Santuario di Nostra Signora di Loreto 1340 m

Val Grande di lanzo

8 agosto


In un baleno

Sul prato all'inglese davanti all'ingresso della chiesa è stravaccata una chiassosa famigliola, che sta per essere educatamente rimossa dal compassato curato, che non manifesta giustificabili istinti omicidi. Il rumore è la cifra distintiva della civiltà del lavoro e del consumo e pertanto è fuori luogo in questa oasi meditativa

Nostra Signora di Loreto
Nostra Signora di Loreto

Diario di viaggio

[Gli italiani] certo vanno in montagna, ma solo per un picnic vicino all'auto
Iris Kürschner - Dieter Haas, GTA Grande Traversata delle Alpi, München 2013 (trad. R. Falco)

Il Sentiero Natura della val Grande di Lanzo è un insieme di sterrate, che consente di risalire la valle da Ceres, dove si separa dalla val d'Ala, fino a Forno Alpi Graie, ultimo centro abitato, evitando quasi completamente le strade asfaltate e del tutto la provinciale di fondovalle. Salendo per meno di mezz'ora ancora, è possibile raggiungere il santuario della Nostra Signora di Loreto, costruito tra Sette e Ottocento sul luogo di un'apparizione secientesca e aperto per tutto il periodo estivo.
Essendo una traversata, bisogna prevedere due auto oppure sfruttare l'autobus di linea, la cui ultima corsa del sabato è a metà pomeriggio e che la domenica non circola. Solo in certi giorni scolastici c'è una corsa dopo le 18. Viste le basse quote (tra 700 m e 1300 m), la stagione migliore non è certo quella scelta da me, nel pieno della canicola, legata alla convalescenza da una distorsione al ginocchio, che non volevo sollecitare con lunghe discese. Ad ogni modo, lo si può percorrere anche in estate, grazie alla discreta ombreggiatura e all'abbondante disponibilità di acqua lungo il percorso.

Parcheggio prima del centro, di fronte a dei tabelloni metallici, su cui sono incollati pochi manifesti scoloriti delle elezioni dello scorso anno. Prima di mettermi in marcia, mi fermo a prendere un caffè al bar della piazza. Nonostante sia di una marca che solitamente non apprezzo, la qualità adoperata ha un sapore molto intenso e gradevole, ma in compenso un'acidità da anticalcare: quando mi chinerò a riempire la borraccia alla fontana, mi genererà un fiotto di reflusso in grado di sciogliere la Pietà di Michelangelo. La giovane barista e gli attempati avventori, numerosi nonostante siano appena le 7, sono tutti senza mascherina; la barista solleva la sua tenuta a mo' di collana quando entro con bocca e naso coperti. Ricordo il terrore dei locali, quando venni qui nel primo giorno di riapertura agli spostamenti in regione: la percezione evidente è che ora il peggio sia ritenuto alle spalle.
Attraverso il paese diretto al cimitero, dove ricordo l'imbocco del sentiero diretto a Cantoira. Risalgo la via principale, tra belle casette, alcune con balconi tradizionali in legno, e guidato da un cartello imbocco una pista pedonale lastricata, che passa tra alcuni relitti di edifici ai margini del paese, quali liberty, quali razionalisti. Il centro probabilmente conobbe la stagione più florida quando fu raggiunto dalla ferrovia da Torino, il cui tratto in valle fu costruito dai prigioneri austriaci, durante la Grande Guerra. Ancora D'Annunzio e la Duse vennero insieme in vacanza da queste parti, mentre oggi il miglioramento dei trasporti, la popolarità delle spiagge e l'attrattiva degli eventi ha dirottato le celebrità verso i nonluoghi del divertimento, piuttosto che in un pacifico paese di montagna. Arrivo al cimitero, dove interrompo un signore, che aveva portato sé stesso e il suo cane a fare i bisogni, e imbocco la vecchia mulattiera lastricata, che scende tra terrazzamenti ripresi dal bosco di pioppi, fino a una pista inghiaiata.
Seguendo una linea elettrica trifase, alla base del pendio dell'inverso, entro in una successione di bei prati circondati da boschi, con qualche baita in pietra a secco abbandonata. Le montagne intanto sono baciate dalla luce del primo mattino, che quaggiù non è ancora giunta. Il fondovalle è abbastanza ampio, ma i fianchi sono molto ripidi, per cui posso godere ancora un po' del gradevole fresco del mattino, prima che il solleone agostano mi rosoli. Dal cimitero di Ceres avevo visto le rocciose forme dell'Uja di Calcante, ora sono sovrastato dai ripidissimi pendii erbosi dell'Uja di Bellavarda e delle cime limitrofe. Uja è il termine dialettale per guglia, mentre toponimi come vard indicano luoghi con molta vista. Questa cima lo merita, perché è una delle prime del contrafforte alpino e ha una gran visuale sulla pianura. Parlo per sentito dire, perché non ci sono mai salito, in quanto la gita classica è una salita ripida e diretta, con discesa per la medesima via, che mi attira poco. Ho ideato un grandioso anello di due giorni per raggiungerla, ma non mi è ancora capitata l'occasione favorevole per sperimentarlo. Passo da Case Luminate, dove ci sono una grande casa abitata e un pilone votivo a ricordo di una scampata tragedia. Incrocio un signore che porta a spasso un cane buono ma pauroso, che abbaia furiosamente contro di me quando ci incrociamo. Mi avvicino al copioso torrente, che ha un colore tra il verde e il blu e scorre tra massi, con numerose pozze. Supero il sentiero diretto per il santuario di Santa Cristina, che si trova a picco sopra di me e riesco anche a scorgere, e raggiungo quello che ci arriva invece con un giro più ampio via Senale.

Attraverso la Stura su un ponte pedonale moderno a schiena d'asino, in pietra con parapetti di legno, da cui vedo molti pescatori sul greto. Sulla ripa sono molto più numerosi i cespugli di buddleja, una pianta importata a fine Ottocento dalla Cina per motivi ornamentali e diffusasi spontaneamente. La sua attrattiva per i giardinieri sono i fiori lilla raggruppati in grosse pannocchie, che restano fioriti per tutta l'estate. Farfalle e api ringraziano, i salici magari un po' meno. Il nome dal suono esotico è una dedica di Linneo a un naturalista inglese. Sfiorato un bar con piscinetta, proseguo verso monte, oltrepassando una piccola centrale idroelettrica, con relativo canale di alimentazione, che seguo per un po' nel fitto bosco.
Sbuco all'aperto in corrispondenza di un'allevamento di vacche, da cui provengono i caratteristici odori dello stallatico e del fieno, quest'ultimo messo a seccare in gran quantità avvolto da teli. Una volta la produzione di formaggio avveniva negli alpeggi in quota, mentre oggi si portano su per lo più vitelli da carne con le loro mamme, mentre le vacche da latte stazionano nel fondovalle. Questo anche perché l'azienda agricola verticale, distribuita sui vari alpi della transumanza, richiederebbe di mettere a norma igienica e di sicurezza molti locali, secondo i medesimi requisiti richiesti negli allevamenti di pianura, con costi proibitivi. La toma di lanzo è perciò prodotta pincipalmente in allevamenti stanziali, che producono l'erba irrigando i prati di fondovalle anziché inseguirla con migrazioni stagionali.
Intanto mi rendo conto che il caffè di stamattina aveva un sapore così forte, che dopo due ore continuo a sentirlo in bocca. Di fronte a me, ancora piccola e lontana, compare la catena dei tremila rocciosi che sbarrano la valle. Più vicino ho i pascoli di San Bernè e, se avessi con me il binocolo, riuscirei forse a distinguere i più grandi degli ometti di pietra che lo punteggiano. Al loro margine destro si vedono i salti di gneiss che delimitano il vallone di Vassola. Mi avvicino fin quasi a lambire la carrozzabile di fondovalle, che corre sul suo margine sinistro, prima di oltrepassare nuovamente la Stura su un ponte di cemento e acciaio.
Mi trovo in un grande prato appena falciato e in parte irrigato con spruzzatori. Ci sono balle di fieno messe a seccare nel prato e molte altre accatastate in un fienile moderno, ma costruito mantenendo l'aspetto tradizionale in pietra. Facendo un ampio giro, raggiungo un gruppo di case e poi una chiesetta isolata dedicata a san Matteo, molto ben tenuta, con un curioso orologio più largo del piccolo campanile. Nello spiazzo antistante c'è una fontana, che si attiva al mio arrivo grazie a una fotocellula. Un bel pensiero, di cui approfitto, dal momento che fa già caldo, nonostante siano appena le 9. Apprezzo pertanto anche il fresco di un boschetto in cui mi inoltro subito dopo. Costeggio il grande locale agricolo con le balle e un gruppo di case rustiche con masso erratico, dove è parcheggiato un trattore altrettanto rustico. Sui fianchi della bassa valle ci sono molti depositi morenici della glaciazione wurmiana. La loro morfologia è oggi camuffata dalla massiccia azione degli agenti erosivi intercorsa nel frattempo, a differenza che nelle morene più recenti della Piccola Era Glaciale che si vedono in quota, ma i frequenti massi erratici e il tipo di roccia diverso da quello della basse valle le rende comunque riconoscibili.
Costeggiando dei prati, da cui sento provenire il rumore di un trattore, e un pilone votivo su un masso, dove la Madonna è raffigurata molto giovane, raggiungo frazione Gabbi di Chialamberto, divisa in due gruppi di case moderne. Mi immetto sulla strada asfaltata; poco più avanti mi appare in lontananza il campanile di Chialamberto. In corrispondenza di una sorgente con pilone votivo di ringraziamento, mi immetto su una pista erbosa, anche qui affiancata da cespugli di buddleja, e dal cimitero quindi su un'altra analoga. Da qui si diparte il sentiero per il maggengo di Urtirei.
A giugno ci incontrai un gruppo di persone che la pandemia ha relegato alle ferie in montagna, dove prima erano venuti al massimo per un picnic vicino all'auto. Con l'entusiasmo dei novizi, si cimentano in qualche passeggiata, senza sapere cos'è un sentiero, cos'è una cartina, cos'è la relazione di un'escursione, ma seguendo le prime indicazioni che trovano, contando che gli incontri casuali con montanari o altri escursionisti li indirizzino sulla retta via. Tutto rigorosamente senz'acqua né viveri. Erano partiti come fulmini, dopo un lungo conciliabolo con un abitante del posto, tra commenti stupefatti e angosciati sull'ambiente affrontato, un sentiero come tanti sui tipici pendii ripidi di queste valli. Salendo a strappi e dilatandosi, superandoci e intersecandoci ripetutamente, si erano infine persi nelle retrovie, incombendo con il loro vociare ad ogni nostra pausa per sniffare il profumo balsamico dei fiori di rododendro, oppure osservare una vecchia baita o una piazzola dei carbonai. Arrivati a Urtirei, non avevano nessuna intenzione di scendere per il periglioso sentiero e continuavano a chiederci indicazioni per tornare a valle, mai stanchi di sentire la medesima risposta sempre più seccata, mai sicuri di aver compreso, mai fiduciosi delle istruzioni date a un altro membro dell'eterogeneo gruppo, sempre brancolanti nel buio, sempre incerti su ciò che li avrebbe attesi. Ho deciso di chiamare urtiresi questi nuovi frequentatori di sentieri, in ricordo di quell'incontro.
Il sentiero avrebbe dovuto proseguire in quota nel bosco, ma c'è un ponte inagibile, per cui scendo a Inverso di Chialamberto, dove la bella cappella dedicata a san Barnaba, con due colonne bianche e il bel podio di legno e pietra, è circondata dalle auto scacciate dal parcheggio abituale del capoluogo, dove oggi c'è invece il mercato. Chialamberto è formato da belle casette di pietra a altre più moderne. Purtroppo la provinciale ci passa giusto in mezzo in uno stretto budello, che pertanto è poco vivibile qundo c'è viavai.
Senza raggiungere il paese, restando invece sul lato destro della valle, proseguo lungo una strada asfaltata fino a una indecifrabile costruzione di cemento con infissi in legno, di funzione ignota, magari invernale. Di fronte sono parcheggiati dei camper, i cui proprietari ciondolano nei dintorni, come è loro consuetudine. Più avanti un gazebo di legno è già stato occupato dai merenderos, mentre un gruppo di parapendisti sta per salire sul fuoristrada diretto al decollo. Oltre l'impianto del pattinaggio invernale, attraverso un'ampia area aperta, da cui individuo il quadratino bianco della chiesetta di Frassa con i pascoli di Crot più a monte. Entro nel bosco e trovo un tavolo dove sistemarmi per uno spuntino, in corrispondenza del bivio per Missirola. Passa un po' di gente a spasso, tra cui due signore che mi chiedono le indicazioni per la strada diretta ad Urtirei. Gliela indico (è poco lontana) e mi chiedono anche se è molto ripida. Non l'ho mai percorsa e non mi mi pronuncio, anche se avendo percorso i contigui sentieri per Urtirei e Missirola un'idea me la sono fatta, ma non voglio scoraggiare queste due urtiresi prima della partenza.

Supero il ponte per Mortera e Bussoni, costeggio la copiosa e rumorosa Stura che scorre regimentata e rettilinea tra due sponde artificiali fatte di massi ed erba. Credo che molti dei lavori di arginatura che vedrò siano stati eseguiti dopo le disastrose alluvioni del 1993 e 2000, che provocarono un'ingente quantità di danni. Si portarono via anche la memoria storica, travolgendo anche vari ponti antichi, e a Germagnano dilavando il cimitero. Nel corso della prima, piovvero 300-400 mm di acqua fino a 3500 m e si formò un lago addossato a una morena frontale della Piccola Era Glaciale. Il peso dell'acqua sfondò il muro di materiale incoerente e trascinò a valle un'immensa massa di detriti grossolani mista a sabbia, a ondate successive. Forno Alpi Graie, che sorge vicinissimo al torrente, allo sbocco del vallone da cui arrivò il fiume di fango e massi, si salvò solo perché fu costruito dietro la protezione di un affioramento roccioso e non ha conosciuto l'espansione edilizia inconsulta di altri centri montani, non potendo contare su piste da sci. Fu pertanto invaso solo da una colata laterale e non dalla principale, precipitata con una forza che avrebbe spazzato ogni cosa.
Cammino ora tra una vegetazione fattasi più montana, con aceri di monte, pur ancora tra pioppi bianchi. Il posto è ombroso e ricco di muschio. Sul fondo della pista sono scomparse le pietre verdi della bassa valle e sono comparsi invece le rocce continentali africane dell'alta. Sono circa le 11 quando mi imbatto nei primi turisti stesi nel prato a prendere il sole in costume. Passo sulla sponda opposta grazie a un ponte pedonale, da cui ammiro l'infilata del torrente rettificato in una piana e della testata della valle. Proseguo sull'argine in un ambiente più solatio e riarso, tra vegetazione ripariale e boschina. Uno scrausissimo campetto da calcio è abbondantemente irrigato da uno spruzzatore, al punto da essere divenuto una grossa pozzanghera, che devo aggirare.
Torno sul versante destro grazie a un ponte, da cui vedo in alto la bianca cappella dei Rivotti. Intanto alle mie spalle la cima della Bellavarda, prima avvolta dalle nuvole, è ora nuovamente scoperta, ma sempre circondata da nuvoloni. Il caldo è già sufficiente a renderla più chiara e blu per la prospettiva aerea. Entro in un bel prato, con vacche, cavalli e oche al pascolo, e con al centro la casetta del pastore. Il fondo terroso della pista è duro e secco, con gran gioia delle vespe, che hanno potuto farci il nido senza essere molestate dalla pioggia. Guadagno un po' quota e supero un rio su un ponte di legno, per poi passare tra appezzamenti prativi con massi erratici e baite. Sull'altro lato della valle si delinea Migliere, mentre dalla Stura, nascosta alla mia vista, odo urla gioiose di ragazzini. Mi avvicino ad essa, che scorre tra i massi, con cascatelle e pozze e la costeggio a lungo, intercettando la GTA diretta ai laghi del Trione.
Attraverso una zona più solatia e raggiungo le case abbandonate di Losere, dove incrocio una ragazza con i capelli neri corti, accompagnata da due cani dal pelo nero corto e seguita a breve distanza da tre giovani coolie, armati di sedie e tavoli pieghevoli, oltre che delle provviste contenute in una cassetta. Entro in una faggeta molto suggestiva, con tanto di muschio e massi erratici, con un terreno finalmente un po' più umido. È uno dei punti più esteticamente appaganti dell'intero sentiero, oltre a quelli dove la Stura scorre tra massi, pozze e cascatelle. Non faccio tuttavia in tempo a godermi il posto, che da uno squarcio della vegetazione mi appaiono un'area camper e dei condomini moderni lungo la strada.

Entro quindi in una vasta zona pianeggiante, dove il torrente scorre rettilineo tra sponde formate di massi. Oramai la bastionata che chiude la valle è così imponente che non ci sta più nell'inquadratura del mediotele che ho montato sulla mia fotocamera. Trovo un masso piatto all'ombra e lo eleggo a luogo per il pranzo. È qui che guardando l'orologio, mi viene l'idea di prolungare l'escursione fino al santuario. Mi fermo perciò solo una mezz'oretta, per poi ripartire ancora per un breve tratto all'ombra, tra faggi e massi erratici, superando un piccolo rio che scorre tra grandi massi.
Passo quindi sul versante sinistro, stretto tra la strada e il torrente, sotto un sole a picco, in ambiente riarso di boschina a vegetazione ripariale di salici. L'insolazione è tale che il paesaggio circostante, senza ombre, mi sembra tutto slavato, tanto il terreno quanto le foglie degli alberi, come in una foto sovraesposta. Raggiungo Borgo Pietra, che presenta delle architetture tradizionali, a volte abbandonate, accanto a case recenti in stile incongruo, simile a certe casette di periferia del boom economico, senza un piano architettonico omogeneo. Ci sono poi fili e pali della luce estesi ovunque: fanno rimpinagere quelli di Bangkok, perché non sono abbastanza etnici da prestarsi a una foto, ma in compenso inquinano ogni altra possibile inquadratura. C'è una fontana con tettoia, dove incredibilmente non c'è scritto che l'acqua non è potabile, come quasi ovunque, ma più correttamente che non è controllata. Peraltro vedo un ragazzo uscire da una casa con delle bottiglie vuote in mano, per andare a riempirle proprio lì.
Proseguo lungo la sterrata, nello stretto spazio tra l'alveo del torrente e la strada principale. Va detto che è quest'ultima a ricalcare il percorso storico della mulattiera, come testimoniano le edicole votive accanto alla carreggiata. Il conte di Mezzenile doveva proseguire a piedi da Lanzo, perché, ai suoi tempi, oltre c'erano solo mulattiere. Un primo tratto fino a Ceres fu completato a metà Ottocento. La carreggiabile fino a Forno fu inaugurata in pompa magna il 1° settembre 1878, a undici anni dalla prima assemblea informale, in cui si era per la prima volta discusso del progetto. In quella sessione, il marchese Clavarino, villeggiante di Mottera, tenne un accorato discorso a favore, in cui riecheggiava l'ottimismo positivista per il «civile progresso» morale e materiale, che secondo lui con la strada sarebbe salito dalla grassa pianura fin sui monti. Nella sua orazione, le considerazione economiche occupano la maggior parte dei pensieri: riteneva che avrebbe ridotto i costi per l'approvvigionamento delle derrate alimentari della pianura e aperto i mercati ai prodotti degli alpeggi. La realizzazione incontrò non poche difficoltà, tra opposizioni di certe comunità, ricorsi di privati, problemi con le ditte appaltatrici e lungaggini burocratiche. Ad un certo punto il marchese, che era stato eletto presidente del comitato promotore, rassegnò le dimissioni per via di alcuni dissidi, salvo poi ritirarle dopo che gli fu richiesto quasi all'unanimità di ripensarci. Alla fine la strada costò il triplo di quanto prospettato dal marchese in quella prima riunione. Insomma, tutti gli elementi della commedia all'italiana che conosciamo bene erano pane quotidiano già allora, mentre era molto diversa l'idea del bene comune, oggi abbandonata a favore del profitto individuale di breve termine.
Mi allontano dalla carrozzabile e trovo quattro signore che hanno montato tenda, tavolino e sdraio accanto agli scappamenti dell'auto e si stanno riposando dalle fatiche del pranzo. Mi manca la sfacciataggine di fotografarle. Come questi ne trovo in successione molti altri, seppur più diradati che in posti come il Pian della Mussa: nonostante sia al fondo delle valli che questa gente si addensa, qui è la quota è inferiore e magari per questo meno attraente. Una signora avanti con gli anni se ne sta seduta direttamente nel baule, a piedi nudi. Alcuni invece sono al torrente, ma purtroppo per loro qui è in piano e non fa pozze dove potersi immergere. Inoltre la portata è magra, perché credo che una certa parte di acqua scorra nel sottosuolo, tra le porosità del detrito, come spesso capita in questi piani alluvionali. Incrocio poi un gruppetto a passeggio, tra cui c'è un adolescente rotondetto, che ha fatto la bravata di partire a piedi nudi, come se fosse in una spiaggia romagnola, e ora fa curiose smorfie a ogni passo per il fondo sassoso.
Seguendo i segnavia, aggiro Forno Alpi Graie e finisco al ponte sulla Stura che immette ai sentieri diretti alla testata della valle. Seguo l'ombrosa sterrata sulla sinistra, tra numerosi merenderos nei prati (vedo che l'amministrazione ha predisposto dei WC chimici gratuiti a beneficio loro e del decoro). Tralascio il sentiero diretto al vallone di Sea e anche ogni discorso su di esso: richiederebbe un trattato sull'arrampicata moderna in falesia e vari argomenti correlati, di cui ne esisteranno senz'altro molte versioni, per gli interessati (alcuni cartelloni in loco ne illustrano alcuni fondamenti). Supero invece un ponte di legno e imbocco la scalinata devozionale di 444 gradini (non li ho contati, preferendo ammirare la faggeta), lungo cui ci sono innumerevoli targhette a ricordo dei benefattori del santuario.
In pochi minuti, nel fresco della faggeta, senza la lingua penzoloni o almeno una sudata etichettabile come purificazione, raggiungo il piccolo piazzale con gli edifici, allungati contro il ripido fianco della montagna. Sul prato all'inglese davanti all'ingresso della chiesa è stravaccata una chiassosa famigliola, che sta per essere educatamente rimossa dal compassato curato, che non manifesta giustificabili istinti omicidi. Il rumore è la cifra distintiva della civiltà del lavoro e del consumo e pertanto è fuori luogo in questa oasi meditativa. Anche se questa religione ha alterato l'originale racconto del diluvio, in cui gli dei mandavano il flagello perché disturbati dal rumore degli uomini, lo ha sommessamente integrato nella sua prassi edificando santuari del silenzio come questo. Alcuni volontari stanno trafficando nell'ospizio per i pellegrini.
Lasciati lo zaino e le bacchette sull'uscio della chiesa, entro ad accendere un cero alla dea madre della montagna per il mio ginocchio, lasciando in pegno la salita a piedi dal posto più lontano possibile, come impone la mia religione escursionistica. Ammiro poi i numerosi quadretti di ex-voto appesi alle pareti, dipinti con stile ancora più semplice e ingenuo che i piloni votivi dei pittori erranti. Non mi sembra di vederne di recenti. Ce n'è ancora uno dell'ultimo conflitto, di due ragazzi scampati ad un rastrellamento, nascondendnosi in un anfratto della stalla. Nuto Revelli racconta che sulle sue montagne, mentre la resistenza armata riceveva giudizi contrastanti, la renitenza era unanimemente supportata. Tra i molti di malati guariti, quasi tutti raffigurano persone nel proprio letto: solo in uno degli Anni Sessanta compare un letto di ospedale con camici bianchi e flebo. Dopo aver curiosato tra i libri usati in vendita e comprato una cartolina di fattura e prezzo Anni ‵80, torno a valle stavolta passando dalla rampa lastricata di gneiss, dove c'è una Via Crucis.

A Forno origlio i discorsi di due urtiresi molto pigri, che non hanno nemmeno la voglia di arrivare al santuario, giudicandolo troppo remoto e faticoso, ma cercano un posto indicato a dieci minuti dai cartelli. Mostrano di pensare che la mezz'ora di attività fisica quotidiana raccomandata dai medici sia il limite massimo. Vado poi a consumare una merenda al bar, in attesa dell'autobus per Ceres. Purtroppo hanno finito la birra Vertical, prodotta in pianura ma dedicata a questa valle; i proventi vengono infatti devoluti anche ad opere a beneficio degli arrampicatori e degli escursionisti. Devo perciò ripegare su una birra che trovo anche al supermercato sotto casa, ma almeno la toma di Lanzo del panino è buona. Il bar mi sta simpatico, perché sui comignoli tiene il biancoun, come è detto qui il sasso aguzzo che serve a tenere lontane le masche, le streghe della tradizione piemontese. Qui nelle valli di Lanzo hanno credenze un po' diverse dalla media, perché non hanno una separazione tra fate benefiche e streghe diaboliche, ma la masca può rivestire entrambi i ruoli. Al bar sono molto rigorosi sulle misure contro l'epidemia, per cui tengono le distanze e non fanno entrare nessuno all'interno, neanche per usufruire dei servizi. Indirizzano invece al WC chimico comunitario della piazza, dove non c'è il sapone, ma almeno per un uomo è sufficientemente pulito.
L'autobus è già parcheggiato nel piazzale del paese, che oggi si presenta come un affollato parcheggio circondato da poche case. Condivido il viaggio con un signore, salito al Daviso a mangiare la polenta e sceso a rotta di collo per non perdere la corsa, e alcune suore di stanza a Ceres, in gita domenicale. L'autista indossa un'etnica mascherina con stemmi del Toro, tenuta sotto i baffi, e saluta un sacco di gente lungo la via. A Ceres concludo con un caffè, meno nitrico che al mattino, ma sempre buono, prima di salire sull'auto arroventata.

Per approfondire

M. Castagneri - B. Guglielmotto-Ravet, Riflessioni sulll'alluvione del 24 settembre 1993 nella Val Grande di Lanzo, Lanzo Torinese 1997
C. Chiariglione - L. Duva - G. Silanos, Chiese e cappelle nella Val Grande di Lanzo : comuni di Groscavallo, Chialamberto, Cantoira : schede d'inventario, Lanzo Torinese 2000
G. Teppati, La strada carreggiabile della Valle Grande di Lanzo, Lanzo Torinese 1980

Galleria fotografica

Ceres e Uja di Calcante
Ceres e Uja di Calcante
Case Luminate
Case Luminate
Case Luminate
Case Luminate


Piagni
Piagni



San Barnaba
San Barnaba
Chialamberto
Chialamberto

Bussoni
Bussoni



Losere
Losere
Losere e Ballavarda
Losere e Ballavarda

Campo della Pietra
Campo della Pietra
Campo della Pietra
Campo della Pietra
Campo della Pietra
Campo della Pietra
Nostra Signora di Loreto
Nostra Signora di Loreto
Forno Alpi Graie
Forno Alpi Graie
Nostra Signora di Loreto
Nostra Signora di Loreto
Nostra Signora di Loreto
Nostra Signora di Loreto
Stura di Sea
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