La partenza


Quando la sveglia suona, dalla finestra arriva una luce fioca: a pochi metri le sagome dei larici si dissolvono in un grigio indistinto.
Ci alziamo, facciamo la coda al bagno, ci laviamo la faccia e torniamo in stanza. Accendiamo la luce per svegliare anche i sordi, che non hanno sentito il brusio. «Sono le 7?» «Sì.» «Che tempo fa?» «Nebbia fitta». Le previsioni annunciano pioggia a tratti. Ci vestiamo meditando su quanti e quali strati sia opportuno indossare. È il caso di mettere il guscio? In salita farà caldo con il pile? Mi tengo i guanti in tasca, per ogni evenienza. Faccio che tenere in mano l'ombrello?
Scendiamo nella sala da pranzo per fare colazione. «Quelli cosa sono?» «Sembrano fiocchi di cereali al miele.» «Il caffè dov'è?» «Fa schifo.» «Lo uccido con un po' di burro.» «C'è del miele?» «No, solo marmellata.» «Hai già finito?» «Ho solo bevuto il caffè, io non faccio colazione.» Riempio la tazza di latte e fette biscottate sbriciolate. Odio la marmellata, ma qui ne devo spalmare qualche fetta di pane se voglio avere le forze per i mille metri di salita.

Quando termino di lavare i denti, mi accorgo che mi restano venti minuti prima della partenza. Preparo lo zaino in fretta e lego stretti gli scarponi. «Vado a fare qualche foto alla foresta nella nebbia.» «Ok».
Riprendo il sentiero del giorno precedente, dove avevo visto dei larici secolari nei pressi del rifugio. Dopo pochi passi scarponi e pantaloni sono già zuppi di rugiada, ma non fa freddo tra queste dense nubi di libeccio. Hanno tenuto lontani tutti gli escursionisti, tranne noi, che già due anni fa tentammo invano di salire e oggi sappiamo che dovremo nuovamente rinunciare: saliremo più in alto dell'altra volta, ma si capisce subito che non possiamo affrontare gli altopiani, una distesa rocciosa senza punti di riferimento.
Nella nuova atmosfera, stento a riconoscere i luoghi visti ieri: le forme si dissolvono già a pochi metri. La nebbia è da grandangolare, fitta e impenetrabile. E anche un po' buia. Quando leggo per la prima volta l'esposimetro, mi accorgo che devo barcamenarmi tra ISO e profondità di campo per poter scattare a mano libera. Fossi stato più previdente, mi sarei portato i due chili di cavalletto e oggi avrei lasciato gli altri andare per i fatti loro verso la cima, mentre io mi sarei fermato tutta la mattina qui intorno.
Ritrovo i larici secolari e il caos di rami che adesso si susseguono schiarendosi e sfumando. Cerco di respirare e di non farmi prendere dall'ansia, per la ripugnanza a far aspettare il gruppo; ma in fondo non è difficile ora che sono in questo paradiso ovattato. Di quei momenti non ricordo nessun suono: forse non si sentiva neppure il calpestio dei miei scarponi sulla terra soffice per l'umidità. A ogni passo vale la pena di fermarsi ad esplorare i dintorni col mirino, perché la foresta muta aspetto ad ogni metro: basta spostarsi di poco e alberi appaiono, altri recedono nella nebbia, colori si saturano e altri sbiadiscono. Tutti gli elementi sono uguali e ogni scena diversa. Non oso allontanarmi dal sentiero per paura di perdere l'orientamento o di scivolare sull'erba umida. D'altronde non serve fare tanta strada, meglio tante giravolte.





Comincia a piovigginare. Ora il cappuccio mi avvolge la testa e sono ancora più isolato da tutto il resto. Le gocce punteggiano la giacca e l'obiettivo. Non potrebbe essere certo questo a fermarmi: ormai, dopo quattro anni di neve, pioggia e umidità salmastra la fotocamera si accende solo con un rituale magico segreto, che non so neppure come ho fatto a scoprire. Peggio di così…
È però ora di tornare. Al mio arrivo solo i più veloci sono già fuori dal rifugio, quasi pronti. «Cavolo, ho dimenticato l'ombrello in stanza! Ah no, è nella tasca laterale». «Cosa tieni sotto la giacca?» «Solo la maglietta.» «No, io tengo pure la camicia. Basta andare piano per non sudare.» «Da ragazzo con gli amici non ho mai rinunciato a partire per il cattivo tempo. Tutto fa parte della montagna».
Salutiamo i gestori e ci incamminiamo. Le nostre giacche e i nostri coprizaini sono le uniche macchie vivaci in un paesaggio grigio: anche i primi rami autunnali dei larici sono dorati solo a una manciata di metri. Ma per me che chiudo il gruppo e mi attardo scattare foto, solo chi mi precede è l'ultima macchia colorata prima dell'indistinto.


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Sergio Chiappino

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