era l'alternativa più adeguata a questo impiego. Solo in un punto mi sembra di scorgere del terreno più nero, ma nell'ombra buia della lecceta tutte le vacche sono nere. Alla congiunzione con il sentiero principale sono preceduto di poco da due persone, in discesa dal Telegrafo, così intente a parlare fittamente tra di loro da non notarmi nemmeno. Il sentiero scende gradualmente verso Sestri, contornando le pieghe della montagna. Attraverso un bosco di pini marittimi rinsecchiti e sfoltiti da un insetto appartenente alla superfamiglia delle coccinglie, importato dall'Atlantico francese con il commercio del legname e divenuto infestante nel nuovo clima. Purtroppo non sono stati trovati rimedi (le cocciniglie causano anche in agricoltura infestazioni difficili da trattare), per cui l'unica speranza è che l'evoluzione abbia un corso favorevole e produca esemplari resistenti, in grado di ripopolare le coste. Negli ampi spazi lasciati liberi sta intanto crescendo rigogliosa la macchia. Questo non è il solo posto del percorso, dove la mia guida descriveva pinete oggi sfoltite o anche scomparse del tutto. La situazione è d'altronde comune lungo tutta la costa ligure. Queste pinete sono il risultato di secolari pratiche agricole, codificate anche nei trattati di settore, che prevedevano l'uso controllato del fuoco per creare pascolo per il bestiame, e hanno favorito questa specie, che si riprende facilmente da un incendio. Oggi un'altra pratica, stavolta commerciale, le sta distruggendo, sempre involontariamente. Procedo a ritmo lento soffermandomi di continuo ad analizzare il panorama, per cercare soggetti da accoppiare alla luce del sole arancio e alla luna alta nel cielo, che è ormai l'oggetto più luminoso. Nonostante la foschia, il tramonto resiste bene senza ammosciarsi, se non all'ultimo. Noto qualche quercia da sughero, qui al limite settentrionale del loro areale, che una volta costituivano un vero bosco, spazzato via dai tagli effettuati durante la guerra per procurare legna da ardere. L'esemplare più accessibile dal sentiero ha la corteccia tutta raschiata dai prelievi degli escursionisti. Molta gente si comporta verso la natura come quando gli uomini erano 6 milioni sparsi tra tutti i continenti (e già avevano fatto seri danni alla fauna), ovverosia prelevando come se fosse infinita, anche ora che siamo in 60 milioni solo nella Penisola e la natura è ridotta a piccole isole nel mare antropico.
Mi fermo anche su una panchina, dove mi raggiungono due coppie di adolescenti in gita romantica di san Valentino. Tuffatosi il sole nel mare e calata la temperatura, proseguo su un sentiero a volte molto eroso, fino a lasciar affiorare i gradoni delle arenarie sottostanti. Raggiungo la prima casa, dove un vecchio sta lavorando. Da qui in poi il sentiero si snoda prevalentemente tra alti muri, prima di proprietà abbandonate, quindi tenute. Infine diventa una crosa lastricata di recente con mattoni rossi e persino illuminata dai lampioni appena accesi. Noto con piacere che l'inarrestabile sviluppo tecnologico del terzo millennio ha finalmente prodotto un modello di mattone aderente, anziché da pattinaggio come nelle crose tradizionali. A Sestri non mi resta che tornare dal fornaio a fare scorta di focaccia per l'inverno continentale, che peraltro in questo febbraio è mite e aprico come quello marittimo.

Per approfondire

M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
A. Cabona - M. Cabona (a cura di), Punta Manara, Genova 1989
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
A. Girani - S. Olivari, Guida al Monte di Portofino, Genova 1986
D. Pitto (soundofsilence), Riva Trigoso - Tersa Ciaseta - Erbun - Punta Manara - Monte Castello - Riva Trigoso, Luoghi da sogno
D. Pitto (soundofsilence), Cimitero Sestri - Forni - Ciappa Lupo - Scoglio Garibaldi - M. Castello - Cimitero Sestri, Luoghi da sogno

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