Pieve di Piobesi


Gloria meditabonda è lo spirito di stamattina. Brillanti come il gelato di ieri sono le velature, le foschie e la neve sui monti, per la sintonia tra il sole ancora sotto l’orizzonte e la luce diffusa nel cielo dell’alba. Intabarrato di malferme riflessioni, affondo nell’erba e nelle zolle intabarrate di ghiaccio, nei campi attorno all’àncora della speranza nei secoli della malora. Dei colori percepisco la profondità, ma non la luminosità, sebbene un mattino sfolgorante stia schiarendo e presto il sole sarà così accecante, che dovrò contrarre le pupille per stare all’aperto.
Che poi mi pare una metafora balenga per un travaglio colmo tanto di angoscia quanto di domani, perché a me piace la luce fioca e detesto l’invasivo horror tenebrarum della nostra civiltà, ma per farsi capire bisogna adoperare luoghi comuni.
A questo punto dovrei uscire di scena e riformulare daccapo, come nell’inquisizione spagnola.



Svegliarsi e decidere di alzarsi è stato davvero arduo, prima ancora che una notte breve e oppressa dal retrogusto di cicoria tostata della sera fosse terminata. Una volta che sono fuori è fatta, ma capire che devo partire verso l’incerto per gioire è sempre un tormento: mi illudo sempre che se aspetto auspici favorevoli magari la prossima volta sarà tutto cristallino come un panorama con la tramontana, ma è solo un’occasione persa, serendipità non colta. Non sono capace di cogliere fisicamente che ribaltare le fantasie è appagante, che ciò che non concepisco è meglio del mio mondo chiuso e rassicurante. È infatti proprio una sensazione fisica, che percepisco nelle membra e nelle palpebre appesantite, nella mente intontita, non solo una malavoglia loica, un preavviso di senilità, che ne è solo la traduzione. Una sensazione che ogni volta primeggia sulla mia razionalità.



E così è andata diversamente da come fantasticavo, è stata diversamente appagante: tuttavia la foto alla pieve nella nebbia fitta e nell’oscurità ai margini del giorno va assolutamente scattata, prima o poi, a costo di dover entrare di straforo nel cimitero sigillato, come un antropologo lombrosiano a caccia di crani saraceni.


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Sergio Chiappino

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