Cresta Est monte Vazzeda-Sasso d'Entova

Chiareggio

15 luglio


Ciazz di Fura
Ciazz di Fura

Diario di viaggio

Tappa di transizione, un intermezzo verde e ameno, tra prati e boschi, con grandi panorami, anche se senza grandi novità paesaggistiche. Ci sarebbe stata la possibilità di evitare Chiareggio e quindi congegnare un intero trek senza toccare asfalto per due settimane, ma, a parte l'imprevisto delle calzature che l'ha già fatta sfumare, la prospettiva di comprare della frutta e dei pomodori a Chiareggio prevale.

Come prima cosa (o ultima della notte), mi alzo per l'aurora, quando le nuvole si sono dissolte e finalmente il Disgrazia si tinge d'arancio. Rischio di perdere l'ouverture, perché devo ordinare le masserizie prima degli scatti, in quanto alle 6 l'israeliano e l'americano devono fare colazione e il mio letto deve essere riposto. Scatto anche con il cellulare per mandare una cartolina a casa.
Dopo le foto, attendo le 7 per fare colazione con Ambrogio e Luciano, che poi sono molto più frugali e rapidi di me. Oltre all'ordinario, prendo anche una fetta di torta paesana, una torta contadina della Brianza con pane raffermo, latte, cioccolato e pinoli. La mattina è insolitamente calda e senza vento. I gestori ricordano ripetutamente quella volta che aveva soffiato a 120 km/h ed erano stati costretti a portare tutto dentro, per non ritrovarlo a valle. Ho la gola irritata e lo attribuisco alla legna della stufa, ma poi scoprirò di avere un bel raffreddore, che mi perseguiterà per qualche giorno. Chissà se anch'io ho il COVID, o Omicron o come si dovrebbe chiamare adesso, come la fidanzata, che dopo un primo tampone negativo stamane ne fa uno positivo: certo non scendo a Chiesa a farne uno, ma passo tutto sotto silenzio, tanto i controlli ormai sono laschi. Non riesco a capire dove posso aver preso questo virus, qualunque sia, perché sono stato all'aperto tutto il giorno e ho dormito da solo, né ho visto altra gente con sintomi; sul bus per Chiesa l'obbligo di mascherina era rispettato.
Stamattina noto tre cose attorno al rifugio. La prima è la pietra bianca sul comignolo, pure qui, ma mi sembra inutile chiedere a una famiglia brianzola. La seconda è quella che sembra genziana maggiore nei pressi, o magari una specie affine, perché i fiori mi sembrano leggermente diversi, a meno che non siano seccati prima di aprirsi. L'ultima è un gregge di pecore, senza pastore né maremmano, perché evidentemente qui i lupi sono ancora sporadici. D'altronde questi monti ripidi e rocciosi non sono certo il terreno più adatto a loro, né per caprioli e cervi, le loro prede predilette. Cronache del Settecento raccontano che furono sterminati dopo che branchi famelici calarono fin dentro gli abitati divorandovi dei bambini, una storia che ho trovato anche altrove nei medesimi anni di freddo intenso e sconvolgimenti climatici.
Scendo per un sentiero molto migliore da quello da cui sono salito, un sentiero vero di montanari. Supero vari rii, uno anche con una gola rocciosa a monte, tra prati con fioriture gialle simili all'arnica e a certi seneci. Passo quindi nella zona delle brughiere a ginepro e rododendro e infine dei primi larici e cembri, tra cartelli che illustrano i consorzi vegetali delle diverse quote. Vedo l'alpe dell'Oro, un bel poggio erboso tra fitti boschi, da cui parte il sentiero in quota, che porta direttamente all'alpe Fura, visto ieri ben tracciato dall'alpe Pirola, tra boschi e canaloni di slavina. Il toponimo Oro di solito indica un margine, un orlo appunto, ma la guida di Bassi sostiene che «una buona ora più in su, ai piedi della roccia, evvi una buca profonda una dozzina di metri, che si ritiene fosse la cava dell'oro, la quale diede il nome alla montagna». Anni fa i due di Lodi avevano cercato invano di trovarne l'imbocco, ma si erano persi nella vegetazione invasiva; oggi vogliono riprovarci. Sale intanto varia gente alla spicciolata, tra cui anche dei volontari per i lavori alla tubatura. Raggiungo l'alpe Vazzeda, dove due asini cercano già l'ombra di primo mattino e dove i pascoli sono delimitati da filo elettrico. Le costruzioni sono modeste, ma nel primo Ottocento era la più grande di Chiesa per numero di edifici.

Mi immergo quindi in un bosco di conifere più fitto e ombroso. Arrivo a un bivio non segnalato, dove prendo il sentiero in quota, per toccare anche il rifugio Tartaglione, dove non ho potuto pernottare. Nei progetti, oggi avrei voluto salire al passo del Forno e al belvedere del Disgrazia, per poi scendere al passo del Muretto, da cui percorrere la storica via per l'Engadina.
Innanzitutto il nome è locale e recente, perché generalmente i geografi fino al XVII secolo lo chiamano Monte dell'Oro o Passo Malenco (prima dell'esplorazione della montagna molti passi erano detti monti). La sua storia coincide in gran parte con quella delle Tre Leghe, per cui era la via di accesso e commercio privilegiata verso la Valtellina. Era detta Cavallera o “strada del vino”, per la principale merce che vi passava nell'Era Moderna: il vino infatti non poteva essere prodotto oltralpe, ma in compenso il clima transalpino pareva essere perfetto per l'invecchiamento, che poteva durare anche un secolo e lo faceva diventare profumato e denso come il miele. L'esportazione del vino consentiva di ottenere moneta, un bene raro nell'economia contadina essenzialmente di baratto, ma non sempre gradita, poiché la moneta grigiona era formalmente bandita da Milano, per cui gli accordi, che posero fine alle contese per la Valtellina, consentivano ai valtellinesi di rifiutarla.
Non mancarono però gli eserciti, nel seguito delle vicende del rapimento Rusca, con il loro seguito di saccheggi per rifornirsi, come si usava al tempo. Una descrizione del 1833, a cura dell'ing. Rebuschini, ci dice che i malenchi la adoperavano anche per esportare in Svizzera altri prodotti locali, come piode di ardesia, fieno, vasi di pietra ollare, ma che la strada era in pessime condizioni perché i «miserabili montanari» non avevano risorse e forze sufficienti alla manutenzione. Infatti per gli statuti valtellinesi non era previsto un erario pubblico, ma era chi abitava lungo la via, o il comune nei tratti lontani da abitazioni, a dover provvedere alla manutenzione delle strade, tramite le corveé. Inoltre il passaggio era arduo e limitato a pochi mesi l'anno, tanto che era previsto un premio per il primo attraversamento di ogni annata. In effetti già allora era caduto in decadenza, essendo stato essenzialmente un passo grigione, seppure secondario rispetto allo Spluga, che successivamente ebbe anche un sistemazione viaria adeguata al traffico carrozzabile.
Durante la repubblica di Salò, servì da via di esilio per i disertori; tra i passeur ci fu la mamma di Bianco, Carla Pedrolini, che poi gestì l'alimentari di Chiareggio in cui mi fermerò tra poco. Negli anni ‘50 del Novecento era stata proposta una strada per turisti, che mettesse in comunicazione la Svizzera con Sondrio e Bergamo, e il Muretto era la via più diretta. L'ill.mo cav. Sampietro si proponeva così di valorizzare turisticamente la valle, secondo lo schema consolidato di distruggere un bene per trasformarlo in denaro, un modo di pensare alla base del concetto di sviluppo che non sembra in procinto di estinguersi, se non insieme a tutta la civiltà che sta trascinando nel baratro.
Inoltre ormai i luoghi dove camminare solo a piedi sono tante minuscole riserve nella prateria sterminata delle strade per i motorizzati, per cui si livellano le asprezze dei monti e, così facendo, li si snatura e si compromette la possibilità di fruirli per quello che offrono di originale e unico. Di questa valle, infatti, porterò a casa sopra ogni cosa la rugosità dei terreni, la difficoltà di accesso. Gli altri hanno tutto l'oceano, che ci lascino almeno questi atolli.

Percorro un sentiero in saliscendi tagliando un ripido pendio, moderatamente impervio ed esposto. C'è anche un passaggio protetto da staccionata. L'ambiente è sempre il bosco, con qualche esemplare monumentale di abete rosso. Alla fine sbuco malamente, con un salto terroso, su una pista sommariamente scavata con il ruspino, da cui salgo ripidamente al Tartaglione. Peccato che le loro famose frittelle dolci siano solo pomeridiane. Mi limito a fotografare due sdraio di fronte al Disgrazia, che è nel frattempo riapparso, dopo essersi nascosto dietro il pendio prima dell'alpe Vazzeda.
Scendo per la sterrata di accesso, ripassando dell'alpe Laresin con i suoi larici monumentali e incrociando varia gente che sale a pranzare. In un gruppetto di vecchi, c'è una signora magra e minuta, che avrà almeno 80 anni ed è molto curiosa. Le dò due dritte su un ontano a bordo sentiero, dicendole che fertilizza i terreni, perché le sue radici ospitano gli degli attinomiceti azotofissatori, analogamente alle specie tradizionalmente usate nella rotazione delle colture: potrei davvero stupirla se solo ricordassi i dettagli dell'alnocoltura dell'Appennino ligure, un complesso ciclo colturale in cui ad un certo punto erano fatti crescere degli ontani appunto con lo scopo di arricchire il terreno di composti azotati, per poi essere bruciati e passare alla fase successiva.
Dopo Forbesina mi faccio ingannare dalla carta da cui sembra che il sentiero sulla destra porti a Chiareggio, quando invece si dissolve nel bosco, costringendomi a un dietrofront, non volendo ravanare per nulla a due passi dalla civiltà. Seguo perciò una larga pista sterrata, senza un filo d'ombra, tra baite, prati e soprattutto un sacco di pedoni. Due signori partiti da dieci minuti già mi chiedono se sono sulla strada giusta per il Tartaglione.

Raggiunta Chiareggio, cambio l'acqua della borraccia (al rifugio c'era solo acqua di nevaio, formalmente non potabile) e vado a comprare della frutta per i prossimi giorni e del caprino fresco alle erbe per pranzo. Nell'alimentari rivedo la famiglia di Firenze della Porro, mentre racconta della gita al ghiacciaio. Li saluto, ma non si accorgono di me. In un bar prendo un caffè e mi fermo un po' a darmi la crema e prendere appunti. Come in molti posti della valle, hanno il Segafredo, che invece dalle mie parti è inusuale. Mi sento affine ai cokney (coatti londinesi), sbeffeggiati da Stephen, poiché giudicavano le locande svizzere dalla qualità del cognac servito. Vado anche a guardare una mostra fotografica consigliatami al rifugio perché è esposta una foto della figlia, allestita in un corridoio voltato accanto di accesso alle stalle all'osteria delle manfrigole, dove i contrabbandieri si ritiravano per fumare una sigaretta prima di affrontare il Muretto.
L'offerta turistica di Chiareggio non impressionò favorevolmente Mrs. Henry Freshfield, nobildonna inglese che vi arrivò dal passo del Muretto nel 1860 circa, perché lo descrive come «mezzo diroccato» e di aspetto che la tenne alla larga. In compenso fu affascinata dal paesaggio «selvaggio e ricolmo di bellezza».
Ai margini del paese, imbocco la stradina diretta a la Corte, toponimo che qui indica dove era accatastato il letame, ai cui margini c'è un'installazione che spiega la complessa geologia della valle. In origine avevo preventivato un tappa breve per guardarla tutta con calma, ma oggi posso solo leggiucchiare qualcosa, ritrovando informazioni sull'origine delle Alpi già note e fotografando il resto. Purtroppo i cartelloni si limitano a fornire nozioni, senza nemmeno suggerire come ci si è arrivati: ciò che distingue la scienza dagli altri sistemi di pensiero è l'indagine empirica sottostante, che fa sì che, a ogni nozione, corrispondano degli esperimenti che hanno consentito di arrivarci. Mi affascina sapere come facciamo a sapere cosa c'è 6000 km sotto i nostri piedi, pur senza che nessuno sia mai andato a scandagliare che a pochi km di profondità, molto più che sapere cosa c'è. Al capo (geocentrico) opposto, provo la stessa ammirazione per chi è riuscito a fare l'analisi chimica delle stelle, senza averci mai messo piede. Sparse intorno ci sono poi tutte le pietre con indicata la natura e due tavole di orientamento, con indicata la natura della roccia delle varie cime. La valle è in buona parte costituita da rocce di origine vulcanica, spesso passate per metamorfosi, e pertanto contiene molti filoni minerari, che in passato, prima che il miglioramento dei trasporti rendesse competitivi i minerali estratti con maggiore facilità dall'altra parte del mondo, furono intensivamente sfruttate.
Segue il tratto meno panoramico ma più gradevole della giornata, perché mi infilo in un fitto bosco di abeti rossi, molto ombroso e mite, nonostante il sole picchi. Generalmente patisco risalire i boschi in estate, perché parto presto, quando sono molto umidi, mentre ora, nelle ore centrali, l'umidità si è dissolta ed è rimasto il fresco. Come ora comprendo un'amica, che parte tardi e d'estate preferisce girare per boschi. Gli alberi sono generalmente di medie dimensioni, indice di un passato utilizzo per il legname, vista anche la vicinanza con il paese. A causa della luce secchissima non riesco a scattare foto per gli eccessivi contrasti, ma il bosco mi è piaciuto molto. Più in alto agli abeti si mischiano altre conifere. Si narra che in questo bosco fu visto l'ultimo orso della valle intorno ai primi del Novecento (secondo altre versioni fu invece ucciso all'alpe Lago). Degli orsi sono recentemente arrivati in Ossola dal Trentino, ma è più probabile che siano transitati da valli meno accidentate.
Sbuco gradualmente sui prati dell'alpe Fura, dove finalmente riesco a scattare la foto con vacca e Disgrazia. Gli illustratori ottocenteschi erano soliti introdurre del colore locale per stemperare la ruvidezza del paesaggio montano, nella forma di scene di vita quotidiana. Io non sarò da meno e lo inserirò nella forma appunto di vacche, escursionisti, oratori, trailer, partite di calcio, motociclette, vecchie con la sporta, ovvero la sua versione odierna. Alla mia destra ci sono delle pareti rocciose, da cui si estrae del serpentinoscisto. Il rifugio è proprio sopra quel salto di roccia. Alla sinistra ci sono gli edifici dei pastori, oltre ad altri storici. La guida parla di un masso coppellato nei pressi, ma c'è molta vegetazione cespugliosa, dove non ho tanta voglia di ficcarmi. Ad ogni modo, questo è un tipico luogo per questo genere di petroglifi: venivano generalmente scolpiti in posti panoramici, lontano dai centri abitati. Gli archeologi ritengono che fossero sede di patti territoriali, con versamento di liquidi alimentari. Le pratiche presero il via nella tarda Età del Bronzo (non ci sono coppelle nel sito neolitico del monte Bego) e si protrassero sino al periodo romano. La pratica di offerte alimentari su massi è ancora documentata nelle omelie del vescovo san Massimo di Torino, a cavallo tra IV e V secolo.
All'alpe arriva la strada delle vicine cave di serpentinoscisto, ma nel 1903 era stata proposta una linea ferroviaria a cremagliera e a scartamento ridotto tra Sondrio e la Svizzera, che proprio qui sarebbe entrata in galleria per valicare la catena alpina. Il costo stimato era di 9 milioni di lire (40 milioni € al cambio attuale), ma già dall'Ottocento si usava sottostimare i preventivi per invogliare le casse pubbliche a finanziare i progetti. Lo scopo principale era riaprire il mercato grigione, chiusosi con il passaggio della Valtellina alla Lombardia, che era lo sbocco ottimale per la complementarietà dei prodotti tra nord e sud delle Alpi (in primis il vino, ma anche i prodotti minerari): infatti ora la magra agricoltura di montagna si era vista invadere da prodotti concorrenti della pianura, peggiorando ulteriormente lo stato di un'economia già magra. Il traforo del Gottardo aveva relegato anche lo Spluga a pura via turistica, danneggiando l'economia valtellinese. Si prospettava inoltre uno sviluppo «nell'industria dei forestieri», all'epoca agli albori. Pochi anni più tardi, gli svizzeri aprirono le ferrovia in val Poschiavo, per il passo Bernina, e questo progetto non fu mai portato avanti.
Decido intanto di pranzare tardi alle prossime cascate, perché dalle descrizioni mi sembra il posto più bello della tappa. Dalle baite, traverso per prati impaludati, aggirando i vitelli e puntando a una grande tacca su un masso molto visibile. Scopro che una traccia partiva dal cartello sottostante, nella parte bassa del prato, ma avrei dovuto evitare le baite. Risalgo per corridoi prativi un salto roccioso, mentre un paio di coppie scende. Ricordo finalmente di annotare che ho visto delle orchidee, come mi era già capitato nei giorni scorsi, ma dimenticandolo poi nell'estensione degli appunti. Supero un torrente glaciale su un ponte e giungo a un grande pianoro erboso, detto Ciazz di Fura, oltre delle rocce montonate. Il piano è diviso in due livelli e i due gruppi alpigiani si consideravano bonariamente civiltà contrapposte, con la cura delle pedule al posto delle uova a marcare l'opposizione insanabile. Il piano dovrebbe essere paludoso, perché il cammino si svolge su massi piatti disposti all'uopo, ma il terreno oggi è a malapena umidiccio. Dato che ci sono due cascate al margine di un piano e due cascate più in alto, decido di vederle tutte e imbocco pertanto il sentiero per il passo Tremoggia. Per quanto possa sembrare strano, questa via, a oltre 3000 metri, aveva un'importanza commerciale nel Seicento, allorché era detto monte Malencaspo, in quanto era percorsa persino da cavalli, che affrontavano sul lato opposto la vedretta di Fex. Raggiungo così la quota delle cascate per dossi colorati dagli acheni della Pulsatilla alpina. Chissà quanto incantevole dev'essere quando ci sono i fiori. Ricordo che, la prima volta che feci caso agli acheni, mi sembravano così strani da ritenere incredibile che la pianta fosse conosciuta, anche se mi trovavo su un sentiero segnalato.
Delle due cascate superiori mi piace soprattutto la più lontana, perché salta da una roccia piatta e l'acqua si distribuisce su un fronte ampio, arrivando quasi a nebulizzarsi. Ai suoi piedi mi fermo a pranzare con il caprino e un pomodoro: è valsa davvero la pena di aspettare le 14.30. Per di più accanto a me ci sono dei grandi massi dalla forma articolata con fenomeni di disgregazione molto evidenti, così notevoli da meritare anche un toponimo, s'ai balum. Resto fermo a lungo, coprendomi per il fresco, quando le nuvole coprono il sole e scattando a fotografare la cascata, quando i raggi la illuminano.

Mentre mi allontano, riesco a sorprendere controvento una marmotta con il suo cucciolo, che forse anche per il rumore delle cascate, mi permettono di avvicinarmi e di osservarle per un minuto buono. Tornato sui miei passi, attraverso il piano sottostante, cercando di capire dove possa essere il laghetto ai margini del prato visto dall'alto, dove si riflette il Disgrazia. Le sponde sono paludose, anche se quasi prive di eriofori, per cui non riesco ad arrivare fin sul greto, ma la foto mi finisce comunque in saccoccia. Un altro posto dove trascorrere una notte a fotografare, ma domani non ne avrò voglia, troppo lontano dal rifugio e poi ho già un debito di sonno.
Non mi viene neppure in mente di andare sotto le cascate inferiori. Risalgo invece un pendio di massi e rocce montonate, come praticando surf su una sorta di onde di roccia, fino alla bandiera del rifugio, per poi percorrere un traverso su comodo sentiero terroso, dove rischio di ammazzarmi mettendo distrattamente un piede nel vuoto. Rimedio solo una innocua escoriazione alla coscia. Ho intanto superato due tedeschi, che decido di includere nella foto con il rifugio. Ne segue uno scambio di battute in cui riesco a formulare una frase di senso compiuto in tedesco. Uli la sera mi chiederà se sono svizzero, che non so se sia un complimento oppure un insulto, visto quello che mi hanno detto in Germania a proposito della loro pronuncia. Il resto della conversazione serale sarà in inglese.
All'arrivo i due hanno qualche problema, perché Giuliano, il tuttofare, spiccica a malapena tre parole d'inglese, ma riescono a far capire di voler pernottare, senza aver prenotato. In compenso in italiano è un gran chiacchierone. Quando gli spiego che sono vegetariano, per cena mi propone la scelta tra bresaola e alette di pollo (prenderò le seconde). Finiamo tutti e tre in una camerata di legno accanto alla sala da pranzo, con letti disposti a catacomba. Alla parete c'è una nicchia dove riporre occhiali, pila e altri oggetti personali, una dotazione fondamentale, ma quasi sempre assente dai rifugi. Visto il raffreddore, approfitto della doccia calda, che è comunque più fredda dell'acqua fredda di casa mia. Per via del sole e del vento decido di lavare i pantaloni da escursione, che, tra spruzzi di crema solare e succo delle pesche, dopo una settimana hanno qualche macchia. Quando stendo, Giuliano resta impressionato dalle mollette estratte dallo zaino.
La sera mangiamo tutti insieme e discorsi partono dal vino. Loro ne ordinano un litro in due e io inizio a raccontare dei vigneti terrazzati della Valtellina, che però loro non hanno notato, anche se in reltà il vino è piemontese. Lui mi dice che a Francoforte, dove vive, producono il sidro, apfelwein (vino di mela) in tedesco, tradizione nata con il raffreddamento climatico dell'Età Moderna, che rese impossibile coltivare la vite. Il suo migliore amico è un tedesco di Catanzaro, che assaggiandolo, commentò (lo dice in italiano): «Piscio di mulo». Gli spiego che i vigneti terrazzati alpini nacquero proprio in quel periodo: era infatti nato un fiorente mercato per il vino d'importazione e, vista la difficoltà dei trasporti del tempo, farlo più vicino possibile era la soluzione migliore. Per i montanari era l'unico metodo per vedere valuta contante estera, in un'economia che era prevalentemente di sussistenza. Peraltro il raffreddamento colpì anche qui, perché nel gennaio 1514 un gelo intenso, che trasformò il Mallero in una lastra di ghiaccio «che si sarebbe potuto passar sopra con venticinque carri caricati», riferisce una cronaca del tempo, e bruciò tutte le viti.
Mi chiede che lavoro faccio e io gli racconto della legge Basaglia e dei tempi in cui nacque la cooperativa sociale per cui lavoro. A lui viene in mente che a quei tempi era un giovane impegnato nella sinistra e che questa legge li aveva molto colpiti e ne discutevano. Spiegandogli delle persone a cui faccio le pulizie, lo introduco al concetto di fagnan, uno che non ha voglia di lavorare nel dialetto piemontese, che nel loro sistema culturale è il peggior insulto che possa essere rivolto, equivalente al cornuto del suo amico calabrese. Un vero piemontese legato alla tradizione lo applica a chiunque non viva per lavorare.
Appena terminata la cena, corro a fotografare il tramonto. Il luogo è molto panoramico, ma avrei bisogno del teleobiettivo per quasi tutte le inquadrature possibili; l'unica opzione che mi rimane è riprendere la val Sissone. Al mio rientro, riprendiamo il filo. Mi dice che il 25 agosto si devono sposare, evento che hanno rimandato per il COVID, perché vogliono fare le cose in grande. Io non ho nulla contro il matrimonio, ma al mio preferirei evitare il pranzo. Lui invece afferma di essersi divertito a un vero matrimonio terrone nel Gargano, di italiani emigrati in Germania (non riesce a capire perché hanno dovuto sobbarcarsi questa sfacchinata) dove ha mangiato per cinque giorni di fila. Ammette però che per gli sposi deve essere stato meno gradevole, perché il giorno del pranzo, dopo essersi alzati all'alba per la sessione di foto in spiaggia, hanno dovuto passare per i mille tavoli a parlare con ogni invitato.
Mi parla infine del sindaco di Francoforte, che ritiene un imbecille interessato solo alla cura della propria immagine. Cerca poi di estorcermi un parere sulla situazione politica italiana, ma, per il mio nullo interesse per l'argomento, in risposta riesco solo a balbettare.
Anche qui consulto il registro del rifugio per vedere se l'Alta Via è percorsa. Scopro che pressoché tutti da qui vanno direttamente alla Carate, passando per l'alto vallone di Scerscen e tagliando le parti di media che valle, che mi aspettano nei prossimi due giorni.

Galleria fotografica

Monte Disgrazia
Monte Disgrazia
Monte Mottuccio e val Ventina
Monte Mottuccio e val Ventina
Alpe Vazzeda
Alpe Vazzeda
Rifugio Tartaglione
Rifugio Tartaglione
Chiareggio
Chiareggio
Chiareggio
Chiareggio
Alpe Fora
Alpe Fora
Ciazz di Fura
Ciazz di Fura

S
S'ai balum
Ciazz di Fura
Ciazz di Fura
Rifugio Longoni
Rifugio Longoni

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Sergio Chiappino

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