AV5T: Riomaggiore-Porto Venere

Cinque Terre

11 febbraio


In un baleno

La prima cosa che penso è che mi piacerebbe venire qui in una notte di luna a fotografare

Pitone
Pitone

Diario di viaggio

La traversata da Riomaggiore a Portovenere consente di scoprire non poche peculiarità del Parco delle Cinque Terre, dal livello del mare alla collina, e si presenta perciò densa di spunti naturalistici e antropologici. Trovo che in genere le Cinque Terre diano il meglio di sé nei percorsi che attraversano la pluralità di ambienti che le costituiscono, piuttosto che con escursioni monotematiche: infatti la natura e lo colonizzazione umana cambiano radicalmente in poco spazio.

Arrivo a Riomaggiore in una fresca mattina d'inverno, mentre è in corso una rombante mareggiata, generata dall'intenso libeccio di ieri. Il cielo non si è ancora sgombrato e il sole è rimasto oscurato da spesse velature; al largo aleggia inoltre una densa foschia, che rende Punta Mesco indefinita e cupa come uno spettro gotico. Attraversato il tunnel pedonale e sceso alla marina, dove c'è una no-fly zone per i droni. Mi inerpico su un paio di punti panoramici (uno dei quali è successivamente raggiunto da un'ondata più alta della media), da cui fotografare le case e gli spruzzi, artefici di una nebbiolina salmastra che tutto avvolge. In cielo c'è la luna quasi piena, in procinto di tramontare sul mare. Cambio obiettivo con molta accortezza. Purtroppo un poggio strategico, da cui una volta ripresi il paese al tramonto, è transennato per lavori ed è stata rimossa una fotogenica agave, dopo essere fiorita e morta. Assieme a me gironzolano pochi altri turisti, anche loro tutti intenti a fotografare; la maggior parte della gente scesa dal treno delle 8 sembrava invece formata da lavoratori. Gironzolo a tempo perso tra i vicoli, tra cui ieri, durante la furia del libeccio, scorrevano rivoli d'acqua per gli spruzzi e la condensa. Prima di partire per l'escursione, vado infine a prendere un caffè nell'unico bar aperto in bassa stagione, dove ieri l'avevo pagato 1,5 €, mentre oggi me lo fanno solo a 1 €. Forse faccio più colpo sul barista di oggi che sulla barista di ieri…
Risalgo la via principale, lungo cui il piccolo bus di linea e l'auto dei carabinieri si sono spinti fin dove possibile. Raggiungo un grande parcheggio multipiano e alcuni edifici dall'architettura dissonante, nei pressi della strada delle Cinque Terre. La attraverso, incontro una signora con due bellissimi cani, supero un ponticello di pietra sul Rio Maior, che diede il nome al paese sotto cui scorre, e mi inoltro nel viottolo diretto al santuario di Montenero. La mulattiera è lastricata con pietre lisce, che umide sono un patinoire. Mi trovo sul fondo di una valletta verde, tra due muri che delimitano degli appezzamenti, in parte tenuti ad orti. Il cielo sul mare si è sgombrato, mentre sui monti soprastanti stazionano delle nubi basse. Su un altro ponte di pietra ripasso il torrente, da cui captano molti tubi di gomma nera, costeggio una casetta, assediata da pali della luce e relativi fili, e imbocco una scalinata. I muri a bordo sentiero trasmettono una sensazione di vetusto. Non so perché, ma figuravo tutte le Cinque Terre, o almeno le zone più turistiche, tirate a lucido come l'abbazia di Lucedio o i masi altoatesini, invece qui c'è quel non so che di trascuratezza tipicamente italiano.
Mi incuneo in una stretta valletta, dai fianchi ripidi, restando un poco a monte del rio. Nel letto c'è un grande esemplare di noce, con estese ramificazioni. Sul mio lato, esposto a nord, un muro delimita un fitto bosco mediterraneo, che nasconde dei terrazzamenti abbandonati, mentre sull'altro versante ce ne sono anche alcuni tenuti o abbandonati da poco. Ai fianchi della mulattiera, dalla partenza al santuario, ci sono anche delle nicchie votive dedicate alla Madonna, con dei bassorilievi posti in occasione della Pentecoste 2009. Incrocio la strada asfaltata, presso cui ci sono delle case abitate, a volte mantenendo lo stile locale, a volte in stile più moderno, e coltivi, soprattutto vigneti. Ad un certo punto, vedo dei grandi terrazzamenti su un pendio molto ripido, invasi dall'erica, con muri anche ciclopici. Il fondo resta sempre scivoloso.
In corrispondenza di un secco tornante a destra, finiscono le zone coltivate ed entro in un bosco di pini diradati, con un fitto sottobosco di erica. Tuttavia più avanti mi accorgerò che anche questa zona, ora più selvaggia, in passato era terrazzata e quindi coltivata. Godo di uno scorcio sul mare, dove permane una densa foschia, così come le nubi basse sul crinale. Un castagno ceduo è caduto sul sentiero, trascinandosi dietro alcune pietre del muro a secco che lo sosteneva. Castagni così vicini al mare sono una stranezza naturalistica comune in Liguria, il cui terreno impervio li rendeva la più remunerativa fonte di carboidrati, senza contare gli impieghi come legname da costruzione. Trovo un'edicola votiva, con una statua della Madonna all'interno e incisi nomi di persone sull'intonaco esterno. La mulattiera spiana decisamente e poco dopo spunta il santuario, che è già baciato dal sole, che qui invece non è ancora arrivato; il panorama si apre quindi anche su Riomaggiore e la costa delle Cinque Terre. Poco prima di arrivare a Montenero, passo a valle di casette colorate con terrazzamenti recuperati, che non sono raggiunte dalla strada ma da una monorotaia.

Entro nel recinto del santuario attraverso un cancelletto e vado verso il filare di sontuosi pini domestici sul lato verso il mare, dov'è arrivato il sole. Di qui ammiro la costa fino all'isola del Tino, immersa in un'atmosfera bigia e caliginosa, che non risparmia né il cielo, né il mare, né la terraferma. Nonostante la foschia, va un po' meglio verso le Cinque Terre, a cui mi affaccio dal piazzale dinnanzi al portico: sono ben distinguibili Monterosso, Corniglia, Volastra e Riomaggiore, mentre Vernazza e Manarola sono nascoste dietro dei costoni. Il santuario fu edificato in un punto in cui un crinale improvvisamente precipita verso il seno di Riomaggiore ed è perciò incredibilmente panoramico. Se si percorre l'escursione in verso opposto, è una posizione strategica da cui ammirare il tramonto; tuttavia, avendo già vissuto l'esperienza, oggi preferisco goderlo dalla chiesa di san Pietro a Portovenere, che si presta altrettanto bene. Visto che la panchina più panoramica è fradicia, mi siedo invece sul sagrato in pietra, che è freddo, ma più asciutto, a bere del tè. Il santuario è bassomedievale, risalente quindi a un periodo di poco posteriore la fondazione di Riomaggiore, ma il suo aspetto attuale è dovuto a rifacimenti ottocenteschi. Il campanile è rosso e presenta un tetto con copertura di pietra vagamente bizantineggiante, che ho visto anche in un ponte finto medievale a Pontremoli e nella chiesetta di Vru, nelle valli di Lanzo. Durante la mia permanenza, la foschia sembra aumentare, perché l'isola del Tino, precedentemente grigio topo ma distinta, tende a scomparire tra mare e cielo.
Proseguo dirigendomi verso il retro del santuario, dove arriva una monorotaia e da cui entro in un gruppo di lecci molto carino, per poi passare in ambiente più aperto. Sono sul crinale che dal santuario sale verso il Telegrafo, che ora sale più gradualmente, tra alcune case e molti pali della luce. Voltandomi, godo di una bella vista su Montenero. Costeggio poi un vigneto dove un vecchio con indosso una vistosa giacca viola, sta zappando il terreno con un graspo, una zappa a due punte, per scavare dei solchi tra i filari e accumulare il terreno verso i tronchi delle vigne. Resto un po' incerto se farmi notare e provare a scambiare due parole, ma alla fine prevale la timidezza e proseguo in un ambiente di macchia mediterranea. Tralascio due sentieri sulla sinistra, diretti alla strada dei santuari tra Volastra e il Telegrafo. Attraverso un ambiente di macchia, a volte annerita da incendi, popolata di passeriformi tra cui mi sembra di riconoscere un codirosso, che ha ripreso dei vigneti, i cui casotti di servizio in genere sono ancora in piedi, a volte ristrutturati con impiego di cemento. Altri vigneti, raggiunti da una monorotaia, sono tenuti. Sotto di me c'è una dorsale dal crinale morbido, con terrazzamenti tenuti. La vista si apre anche su Fossola o Campi (non sono sicuro di quale), ma senza permettermi di distinguere i dettagli, per la densa foschia. Il sole rimane nascosto dalle velature, così come parte del crinale dalle nubi basse.
Arrivo in una zona di terrazzamenti in via di recupero, dove un cartello avvisa che il sentiero è chiuso per lavori di manutenzione. Più in basso, in una conca, due operai stanno infatti ripristinando un muro a secco. Gli operai mi fanno però passare, persino scusandosi di ingombrare, come se facessero qualcosa di losco. Sono un italiano anziano, che fa da guida, e un giovane balcanico. Passo sopra le pietre ammucchiate prestando attenzione a non calpestare i loro attrezzi, li ringrazio e proseguo. Con il freddo che è sceso, dopo che il sole è scomparso dietro le velature, penso che potrei tranquillamente camminare con il pile.
Sono alle poche casette di Lemmen, raggiunte anche da una monorotaia. È uno dei borghi da cui, terminata la minaccia delle incursioni saracene, gli abitanti scesero a fondare Riomaggiore. È costituito da una chiesetta con una porta scrostata e meno di una manciata di edifici, da cui sento provenire dei rumori di gente che lavora. Passo accanto a un grosso masso ricoperto di licheni, da cui vedo la strada e il mare, di cui sento il rumore delle onde infrangersi contro la costa. Campi è ormai prossima. Oltre ci sono due grandi vigneti cintati, in una zona pianeggiante, tra cui passo, dove sono anche fioriti dei piccoli pruni e al cui interno c'è della gente di mezza età che lavora. L'esistenza di questa coltivazione è permessa unicamente dalla monorotaia di lemmen, senza cui sarebbe improponibile trasportare gli attrezzi e il raccolto. Il sentiero prende quindi a inerpicarsi con gradoni quasi megalitici. Dopo un traverso tra fasce abbandonate, occupate da una macchia mediterranea matura, che include lecci anche abbastanza grandi, il sentiero riprende a salire, con fondo meno preservato, e taglia in ambiente più aperto, inizialmente costeggiando una linea elettrica. Presto attenzione a delle rocce blu molto scivolose, credo dei calcari, e costeggio una lunga aratura di cinghiali. Passo tra alcune grandi querce, con il tronco ricoperto di muschio e licheni, e poi vicino a tre grandi castagni cedui nati dalla stessa ceppaia, coperti anch'essi di muschio e licheni. Subito dopo sono al colle del Telegrafo.
Il passo è raggiunto da una strada asfaltata da Biassa e da una sterrata chiusa ai mezzi motorizzati, che arriva invece da Volastra, detta via dei Santuari. Raggiungo anche il sentiero dell'Alta Via, proveniente dal Verrugoli, il monte con le antenne che vedevo da Riomaggiore, e diretta a Portovenere, che seguirò quindi fino al termine. Sul passo c'è un ristorante con l'architettura da rusticità metropolitana, che era raccomandato sulla mia guida Anni Novanta e gode tuttora di recensioni lusinghiere sui siti specializzati. Tra le auto parcheggiate e i fili elettrici che sfrigolano, il posto non è particolarmente ameno, per cui non approfitto delle panche, peraltro umide, ma guardo e passo. Oltre gli edifici, mi fermo a contemplare i licheni su un grosso tronco, dove mi sembra di riconoscerne almeno cinque tipi diversi, anche se l'identificazione andrebbe fatta almeno con una lente d'ingrandimento e soprattutto da un naturalista competente. Proseguo in piano lungo l'ampia dorsale, in una zona di transizione tra la macchia mediterranea del versante marino e il bosco mesofilo di castagni di Biassa. Sento diverse esplosioni delle cave di arenaria della zona, un'attività tradizionale, fiorita durante la costruzione del porto militare di La Spezia, protrattasi fino ai giorni nostri. Costeggio una casotto intonacato dalle funzioni incerte e faccio caso agli attrezzi del percorso ginnico. Un recinto metallico consunto, chiuso da un lucchetto nuovissimo, cinge un campo di sterpaglie con una carriola abbandonata, come sembra abbandonata varia legna accatastata. Tutto questo settore, dal Telegrafo a Sant'Antonio, trasmette una sensazione di abbandono. Giungo al rustico chiosco con ampio dehors presso la cappella di sant'Antonio (raggiunta anche dalla strada dal Telegrafo), che in questa stagione è aperto solo nei weekend. Il posto sembra fuori mano, ma è all'incrocio di due frequentati percorsi escursionistici, l'Alta Via e le scalinate dirette ai vigneti e alle cantine di Tramonti. Qui speravo di trovare una sistemazione asciutta sotto una tettoia: resto però deluso e mi tocca ripiegare su uno spuntino in piedi. Mentre mangio, passa in direzione opposta a me un vecchio barbuto, con abiti da escursionista e bastoncini, che nemmeno mi scorge.

Visto che ora il tragitto si prospetta in piano, riparto con un pile addosso. La strada, che davanti a sant'Antonio era lastricata in porfido, prosegue ampia e sterrata sul crinale. Su un masso di colore giallastro due targhe ricordano chi si è preso cura di questi sentieri. Credo che il masso appartenga al complesso del macigno, una roccia sedimentaria originata dai depositi delle correnti di torbida, quindi in ambiente sottomarino. Lascio il crinale, che sale fino a un cocuzzolo, e resto invece sul versante del golfo, tra castagni e qualche pino. Aggirato il dosso, lascio la strada e proseguo su un ampio sentiero sulla dorsale, con lecci sul lato marino e castagni e pini dall'altro. Passo da una zona con alberi segati e mi porto sul versante marino, dove sento il mare ruggire in basso. I tronchi sono coperti di licheni prevalentemente sul lato a mare. Chi è venuto qui in un giorno di libeccio sa bene il perché: il vento, raccolta l'umidità del mare, risalendo il pendio condensa in una nebbiolina fradicia, sferzata contro i tronchi, che inzuppa su quel lato. È successo giusto ieri e la fanghiglia sul sentiero è ancora qui a ricordarlo.
Vedo delle sughere, che a questa latitudine sono al limite settentrionale del loro areale e ciononostante riescono a sopravvivere a quote collinari. Affascinato dai loro tronchi, ne fotografo un po', includendo anche l'ambiente di massi ricoperti di licheni verdi. Adoro queste atmosfere, che evocano in me culture che hanno mantenuto un rapporto con il bosco selvaggio, come le fiabe dei fratelli Grimm, mentre associo l'Italia piuttosto alla natura addomesticata dall'uomo, che gratta via i licheni dai tronchi degli ulivi, credendoli chissà che. Infatti qui da noi la colonizzazione si è spinta fin nei più remoti recessi, a volte anche dove non c'erano terreni produttivi, ma solo vie impervie tra una valle e l'altra. Inoltre mi ricordano la pioggia (e la nebbia) apportatrice di vita, che invece dalle mie parti è abbastanza rara, specie in questi ultimi anni. Ieri, nonostante il libeccio sferzante, avevo voluto percorrere un tratto di Alta Via in mezzo alla condensa. Sebbene non abbia resistito molto a lungo, è stato rigenerante, dopo la lunga siccità invernale che attanaglia la mia regione, dove il terreno è polveroso. In un documentario alla TV, una volta avevo sentito che la città di Zimbabwe era stata edificata in una zona in cui condensava la nebbia.
Odo il verso di una ghiandaia dove torno sulla dorsale e vedo dei tronchi di pino accatastati presso un tornante della strada, che lambisco. Attraverso quindi un lungo tratto di bosco di sughere coperte di muschio e dalle forme creative, plasmate dai venti del nord che ne seccano le gemme su quel lato e ne fanno crescere la chioma protesa al mare. Attraverso un zona permeata dai canti degli uccelli, dove vedo anche un paio di trespoli metallici dei cacciatori. Il sentiero prosegue in discesa, in parte su fondo roccioso, fino a giungere a una costruzione cinta da un reticolato, da cui proviene un pungente odore di mosto. Poco prima, in mezzo al sentiero c'è un albero caduto, aggirato da una traccia di passaggio. Costeggiando il terreno della costruzione, resi invisibili dalla siepe, intravedo ormai sotto di me le case di Campiglia, che raggiungo in breve, e più lontano il golfo di La Spezia, etereo per la densa foschia.
Allo sbocco del sentiero alcuni cerchi da botte arrugginiti sono appesi a un muro. Campiglia è formata da qualche casetta sul crinale, più qualche casa sparsa sul versante marino, tra cui una con un grande pino domestico che rivaleggia con quelli di Montenero, su terrazzamenti in parte tenuti a prato e in parte a vigneto. Il paese ha un negozio di articoli sportivi che affitta e-bike, una gelateria-pizzeria, un bar alimentari, un locale per merende e un ristorante, tutto chiuso. È ora di pranzo e almeno un caffè l'avrei gradito. Peraltro poi le recensioni più positive del ristorante parlano soprattuto del panorama, mentre quelle che si concentrano sulla qualità del cibo e sulle porzioni sono meno entusiaste. Tuttavia il paese non è morto, perché un po' di gente è in attesa che parta l'autobus di linea diretto al capoluogo, qualcuno si aggira tra le case, altri inforcano l'auto e scendono verso la città. Mi fermo su una panchina con vista, nella piazzetta della chiesa, dove soffia la brezza, a mangiare la focaccia presa a La Spezia. La luce sul mare è un po' migliorata, perché si vanno diradando le velature, ma la foschia resta spessa; se non altro almeno il suo colore sta virando sul verde. Nel piazzale si aggirano dei gatti, nella stagione degli amori, e mi viene a trovare pure un pettirosso, che spera in qualche briciola.

Passo tra la chiesa e la canonica, costeggio un'area giochi per bimbi e sono ai resti del mulino a vento di cui è rimasta la struttura cilindrica in pietre. In carenza di acqua corrente, la principale forza motrice del tempo, gli abitanti adottarono questa strategia meno comune nell'Italia Settentrionale. Del mulino è rimasto solo l'edificio cilindrico ristrutturato, mentre i macchinari non ci sono più. Oggi si trova in un fitto bosco, diversamente da come raffigurato sulla mia guida di trenta anni fa, accanto a un grande leccio. Passo quindi per una pineta diradata, dove sono presenti dei pini più giovani tutti coevi, probabile effetto del passaggio di un incendio. E infatti subito dopo attraverso un forteto di lecci con inframmezzati pini dalle cortecce annerite e in molti casi caduti a terra. Lascio poi il crinale e, con una secca svolta a sinistra, scendo sulla strada, in corrispondenza di un piazzale, dove è stata abbandonata dell'immondizia. Seguo la strada, da cui godo di uno scorcio sul porto militare con le sue navi verdi, e lungo cui c'è una grande casa abbandonata, raggiunta dalla corrente e con un'antenna sul tetto.
Non molto dopo lascio la strada per un sentiero sulla destra e attraverso un bosco dove ci sono molti tronchi di pino sfracellati a terra, per poi iniziare una discesa nella macchia, su un fondo di rocce rosso scuro, presumo diaspri, una roccia sedimentaria formata dai gusci silicei di microorganismi marini. Passo tangente la strada, lasciando l'ALta Via del Golfo, a cui mi ero allacciato a Campiglia, per seguire un sentiero che passa sul lato marino, su fondo di rocce scistose con strati quasi verticali. Sento distintamente il rumore del mare e ogni tanto lo intravedo anche, tra la fitta vegetazione di arbusti di leccio. Improvvisamente esco dalle vegetazione come da un tunnel e mi trovo accecato dalla scia del sole sul mare, nonostante gli occhiali da sole, e assordato dal frastuono delle onde che si rifrangono sulle scogliere. Da uno slargo della fitta vegetazione vedo delle costruzioni quasi in riva al mare, credo nei pressi della spiaggia del Persico, fin dove arrivano dei terrazzamenti. Poco oltre il sentiero passa su una aerea roccia esposta al precipizio, da cui vedo in basso una costruzione turrita dall'aspetto recente, a monte di alcuni terrazzamenti tenuti a prato. Attraversata altra fitta vegetazione, da una dorsale vedo le falesie del Muzzerone, quindi in un tratto più aperto compaiono la Palmaria e il Tino, mentre sotto di me non vedo altro che macchia mediterranea sprofondare fino al mare. La luce è discreta, perché ora la foschia è accettabile.
Arrivo su un poggio roccioso, da cui c'è una vista strepitosa su Muzzerone, Palmaria e Tino. Sono in località Pitone, così chiamata da un termine dialettale che indica un punto panoramico. La prima cosa che penso è che mi piacerebbe venire qui in una notte di luna a fotografare. Anche adesso però non è male: monto il polarizzatore, per saturare i colori della vegetazione e smorzare la foschia, e mi protendo verso il mare. Sopra di me invece c'è una parete di rocce molto fratturate e gradinate, sommerse dalla macchia mediterranea, che circonda anche me e ogni altro elemento del panorama: è tutto spavaldamente verde. Sporgendomi vedo delle falesie in riva al mare, che sommerge gli scogli con le ondate. Purtroppo vedo anche delle bucce di mandarino, sia sulle rocce aggettanti che sui cespugli sottostanti. Finalmente mi ricordo di avere il binocolo in fondo allo zaino, con cui distinguo chiaramente la chiesa di san Pietro a Portovenere, il radar sulla Palmaria e il faro sul Tino. Arrivano intanto due signori inglesi di poche parole, che si fermano in castigo in un angolino, senza andarsi a sporgere, e mi dicono sommessamente «A nice place», prima di ripartire.

Il sentiero prosegue in ambiente più aperto e più caldo, tanto che adesso sono per la prima volta di oggi in maglietta. Il panorama di fronte resta il medesimo, anche se il punto magico era il Pitone; l'accecante riflesso del sole sul mare mi accompagna sulla destra. Su una dorsale si apre anche alle mie spalle, sulla spiaggia del Persico e in alto su alcune piccole pareti di roccia, anche strapiombanti, immerse nella fittissima vegetazione. Saranno inviolate, perché chi ha voglia di fendere l'impenetrabile macchia per mezzo tiro di corda? Poco prima di arrivare a una sella, vedo un cespo di ampelodesma, un'alta erba endemica del Mediterraneo Occidentale, che ha il punto più settentrionale del suo areale nel Promontorio di Portofino, dove è conosciuta come lisca. In passato era impiegata per fabbricare reti da pesca. La discesa è a tratti scivolosa, per il terriccio umido; ad un certo punto mi scivola un appoggio, acquisto velocità e, nonostante i tentativi di frenata, vado a sbattere contro il terreno, riportando qualche lieve escoriazione e infangandomi gomiti e pantaloni. I danni maggiori li subisce invece un bastoncino, che si piega nell'urto, ma resterà utilizzabile fino a Portovenere.
Poco dopo il sentiero sbuca su un tornante della strada, dove è stata installata una panchina, su cui un vecchio sta seduto ad occhi chiusi a prendere il sole. Continuo a scendere verso la Sella di Derbi in ambiente aperto, dove trovo un cippo in ricordo di alcuni aviatori caduti in un incidente negli Anni Trenta. Raggiungo nuovamente la strada, che ora seguo verso destra, portandomi sull'ombroso versante del golfo. Passo accanto a una grande cisterna arrugginita, che forse serviva a raccogliere l'acqua piovana scolata dalla strada a fini agricoli. A un tornante la lascio temporaneamente per un taglio che si inerpica ripido, la ritrovo e giungo nei pressi di una grande cava di portoro. Si tratta di un calcare ricco di materiale organico, che gli dona il caratteristico colore scuro. È impiegato come pregiata pietra ornamentale, già dai romani ma soprattutto dai genovesi a partire dal XVI secolo, ed è ormai quasi esaurito. In questo momento la cava sembra inattiva, anche se il passaggio di camion è stato sufficiente a coprire la zona di fronte all'accesso intorno all'accesso di una fanghiglia marroncina. Da qui c'è una bellissima vista sul golfo, attraversato da un mercantile diretto al porto, e, sulla costa qui sotto, sulla fortezza di punta Varignano, oltre che su un porto turistico pieno di barche a vela.
Ad un certo punto sfreccia un pick-up, che emana del puzzolente gas di scarico di colore grigiastro. Una coppia di ragazzi scende a piedi; lei ha l'aspetto emaciato di un'eroina da romanzo scapigliato. Arrivo a un tornante, dove trovo parcheggiate le auto dei rocciatori, perché da qui parte il sentiero che porta alle falesie e al rifugio Muzzerone, loro base. Io scelgo invece di salire al forte, perché la mia guida vintage descrive come panoramico il sentiero che da lì scende e si va a riallacciare all'Alta Via. Il sentiero di salita taglia i tornanti della strada, salendo dritto per dritto senza particolare storia, a parte la mia gratitudine per gli aghi di pino, che mi isolano dalla fanghiglia scivolosa di questo versante esposto a nord. Sbuco sulla strada nei pressi del forte, uno di quelli voluti da Domenico Chiodo, il progettista dell'Arsenale, tutt'ora zona militare. Vado ad affacciarmi dal piazzale antistante l'ingresso, da cui vedo dei pinnacoli protendersi nel mare, nel fitto bosco.
Tornato sui miei passi, da un tornante della strada percorro un tratto in piano, quindi la discesa, che è ripidissima e sassosa. Inoltre è immersa nel fitto bosco, che deve essere cresciuto nel frattempo, grazie a una riduzione della frequenza degli incendi: non è quindi per nulla panoramico e piuttosto assai infido, specie per me, che sono appena scivolato. Non mi consola apprendere che il calcare dei sassi contiene un fossile. La mia guida consiglia anche di andarsi ad affacciare con prudenza sulle tracce dirette alla parete, promettendo che vi cresce una pianta rarissima degli ambienti aridi, ma me ne guardo bene. Ad un certo punto a fianco del sentiero trovo quella che sembra una cabina di trasformazione, sia per l'architettura che per la presenza di isolanti elettrici sui muri. Proseguo senza particolarmente badare ai dintorni, ma solo a dove poggio i piedi.
Confluisco sul sentiero proveniente dal rifugio e passo accanto a due casette diroccate in parte rifatte con cemento. Avanzo nella fitta vegetazione mediterranea, tra resti di edifici e muri, con lo sciabordio delle onde sempre più vicino. Inizio a scorgere la chiesa di San Pietro finché arrivo in un punto aperto, da cui domino la punta su cui sorge. Mi fermo dieci minuti con la fotocamera puntata, nella speranza di fotografarla insieme alla ribollente schiuma di un'ondata, ma il mare si va placando, per cui mi devo accontentare di modesti spruzzi. Ad ogni modo la foschia è ancora diminuita e il sole è già abbastanza basso. Riesco così a mettere in saccoccia una buona foto, che potrò impiegare per le cartoline. Sono ormai prossimo al grande forte genovese a monte di Portovenere, che raggiungo e costeggio, in discesa ripida e sempre scivolosa, spaventando la cagnetta di una signora, che sta ammirando il tramonto dal miglior pointe de vue su San Pietro.

Arrivo ai margini del borgo antico, dove entro attraverso una delle porte, e mi dirigo verso la chiesa di san Pietro, all'estremità opposta del paese, dove sono in corso diversi lavori. Non bado particolarmente all'architettura degli edifici ai fianchi del vicolo. Raggiungo la chiesa, passando sui caratteristico lastricato di rosso ammonitico, un calcare ricco di ossidi di ferro, che vi danno il colore, e di fossili, che però il millenario calpestio ha consunto. Dopo aver esplorato la grotta di Byron, piazzo il cavalletto sulla quadrifora, in attesa della luce migliore. Intanto arrivano turisti di vari continenti. Costoro, chissà perché prediligono fotografarsi con il sole sullo sfondo, che c'è pure a casa loro, anziché con il Muzzerone, che invece c'è solo qui. Quando il sole, ormai prossimo a sprofondare nel mare, sbuca tra due velature scatto, cogliendo l'attimo in cui un'onda si infrange sul pinnacolo che delimita la grotta di Byron. Dal momento che non ci sono cancelli e bloccare l'accesso, decido di tornarci con il buio per una foto spaziale.
Visitata la chiesa, che presenta all'interno le stesse belle pietre dell'esterno e un'architettura romanica, dopo il tramonto vado a fare una merenda in uno dei pochissimi locali aperti. Il menu sembra tarato sugli stranieri, che hanno un'idea vaga e confusa del Mediterraneo e non conoscono certo i cibi tipici della zona, come quegli anglosassoni che, in una colonia greca della Corsica, cenarono con una pizza. Prendo la cosa più etnica che hanno, cioè la focaccia farcita con le acciughe, ma quelle del vasetto che troverei anche all'Esselunga dietro casa. Comunque la focaccia scaldata nel fornetto è unta e buona. Nel locale sono trasmesse canzoni italiane d'annata che, quando sono precedenti gli Anni Settanta, il proprietario canta con trasporto. Ad un certo punto entra un signore inglese che ha urgente bisogno del bagno: in paese non mi sembra di aver visto servizi pubblici. Vede per primo me e gli indico la scala per il piano inferiore. Il proprietario in quel momento è impegnato in una partita a domino con un amico, approfittando del fatto che sono l'unico cliente. Si risente per non essere stato interpellato e chiude a chiave la porta della scala. Quando il turista risale, lo lascia armeggiare un po' con la maniglia e, dopo avere aperto, gli fa una piazzata in italiano, lingua a lui incomprensibile, e gli chiede un euro per l'uso del bagno. Traduco come posso e l'espressione del signore mostra sorpresa di fronte a cotanta sceneggiata per una richiesta così banale.
Quando le tenebre sono in procinto di calare, torno alla chiesa e la fotografo nel crepuscolo al sodio, per poi dedicarmi al Muzzerone una volta calato il buio. La grotta di Byron è illuminata a giorno e la sua luce arriva fino alle falesie, ma l'effetto non mi disturba e non mi imepdisce di immortalare le stelle. Riattraverso infine il paese per l'ultima volta e vado al capolinea del bus per La Spezia, che mi riporta in città per la tortuosa strada litoranea.

Per approfondire

A. Girani, Guida alle Cinque Terre, Genova 1998

Galleria fotografica

Mareggiata a Riomaggiore
Mareggiata a Riomaggiore
Riomaggiore
Riomaggiore
Mareggiata a Riomaggiore
Mareggiata a Riomaggiore
Mareggiata a Riomaggiore
Mareggiata a Riomaggiore
Mulattiera per Montenero
Mulattiera per Montenero
Montenero
Montenero
Montenero
Montenero
Lo scoglio Ferale da Montenero
Lo scoglio Ferale da Montenero
Le Cinque Terre e Punta Mesco da Montenero
Le Cinque Terre e Punta Mesco da Montenero
Trenino a Lemmen
Trenino a Lemmen
Vigneto a Lemmen
Vigneto a Lemmen
Colle del Telegrafo
Colle del Telegrafo
Sant
Sant'Antonio
Sughera
Sughera
Bosco di sughere
Bosco di sughere
Bosco di sughere
Bosco di sughere
Pitone
Pitone
San Pietro
San Pietro
Muzzerone
Muzzerone
San Pietro
San Pietro
Muzzerone
Muzzerone

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