Drayae a parte ubaqui

Val Varaita

7 giugno


In un baleno

Il turbolento meteo estivo, le fioriture, i percorsi storici, gli alpigiani che resistono, il turismo che colonizza in modo nuovo i vecchi insediamenti, il selvaggio alla riscossa, una cartina medievale (accatastati in ordine sparso)

Monte Nebin
Monte Nebin

Diario di viaggio

Rimedio un caffè gradevole al consolidato bar di Sampeyre, accanto all’albergo in stile Falchera alpina con il nome della cima Coppi di oggi, poiché da qui fa capolino sopra i boschi verde cupo con la sua calotta di erba verde chiaro. Tale caffè non può tuttavia competere con quello dei napuli veraci accanto alla stazione di Porta Nuova, gustato ieri mentre all’uscita dal lavoro andavo ad acquistare la cartina aggiornata.
Per mancanza di spazio pubblico, accuccio la Panda sulla banchina della strada, nei pressi della cappella di Calchesio con i tebei originali dipinti assieme a Chiaffredo. A fine giornata, mi renderò conto di non aver raccolto neppure una sola istantanea dei tanti san Chiaffredo, chi a piedi, chi a cavallo, sempre e comunque presenti più di Mauro Corona.
Il tratto superiore del percorso progettato, dai pressi di Meira Garneri al colle di Rastcias, è riportato come non segnalato sulla mia carta, ma su Street View ho visto all’imbocco un cartello, illeggibile in foto, e un segnavia su un larice. Noto perciò con piacere che alla partenza una palina indica esattamente questa meta con una sigla involontariamente ostalgica, DDR appunto, non perché contano solo sui camminatori tedeschi, ma perché significa draie del Rastcias, dove draia è il termine occitano per le piste del bestiame. Il sentiero unisce Calchesio con Macra al modico prezzo di 9.30 ore di cammino e 1500 m di dislivello. Sul terreno scoprirò che sono, se non il primo, uno degli sparuti bipedi ad aver percorso il tratto sommitale dopo la segnatura; i predecessori non hanno lasciato testimonianze digitali.

Dalle semplici case di Garneri la mulattiera lastricata risale diretta il pendio tra due file di alberi, che la isolano dai prati circostanti, immagino come difesa dalle mandrie transumanti. Sfuggito il compendio visivo migliore di prati e case, nel fitto bosco misto, tra meire dirute attorniate da risicati prati incolti in via di naturalizzazione, il primo scatto è per un pilone votivo adornato dal culto di un maggiociondolo. Dopo molto silenzio, mi affaccio sul fruscio di un torrente e contemporaneamente sulla densa foschia, che permea la valle inferiore, sino a oscurare del tutto ogni oggetto un chilometro più lontano e quindi pure il sole, per poi arrestarsi proprio qui di fronte a un barriera invisibile in favore di un cielo azzurro. È grigia come le pantegane del Progno, che attorno alla casa dei nonni vedevo spiaccicate a frotte dalle auto dopo i temporali, e mi fa sudare copiosamente per l’umidità accoppiata al caldo prematuro. Dove infine il bosco si dirada per lasciare spazio ai prati di Fondovet, l’erba arriva alle ascelle e la traccia è poco più di un filo di seta nel tessuto erboso, poeticamente accarezzata da acqua sorgiva. Il vecchio insediamento stagionale, divenuto aggregato di seconde case ristrutturate con pietra e legno a vista, non pare avere villeggianti, sebbene l'afa inviti alla transumanza settimanale.
Bevuto alla fontana, titubo un po’ su quale direzione prendere, per optare infine sul col Sampeyre, dove ora il cielo è sereno, ma non lo resterà per sempre, mentre è già più fosco verso il colle Rastcias. Fendo dapprima un rado bosco misto, credo pertanto pascolato, di larici e cembri, tappezzato di minuscoli fiori gialli e bianchi, rari botton d’oro, poi una conca prativa assediata ai margini dai rododendri detestati e bruciati dai pastori, più apprezzati dai tedeschi che romanticamente li chiamano a ragion veduta rose delle Alpi, e occupata da distese di anemoni narcissini; qui ma soprattutto sui prati in cresta e in discesa copiose saranno le genziane blu scuro che in Piemonte chiamano genzianelle, sia quelle a campanula che a cinque petali, le viole tricolori e le pannocchiette di fiori rosa delle bistorte, con sporadiche apparizioni di pulsatille, giallorossi tulipani dei campi e una quasi singola di genziana maggiore. Lista avvincente come l’elenco dei guerrieri persiani di Eschilo declamati da un attore con uno stendibiancheria in testa, se non ci si è passati in mezzo.
A posteriori mi rendo conto che l'esperienza odierna è ineffabile: solo chi ha bagaglio e attitudine escursionistiche simile alle mie, può fare proprio il piacere che mi ha offerto, mentre nella descrizione resterà inafferrabile come un ossimoro, un po’ come le esperienze di armonia con la legge universale dei monaci asiatici.
Raggiunta la strada, mi superano frotte di ciclisti e qualche sporadico motociclista, oggi meno numerosi del solito per la chiusura causa lavori della strada dei cannoni lungo la dorsale Maira-Varaita. Al colle mi siedo sul monumento a riposarmi e bere, mentre il capannello di ciclisti, che dalla strada non hanno potuto ammirare nulla di tutte queste fioriture, parla di Fauniere, gare e così via. Qualche escursionista è sceso dall’auto e si appresta a una passeggiata lungo la dorsale.

Con un salita dolce verso est raggiungo un primo dosso, il Cugn di Goria, tra nuvole che salgono e si dissolvono, Alpi Marittime che vi galleggiano sopra, tappeti di fiori su cui in certi punti sarebbe da correre a piedi nudi urlando di gioia, se non ci si facesse male coi sassi e non detestassi il frastuono umano. Resterà così a lungo, finché spariranno le nubi basse, nel senso che dopo lo zenit solare vinceranno la loro quotidiana lotta estiva e faranno sparire tutto il resto. Per tracce più ripide scendo alla strada dei cannoni, dove un ciclista si illude che io sappia se a piedi si passi nonostante la chiusura. Attacco quindi la dorsale del Nebin, rigorosamente escursionistica, ovvero dritta per dritta senza accenni di tornanti, sempre su traccia tra erba bassa. Gli strati rocciosi sono circa ortogonali al versante della val Varaita, che quindi è un salto roccioso fratturato, paralleli all’opposto, che è morbido. Per questa ragione non è rimasto neppure uno dei cembri (elvou in dialetto) che danno il nome ad Elva, né alcun sasso, ma l’intera conca è stata trasformata in un immenso prato. Fin dal colle vedo la stazione meteo, sulla spalla occidentale della cima dietro cui solo all’ultimo appare la croce metallica più magnificente di oggi, dall’architettura reticolare di un traliccio e affiancata da una madonnina in una nicchia.
Un po’ per devozione un po’ per esaustione mi fermo tra le due a rifocillarmi, sebbene l’adiacente cima meridionale sia di qualche metro più elevata e abbia una morfologia più alpinistica: sono appena le 11.30, ma dalle 5 ho giusto preso il caffè, schifando pure il cioccolatino a corredo. Inghiotto un grosso panino con stracchino e pomodori, seguito da albicocche, messe acerbe nello zaino nella speranza niente affatto mal riposta che con il caldo odierno maturassero, e sali di potassio e magnesio. Per pigrizia ieri pomeriggio non sono passato al supermercato a prendere del cioccolato, men che meno dei dolcetti nella panetteria artigianale distante due chilometri, per cui il solo dessert è un mezzo panino con burro e miele di castagno, che tengo da parte.

Arrivo alla cima più elevata in contemporanea a una signora con due canette, che non mi considerano, mentre al colle successivo un ciclista attraversa e scende in val Varaita: forse dunque le tracce riportate su Fraternali e OSM esistono per davvero, o almeno lui ne è fiducioso. Delle tacche biancorosse guidano l’aggiramento di uno sperone roccioso, per poi abbandonarmi sul dolce declivio che mi conduce al Cugulet. Qui la croce è più modesta, due tubi metallici ortogonali, ma include una cassetta con libro di vetta su cui annotare il mio passaggio. Su di essa è incisa una trionfale citazione paolina e i pochi che hanno scritto ripetono l’altrettanto esultante salmo del pastore.
Poiché la vittoria nembica è imminente e la cima successiva, la Lubin, appare più rocciosa, ripida e boscosa delle precedenti, decido di scendere alla sterrata. Avvolto nella nebbia, per dorsale calo al colletto successivo e di lì punto alla sterrata su un prato così ripido che sarebbe più indolore rotolare, in mezzo alla più lussureggiante fioritura odierna di anemoni. La tensione e l’ansia montante mi fanno temere senza fondamento di trovare una ripa troppo alta sul margine della strada, lungo cui nugoli di ciclisti si susseguono in ambo le direzioni: mentre passa sotto un roccione, ne fotografo uno con un pizzetto brizzolato alla Gambas, quindi due imprecano contro il tempo balengo che toglie il panorama, senza accorgersi della ben visibile fioritura di anemoni subito sotto la strada. In contemporanea sento dei tuoni.
Al colle Rastcias si dissolve la nebbia, ma ho a malapena il tempo di notare i nuvoloni scuri arrivare dal Pelvo, prima che questi mi riversino addosso un temporale, breve ma intenso e corredato di minuscoli chicchi di grandine. Ringraziato il Buon Pastore di avermi condotto alle placide acque della sterrata, nella più totale assenza di ripari sono costretto a indossare la giacca e il coprizaino. Tutto mentre vago a destra e manca cercando invano di capire dove diavolo parta il sentiero DDR che ho nuovamente intercettato: c’è un cartello con indicazioni per Macra, ma non vedo alcuna traccia in direzione opposta. Risalgo come possibile l’erta ripa della sterrata e all’insellatura trovo delle tacche smunte, un po’ meno la traccia. In effetti non saprei dire come sono riuscito a seguire questo sentiero fino alla strada del col Sampeyre, senza neppure aggrapparmi al GPS, perché, nei prati abbandonati e negli impluvi di slavina colonizzati dagli ontani, la traccia è meno che un filo di vegetazione meno folta e le tacche frequenti come le mie serate mondane: il Buon Pastore non conduce più mandrie quassù, così gli è rimasto tempo da buttare da dedicare a me (è arduo restare lucidi e coerenti nel pensiero, quando temi di perderti nel bosco e percepisci l’irrazionale irrompere nel tuo cammino).
Il paesaggio peraltro ha anche il suo fascino selvatico, specie ora che le nuvole temporalesche e i loro tuoni in allontanamento creano una sintonia tra il tumulto del cielo e il ribollire di vegetazione esuberante e caotica; preso come sono a non perdermi non ci faccio però caso quanto meriterebbe. Sento anche dei richiami di un cervo, senza riuscire a vederlo o sentire i suoi passi. Ben presto la vegetazione bagnata dal temporale infradicia gli scarponi fino all’interno; non trovo neppure un posto asciutto dove appoggiare lo zaino per levare la giacca di dosso, dopo che con il ritorno del sole tiene un caldo asfissiante. Avrei voglia di consultare il GPS, come quando si è estenuanti e si martella di «Quanto manca?» la guida umana, perché spero che dietro a ogni curva appaia il porto, specie dopo aver udito un motore. Allo sbocco sulla strada il cartello di Street View indica per la salita il tempo che ho impiegato in discesa.

Risalendo la strada vado a fare una merenda ruspante al ricercato Meira Garneri, con una focaccia farcita di salame e formaggio e l’asprigna birra agricola con segale alpina che si chiama come l’altezza del Monviso. Il gestore racconta che fino a un paio di anni fa la Regione pagava degli operai per falciare l’erba sui sentieri, ma ultimamente non è più passato nessuno e si sono dovuti arrangiare loro nel tempo residuo. Si lamenta del fatto che attualmente sono l’unica possibilità di ristorazione tra Sampeyre ed Elva, con un sovraccarico ingestibile specie con la neve e gli impianti aperti, in quanto non sono strutturati come mangimificio per le folle ma come rifugio. Inoltre specie dopo il Covid è molto difficile trovare stagionali a sufficienza.
Seguo una ripida pista erbosa fino a Meire da Fiour (nomen omen), dove tralascio l’indicazione per MTB verso l’erba alta e compatta, in favore dell’asfalto, con affaccio su una conca fiorita. Ben presto però, per evitare un lungo giro su asfalto, devo comunque ravanare nell’erba alta con gli occhi sul GPS, nell’impossibilità di dedurre dal terreno dove accidenti passi il sentiero. Oltre Fondovet mi immergo in un bosco molto rilassante di cembri con abeti bianchi dapprima, con larici successivamente; peccato solo che non senta il profumo di resina come qualche anno fa in questa stessa stagione. Dalla sterrata dipartono verso valle dei sentieri ardui da seguire e segnati poco e molto artigianalmente. A Tenou ci sono i soliti vecchi pastori con vitelli piemontesi da carne, ma senza il cane socievole che avevano qualche anno fa, attorno alla semplice chiesetta e alle case tradizionali con i muri in pietra intervallata a travi di legno; il legno serve a livellare i muri, per l’indisponibilità di rocce che si fratturano in lastre regolari e resistenti (ho visto questa rara tecnica impiegata pure in Valle d'Aosta).
Scendo su un sentiero ben ripulito dai pastori (mi pare bizzarro definire sporco l’erba, ma così si usa), ammirando la luce della sera su Cima delle Lobbie, una delle pochissime cime secondarie del Monviso con nome derivato dalle metafore dei montanari e non dal patriottismo irredentista del Valbusa (le lobbie sono i balconi alti su cui si secca la legna). Il toponimo del paese significa invece “borgo nuovo” ed è presente nella Figura debati Castri Delfini a parte ubaqui, un disegno medievale (1422) di questo versante; l’uso cuneese di tetto per gruppo di case, suggerisce che fu opera dei valligiani piemontesi di Villar e non di quelli francofoni della Castellata. Il vecchio confine linguistico e politico è ancora evidente qui vicino nel passaggio dal termine meire a grange per indicare gli stazionamenti delle stagioni intermedie.
La Figura riporta anche il proseguimento di questo sentiero di transumanza verso il col Sampeyre (Draya Traverseria), oggi scomparso, prati ed edifici pastorali oggi ridotti a puntini innominati sulla carta nella foresta a monte, cognomi ancora esistenti (Garneri, Isoardi). Generalmente il patrimonio storico è piuttosto associato a chiese marmoree o monumenti bronzei, ma anche oggi ne ho visitato in abbondanza camminandoci sopra in mezzo a cembri e rododendri, piloni e meire: certo sono dovuti ad anonimi montanari sfuggiti ai registri della Storia, piuttosto che a celebrati santi, eroi, poeti e navigatori, ma credo che dovremmo averne la stessa cura e apprezzarli allo stesso modo, perché testimoniano la capacità dell'umanità di elaborare una cultura originale per adattare un suo comportamento caratteristico, la migrazione, a un ambiente ostico.
Proseguo lungo il sentiero rasato diretto alla strada, la quale fa un giro più lungo rispetto ai sentieri ma evita ulteriore erba alta. Dopo alcuni imponenti maggiociondoli fioriti, mi affaccio su un vecchio lago glaciale ora interrato (ci sono rocce montonate sull’orlo), che l’emissario ha scavato profondamente nella roccia tenera, creando un anfiteatro fiorito. I prati fioriti trasmettono a me la stessa sensazione che di solito si prova verso la neve intonsa, il desiderio di saltarci dentro con il senso di colpa di rovinarla ai visitatori successivi: ho scelto deliberatamente di allungare da qui anche per ammirarli. Poco più in basso, in corrispondenza di un pilone, ritrovo il sentiero (iter nella Figura) e lo seguo nel bosco dapprima di aceri, quindi con faggi anche imponenti, nuovamente su un fondo più morbido. DI questo tratto annoto un passaggio ai piedi di un salto di roccia aggettante e fratturata.

Mentre il sole sparisce dietro ai monti, a Torrette faccio il pieno di acqua, quasi terminata dopo il rifornimento al rifugio, e mangio il mezzo panino dolce. Torrette è una frazione molto curata, seppure senza un centro di socializzazione, per cui a ora di cena sono quasi tutti rintanati in casa. Avvisati i cari della permanenza in vita e dell’ora di arrivo, dall’uscita a valle del paese imbocco il sistema di sterrate che corre sul versante destro della valle tra Sampeyre e Casteldelfino, a volte accanto al torrente, a volte un po’ a monte con risalite, tra boschi, prati spietrati e annessi mucchi, macchie gialle tra i canaloni che scendono dall’Alevè per una fioritura di ginestre e la linea ad alta tensione della centrale alimentata dalla diga di Pontechianale. Mi pare di vedere l’imbocco dei sentieri che salgono in alto. Il versante è privo di centri abitati fino a Calchesio, non fosse per qualche casa e una bocciofila presso Villar, da cui sta uscendo chi chiude. Tra boschi sempre più tenebrosi per la notte incipiente, arrivo quando le luci dell’albergo con piscina sono già accese ed è troppo tardi per chiedere una cena a chiunque, tranne forse alla birreria di Melle, che però il sabato sera non ha mai tavoli liberi. Inoltre domani mi alzerò abbastanza presto per portare a spasso degli alpaca, prima che faccia troppo caldo, per cui non posso attardarmi eccessivamente.

Complessivamente questa intensa escursione è stata un’immersione sia tra gli elementi naturali della montagna, sia tra gli attuali aspetti della colonizzazione umana, da quelli tradizionali a quelli innovativi, davvero multiforme per come è riuscita a intercettare tantissime sfaccettature tutte assieme: il turbolento meteo estivo, le fioriture, i percorsi storici, gli alpigiani che resistono, il turismo che colonizza in modo nuovo i vecchi insediamenti, il selvaggio alla riscossa, una cartina medievale (accatastati in ordine sparso). A me piace tutta questa realtà in imprevedibile mutamento su ogni scala temporale, che spesso esula dagli ignoranti stereotipi dell’idillio alpestre o della natura incontaminata contrapposta alla città, propugnati a beneficio del turismo motorizzato. Tuttavia, se perdessi il lavoro e mi trovassi costretto a lanciare la mia versione di turismo esperienziale, dubito seriamente che riuscirei a fidelizzare la clientela, anche ammesso che riuscissi a individuare almeno un esemplare interessato. In alternativa potrei caricare su OnlyFans i video della rimozione delle zecche dalle chiappe ignude.

Per approfondire

H. Falque-Vert, Les hommes et la montagne en Dauphiné au XIIIe siecle, Grenoble 1997
J.C. Perrin et al., Muri d'alpeggio in Valle d'Aosta : storia & vita, Scarmagno 2009
T. Vindemmio - G. Di Francesco, Oncino, Crissolo, Ostana. Tre comunità occitaniche alpine. Microstoria dell'alta valle Po, Pinerolo 2004

Galleria fotografica

Pilone con maggiociondolo
Pilone con maggiociondolo
Iscase
Iscase
Fondovet
Fondovet
Draia per il col Sampeyre
Draia per il col Sampeyre
Monte Nebin
Monte Nebin
Pian delle Baracche
Pian delle Baracche
Monviso
Monviso
Alpi Marittime
Alpi Marittime
Monte Oronaye
Monte Oronaye
Monte Nebin
Monte Nebin
Strada dei cannoni
Strada dei cannoni
Anemoni narcissini
Anemoni narcissini
Meire da Fiour
Meire da Fiour
Nemus de Fontanellis
Nemus de Fontanellis
Val Varaita
Val Varaita
Tenou
Tenou
Pra Grant e Cima delle Lobbie
Pra Grant e Cima delle Lobbie
Testa di Garitta Nuova
Testa di Garitta Nuova
Becetto
Becetto
Il lago interrato
Il lago interrato
Torrette
Torrette
Torrette
Torrette
Rive droite
Rive droite
Villaretto
Villaretto

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Sergio Chiappino

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